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Gli Emergenti, grazie alla globalizzazione, passano l’esame di maturità delle crisi

La buona notizia, in quest’epoca che sembra disseminata di catastrofi, è che le economie dei paesi emergenti sono assai più capaci oggi, rispetto a quanto non fossero quarant’anni fa, di navigare le acque perigliose dell’economia internazionale, che non è roba per mammolette. Una notizia persino ottima, si potrebbe aggiungere, che certifica uno dei tanti benefici generati dalla globalizzazione di cui non si parla mai perché si preferisce sempre puntare l’indice contro ciò che non si conosce bene.
Chiunque abbia memoria storica ricorderà le notevoli crisi che gli anni Ottanta del secolo scorso portarono a molte economie emergenti, e anche negli anni più vicino a noi. Nel 2013 rimase celebre l’episodio – cd “taper tantrum” – generato da alcune dichiarazioni della Fed che fecero credere ai mercati che la banca centrale avrebbe presto cambiato le sue politiche. Bastò questo per generar deflussi per quasi cento miliardi di dollari dalle economie emergenti, con il dollaro alle stelle.
Nel ciclo corrente, che la Bis di Basilea fa iniziare a maggio 2022, i deflussi si sono trasformati in afflussi e l’apprezzamento del dollaro, malgrado l’aumento dei tassi che ha superato i 5 punti percentuali, a fronte dello 0,6 del 2013, ha provocato un apprezzamento della valuta americana assai più contenuto di quello osservato dieci anni prima.
Cos’è successo? Cosa ha migliorato la stabilità di queste economie? I fattori, osservati nel bollettino che la Bis dedica all’approfondimento di questo tema, sono diversi, ma probabilmente vale come principio generale ciò che già ci insegnano i proverbi: sbagliando s’impara. E proprio la lunga storia di crisi vissute da queste economie ha insegnato loro a creare riserve, che funzionano come ammortizzatori quando si verificano stress, e soprattutto a dotarsi di regole generali di politica monetaria che hanno contribuito a stabilizzare la fiducia. A ciò si aggiunga il miglioramento osservato delle regole di politiche fiscali che hanno consentito, fra le altre cose, una gestione migliore delle finanze pubbliche, con meno tolleranza verso l’indebitamento.
Parliamo quindi di fattori strutturali, che hanno bisogno di tempo per essere compresi, assimilati, istituiti e quindi sperimentati con destrezza sufficiente da trarne il buono che possono offrire. Nulla che si possa arrivare a fare se le idee (e le buone pratiche) non circolano. Il grafico sotto ci permette di apprezzare i progressi fatti da questi paesi.

Di fronte a quest’ennesima evidenza dei progressi generati dall’internazionalizzazione, che ha reso questi paesi più resilienti e quindi stabili, ci sono ovviamente anche dei lati oscuri che ancora oggi chiedono di essere osservati e monitorati. I rischi dell’inflazione, che potrebbero far durare a lungo politiche monetarie restrittive disallineando i tassi di interessi fra paesi avanzati, dove sono più alti, ed emergenti, dove sono più bassi per ragioni legate alla congiuntura, rischia di indebolire troppo il cambio di questi paesi e esasperare le tensioni inflazionistiche, spingendo a un rialzo dei tassi che finisca per scoraggiare le crescita.
Ci sono, insomma, mille motivi perché le cose possano andare storte. Ma la notizia per una volta non è questa. E’ che questi paesi hanno imparato a raddrizzarle. Almeno un po’.
