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Genealogia del Pil – Il destino statalista dell’Occidente “liberale”
Il Pil, dunque, dal secondo dopoguerra, diventa il dio benefico che elargisce e certifica lo sviluppo delle società occidentali.
Dio riveritissimo, peraltro, che finisce a comune denominatore di qualunque altro indice economico, rapportandosi ogni cosa in relazione ad esso e ignorando (o colpevolmente omettendo) quanto tali formulazioni implichino una crescente responsabilità statale nei processi economici.
Allo Stato tutto si chiede: servizi, reddito, regole e, soprattutto, costosissimi diritti. E gli stati, benigni e paterni, aumentano i loro bilanci che, confluendo nella contabilità nazionale, dilatano il prodotto per la gioia di tutti. Persino dei pagatori di tasse, che spesso neanche si accorgono del giro tortuoso grazie al quale piove loro addosso denaro pubblico che viene poi restituito all’esattore o, per quanto possibile, evaso.
Ed è in questo circuito in cui il vizio e la virtù si mescolano per decenni, che si caratterizza l’economia del ricco Occidente.
Fino a quando il meccanismo s’inceppa negli anni stagflazionari, che preparano quelli liberalizzanti.
I mitici anni anni ’80 di Reagan e della Thatcher.
Quelli del trionfo dell’ipocrisia liberale.
Perché nel tempo in cui trionfavano i teorici del libero capitale in libero stato, la statistica economica consolidava la sua presa sull’economia.
La formula del Pil si precisa e si sviluppa. Il reddito nazionale Y diventa per tutti la somma di consumi (C), investimenti (I), spesa pubblica (G) ed esportazioni nette (NX).
Giova a questo punto abbandonarsi alla tecnica, per capire la profondità del pensiero che ha indotto il paternalismo statale, a cui ognuno ancora oggi si rivolge per uscire dalle ambasce del reddito declinante, a farsi tutore del nostro benessere, fino a immaginare nuovi indici statistici, ancora più pervasivi, cui dare l’incarico di misurare ciò che più ogni altra cosa appartiene allo spirito: la felicità.
Perché stupirsi? La materializzazione del nostro destino passa per la statistica, ormai divenuta la costruttrice di senso dell’economia. Che poi è l’unica cosa che conti davvero, nelle nostre società viziate dal consumo compulsivo e dai beni durevoli.
Il Pil dunque. I manuali ci insegnano che non rappresenta solo il prodotto, ma insieme il reddito di una nazione e la sua spesa. La perfetta trinità economica del nostro tempo, che ognuno prega da mattino a sera sperando così che si rivitalizzi.
L’equazione prodotto=reddito=spesa si può declinare così: il Pil è la somma di tutti i beni e servizi finali di un’economia in un determinato momento. Oppure si può scegliere un’altra formulazione: il Pil è la somma di tutti i beni e servizi finali e non, meno i beni intermedi, in un determinato momento, ossia la somma dei valori aggiunti. O, infine così: il Pil è la somma di tutti i redditi di un’economia in un determinato momento. Ovviamente, qualunque sia la definizione che si scelga, i valori non cambiano, come ben si addice alla moderna aritmetica politica onnicomprensiva.
Onnicomprensiva, ma mai abbastanza. I tanti critici del Pil, infatti, non lamentano la sua attuale composizione per eccesso, come pure autorizzebbe a pensare la nouvelle vague liberale del nostro tempo, ma per difetto. Il Pil, dicono costoro, non misura importanti variabili economiche come l’economia sommersa, il lavoro nero, il mercato dell’usato, il lavoro casalingo e persino l’autoproduzione di beni.
Ma al di là di ciò che non c’è, è quello che c’è che bisogna comprendere.
La C dei consumi, quindi, che viene definita come la somma dei beni e servizi acquistati dai consumatori di una nazione.
