Etichettato: debt

L’economia ai tempi dello Zero Lower Bound: Le quattro D dell’apocalisse

Nulla sarà più come prima, dicono in molti. Il 2008 ha segnato una cesura netta nelle nostre pratiche economiche e ci vorrà del tempo prima che la nuova normalità – il new normal, come viene chiamato – venga digerito dall’apparato teorico che sosteneva la vecchia normalità. Tutti i modelli che gli osservatori usano per descrivere la realtà dovranno essere sostanzialmente riscritti, tenendo conto di come la nostra società si cambiata in questi anni tormentati, anche e soprattutto in conseguenze della crisi.

La buona notizia è che i decisori iniziano a tenerne conto. In uno speech recente (“Debt, Demographics and the Distribution of Income: New challenges for monetary policy“) Gertjan Vlieghe, componente esterno dell’MPC della Bank of England individua in tre fattori i driver di questa mutazione, che non è esagerato definire epocale: il debito, la demografia e la distribuzione della ricchezza. Sono le tre D che hanno finito con l’invalidare il vecchio pensiero di un mondo dove l’economia veniva inquadrata in un percorso stabile di crescita, con il prodotto sempre più o meno vicino al suo livello potenziale, e dove le crisi altro non erano che deviazioni temporanee da questo percorso. Alla politica monetaria veniva affidato il compito di correggere queste deviazioni utilizzando gli strumenti consueti. Ed è proprio questa visione che è entrata in crisi: “Io credo – dice il nostro banchiere – che possa essere cambiata in maniera stabile la relazione fra crescita e tassi di interesse“.

Il nostro si è convinto che l’effetto della tre D sul contesto economico abbia finito col creare un ambiente dove “un certo livello di crescita possa coesistere con tassi di interesse sostanzialmente più bassi che in passato” e che “questo ambiente possa persistere per anni, se non per decenni”. D’altronde solo persone con scarso senso della realtà potrebbero trascurare la circostanza che ormai i debiti, pubblici e privati, sono diventati eterni, che l’andamento della demografia conduce a un progressivo invecchiamento della popolazione e che il combinato disposto sta producendo una costante crescita della disuguaglianza dei redditi. Il combinato delle tre D ci conduce alla quarta: il declino, ossia l’esito della nostra vicenda economica, che sostiene l’ipotesi della