Poi la I di investimenti. In questa categoria rientrano gli investimenti pubblici e privati fissi, diversi da quelli in scorte fatti da privati e aziende, in cui rientrano sia quelli non residenziali (macchinari e impianti) che quelli residenziali (acquisiti di nuove abitazioni). Le compravendite di case usate, infatti, non rientra nel calcolo, come non ci rientra tutto il mercato dell’usato.
La G della spesa pubblica viene definita come la somma di tutti i beni e servizi acquistati dallo Stato. In tale spesa non sono compresi i trasferimenti, come le pensioni, né gli interessi sul debito pubblico.
C’è tuttavia un problema. Perché se è vero che alcuni servizi delle amministrazioni pubbliche vengono venduti (pensate alle Ferrovie) altri sono letteralmente fuori mercato (pensate ad esempio alla giustizia). Per misurare quindi il valore del prodotto gli statistici devono sommare il monte retributivo dei dipendenti pubblici e gli ammortamenti dei beni capitali, ottenendo quindi il valore dei servizi al loro costo.
Ciò provoca l’interessante paradosso che un aumento dei costi delle amministrazioni pubbliche, quindi una circostanza che lascerebbe immaginare una certa inefficienza di gestione, porti con sé un aumento del Pil. Se aumentasse l’efficienza, e quindi la Pa costasse di meno, il Pil potrebbe diminuire. Al contrario di ciò che pensano gli odiatori della spesa pubblica, insomma, assumere i famosi forestali siciliani porta con sé un aumento del prodotto.
Se questa cosa vi turba, ricordatevi di puntare il bersaglio giusto: le regole di contabilità (inter)nazionale, non la macroeconomia, che da esse di fatto dipende.
La somma di C+I+G definisce la spesa per beni e servizi da parte dei residenti. Aggiungendo a questa somma anche le esportazioni nette (ossia al netto dell importazioni) arriviamo al nostro prodotto.
Per capire perché sia diventato così importante, basti citare quel che disse Paul Samuelson nel suo celebre libro Economics nel 1948, nel quale il futuro Nobel spiegava (non a caso) l’economia keynesiana.
Il Pil, scrisse “è una di quelle misure aggregate senza le quali chi si occupa di orientare le politiche economiche si troverebbe sperduto in un mare di singoli dati e non sarebbe in grado di stabilire e ragiungere obiettivi economici”. Come dire: il Pil serve al governo a decidere le sorti dell’economia. Ed è proprio sull’irreversibilità dell’intervento pubblico nell’economia che il Pil segna il suo trionfo più duraturo. Persino negli anni in un cui Keynes non era più così di moda, e anzi ampiamente criticato.
Ricordate di sicuro il celebre motto di Reagan secondo il quale “il governo, nell’attuale crisi, non è la soluzione: è il problema”. E come dimenticarlo? Ha dato più lavoro lui ai cosiddetti liberali, quelli che vogliono lo Stato fuori dall’economia, che duecento anni di pensiero economico. Per dire quanto spesso una battuta funzioni meglio di qualunque ragionamento, spiegandosi con ciò il successo di tanti battutari nostrani.
Ma sopra questo slogan campeggiava una straordinaria ipocrisia.
Chi andrà a vedere quanto sia aumentato il bilancio della spesa pubblica (specie militare) durante l’epopea reaganiana? E ancor meno ricorderanno che fu Reagan a nominare alla Fed Alan Greenspan, ossia il futuro guru dell’indebitamento internazionale coatto pompato dai fondi pubblici, ossia i denari della banca centrale. Lo sapete, sì, che i soldi delle banche centrali sono fondi pubblici mascherati? Lo Stato è il prestatore di ultima istanza della propria banca centrale, esattamente come la banca centrale lo è nei confronti del sistema finanziario.
Insomma, gratta gratta, se si scava abbastanza, nel cuore dei liberali trovate degli statalisti arrabbiati, se in buona fede. La gran parte sono lobbisti al soldo del capitale privato, evidentemente alla costante ricerca di fonti di profitto, per il quale l’economia pubblica è una fastidiosa concorrente. Gli anni ’90, per chi li ha vissuti, sono stati ritmati da questo conflitto.
Ma oggidì, conoscete qualche liberale, di quelli che riempiono pagine di giornali o fondano associazioni, che abbia proposto di espungere la spesa pubblica dal calcolo del Pil? Dicono solo che bisogna tagliarla, per pura ideologia. Senza capire che tagliare la spesa pubblica, quando si usa un sistema di calcolo del prodotto che la comprende fra gli elementi che creano reddito, equivale a tagliarsi una mano per risparmiarla.
Il concetto di spesa pubblica improduttiva, salvo casi estremamente specifici, è semplicemente insensato in un mondo in cui qualunque spesa, quindi anche quella pubblica, è reddito. Non capirlo significa non vedere che il problema, se problema è la spesa pubblica, è nel calcolo del prodotto.
Questo mi aspetto dicano gli odiatori professionisti della spesa pubblica per ritenerli credibili. Ma dicono che la spesa pubblica è cattiva per principio, perché generatrice di inefficienze e corruzione. Ma il Pil non guarda da dove arrivino i soldi: si limita a contarli.
Pecunia non olet.
Il nostro breve viaggio sulla genealogia del Pil potrebbe finire qui. Con la celebrazione dell’ipocrisia liberale che dai tempi di Reagan asfissia senza costrutto alcuno, che non sia un’aumentata diseguaglianza e una compressione dei redditi da lavoro, il dibattito economico pubblico.
Ma torna utile tracciare rapidamente dove si sta orientando la fertile immaginazione dei nostri statistici economici, sempre più tesi a fornire a chi governa i numeri utili a decidere destini sempre più ampi ed economicizzati, tristi come la pseudoscienza di cui sono espressione.
Il futuro, dicono i beneinformati, sarà la sostituzione dell’obsoleto concetto della produzione con quello più sofisticato di benessere. Le migliori menti del mondo sono all’opera per definire compiutamente tale concetto, infilandoci dentro tutto ciò che vi rima per simpatia (dalla qualità ambientale, alla salute, alle relazioni sociali) a patto però che tali variabili siano misurabili.
Ed è qui, nell’idea stessa che ogni cosa sia misurabile, che si insinua la dittatura strisciante della materia, che oggi viene volgarmente declinata nelle equazioni economiche, che peraltro hanno il pregevole merito di essere sommamente astruse, quindi incomprensibili abbastanza da poter suggestionare con la loro “credibilità”. La dittatura della materia, che impone l’economia per via scientifica.
Se tutto è materia, e quindi è misurabile, basterà formulare un nuovo indice (al momento il più gettonato è “l’indice di sviluppo umano”) per saziare gli appetiti delle popolazioni. Col magnifico risultato che tutto ciò che in tale indice non sia compreso sarà irrilevante ai fini economici. Ergo: non esisterà.
Ciò spiega bene perché il mondo guardi con simpatia e interesse al Gross national happiness elaborato dal piccolo Bhutan. Il diritto alla felicità, inserito nella costituzione americana dai padri fondatori, trova la sua compiutezza nella statistica elaborata da un mini stato buddista. Quale migliore esemplificazione del trionfo della globalizzazione made in Usa?
Incredibile che solo pochi notino, in questa deriva statistica, il sorgere irrefrenabile del Leviatano.
(3/Fine)
Warfare/Welfare, andata e ritorno
Finora è stato un viaggio di sola andata quello che ha condotto dal warfare (guerra) al welfare (benessere). Una storia lunga un secolo, durante il quale le devastazioni delle guerre sono state più che compensate dall’incredibile aumento di benessere che ha riguardato i paesi avanzati. Nostro compagno, in questo lungo viaggio, è stato il debito, pubblico e privato.
E’ opinione comune fra gli storici che la prima guerra mondiale abbia interrotto la prima grande ondata di globalizzazione del mondo, iniziata dopo la fine del conflitto franco-prussiano, nel 1870, e durata fino alla crisi dell’estate del ’14, quando le grandi potenze si infilarono nella Grande Guerra. Fino ad allora la globalizzazione, spinta dallo sviluppo delle infrastrutture, aveva prodotto una crescita tumultuosa del commercio internazionale i cui benefici, tuttavia, venivano goduti solo da una piccola popolazione di rentier e da pochi uomini d’affari, che potevano contare su valute stabili e quindi prestavano volentieri i propri soldi agli stati. All’epoca erano molto in voga i titoli permanenti, ossia senza scadenza. Una volta iscritti nel gran libro del debito di questo o quello stato, i soldi del rentier producevano interessi sicuri, al riparo anche dall’inflazione che il mondo avrebbe patito solo durante e dopo la prima guerra mondiale.
La prima globalizzazione vide anche sorgere l’alba del welfare, prodotto culturale dei grandi moti sociali del XIX secolo. Fu Bismarck, nel 1892, a tratteggiare il primo sistema statale di pensioni per i dipendenti pubblici tedeschi. Un modo, spiegò, assai efficace per tenerli sotto controllo, prima, durante e persino alla fine della loro carriera. Molti altri stati seguirono l’esempio. L’idea di usare il welfare per attenuare le tensioni sociali viene da lontano.
In generale, tuttavia, gli stati dell’epoca dedicavano gran parte delle loro risorse alla politica espansionista, al Grande Gioco, che grazie alla leva del debito prosperava. Più tardi, ai primi del XX° secolo, si dedicarono con decisione agli armamenti. Il viaggio dal warfare al welfare era ancora all’inizio.
Anche in questa fase il debito giocò un ruolo fondamentale. La storia del mercato dei bond governativi a cavallo fra la fine del XIX° e la vigilia del conflitto meriterebbe un libro.
Con la guerra le finanze pubbliche dei paesi coinvolti esplosero insieme al sistema monetario. L’inflazione che ne conseguì decretò la fine del rentier, come ebbe a scrivere Keynes, e del ceto medio che viveva di pensioni e stipendi, ma non certo del mercato finanziario, che al contrario prosperò. La Gran Bretagna tramontava, la Francia aveva il suo daffare, la Germania e l’Austria erano piegate dall’iperinflazione, la Russia aveva fatto la rivoluzione e ripudiato il suo debito. Ma c’era un gran lavoro per i banchieri. Bisognava solo trovare nuove forme di impiego.
Il sistema finanziario trovò il suo nuovo baricentro a New York. La sbornia americana degli anni Venti, gli anni ruggenti del Jazz e della grande speculazione immobiliare in Florida, fu alimentata da risorse in libera uscita dall’Europa, specialmente dall’Inghilterra, che alla fine trovarono un’ottima allocazione nella borsa di New York. Wall Street produceva rialzi spaventosi spingendo anche i privati cittadini ad indebitarsi per inseguire la bolla.
Di nuovo il debito, stavolta privato, fu il grande protagonista della straordinaria crescita di ricchezza di quegli anni negli Usa, e, contemporaneamente, la causa della Grande Depressione che l’America prima e il mondo poi, sperimentarono dal 1929 in poi. Ma l’America non era ancora attrezzata per il Welfare, come si vide con chiarezza durante la crisi.
Solo gli amari anni ’30 indussero gli Stati Uniti a fare leva sulle cosiddette politiche keynesiane per uscire dalle secche della depressione. La bacchetta magica della spesa pubblica avrebbe sortito il miracolo della ripresa e, insieme, tenuto lontano il popolo dalle pulsioni totalitaristiche che stavano sconvolgendo parte dell’Europa.
Col New Deal gli americani misero in piedi strutture e politiche che ancora oggi fanno parte del patrimonio pubblico. Si decise, ad esempio, di fare in modo che ciascuno potesse avere una casa di proprietà e per riuscirci il governo creò, letteralmente dal nulla, il mercato finanziario immobiliare istituendo due agenzie, Freddie Mac e Fannie Mae, che avevano l’incarico di riuscire a fare arrivare il credito alle famiglie “comprandosi” i mutui dalle banche e rivendendoli alle famiglie stesse a tassi e condizioni agevolati. Il New Deal fu un’altra tappa importante del viaggio verso il Welfare.
Ma ci volle un’altra guerra per oltrepassare il punto di non ritorno. I trionfatori americani americani, esportatori netti di valuta e capitali, ebbero gioco facile a “suggerire” il modello inaugurato da Roosvelt negli anni ’30 ai paesi liberati. Liberati anche dal debito enorme accumulato durante la guerra, ancora una volta polverizzato dall’inflazione. Gli stati europei e il Giappone poterono ripartire, grazie agli aiuti americani, lancia in resta verso il sol dell’avvenire capitalistico. Il traguardo era il welfare che, nelle intezioni dei teorici, inglesi come giapponesi, doveva accompagnarti dalla culla alla tomba come un tenero abbraccio materno.
Il miraggio divenne realtà nel ventennio fra i ’50 e i 60, quando ci fu l’unica parentesi di crescita economica accompagnata da un basso livello di indebitamento. Anche perché si partiva sostanzialmente da zero e con i bilanci ripuliti. Gli stati occidentali misero in piedi programmi di welfare ambiziosi con lo scopo, fra gli altri, di garantirsi un’adeguata pace sociale proprio mentre imperava la guerra fredda. Il warfare “raffreddandosi” si stemperava verso un welfare pacioso e amichevole, che però cresceva al ritmo forsennato del rock and roll.
Il social spendig divenne una medaglia d’onore per gli stati. I dati Ocse mostrano che in Europa la spesa sociale è passata da una media del 10% del Pil nel 1960 al 15% del ’70. In quegli anni peraltro si incardinarono leggi e abitudini, quelli che oggi chiamiamo diritti, che produrranno i loro effetti negli anni a venire e che oggi hanno fatto salire la spesa media dell’Ue per il welfare al 25% del Pil. Una tendenza simile è visibile anche negli Stati Uniti e in Giappone.
I semi del Welfare piantati nel dopoguerra misero radici e nell’arco di un ventennio divennero una quercia robusta e famelica che doveva essere nutrita con dosi sempre maggiori di spesa pubblica. Per sostenere questi livelli di spesa gli stati dovettero tornare a indebitarsi assai al di sopra delle proprie possibilità.
In Italia le varie leggi di spesa incardinate negli anni ’70, fecero schizzare il debito pubblico al 90% del Pil a fine anni ’80, quando nei primi anni ’60 veleggiava sotto il 40%, per poi superare rapidamente il 100% e il 120 nel ’92. Dove siamo più o meno ancora adesso.
All’apice del suo successo, il Welfare innescò la sua crisi, ormai da molti ritenuta terminale. A livello teorico, la reazione contro le politiche keynesiane cominciò addirittura sul finire degli anni ’70 per raggiungere il culmine politico nei primi anni ’80, quelli di Reagan e della Thatcher. Lo Stato non è la soluzione, si disse. Semmai il problema. Ma per quasi trent’anni il social spending continuò la sua corsa forsennata, sempre a debito, in Europa, ma anche negli Usa e in Giappone.
La curva del Welfare imbocca la sua china discendente solo con la crisi del 2007, dopo essere stata pompata fino allo sfinimento da politiche economiche sempre più basate sul deficit. Il salvataggio (obbligato) del sistema finanziario dà il colpo di grazia alle finanze pubbliche. Solo pochi mesi fa il presidente della Bce Mario Draghi ha detto a chiare lettere che questo modello di Welfare non possiamo più permettercelo.
Siamo al punto che le ricche terre d’Occidente, ingrassate all’ombra del debito, devono abbandonare il paradiso del Welfare e non sanno più dove andare. Il sogno delle magnifiche sorti progressive si è infranto e adesso coltivano la tentazione di tornare indietro, avendo anche smarrito la memoria. Ma indietro c’è solo il Warfare.
Oggi si parla chiaramente di guerra economica. Ma il viaggio non è ancora terminato.
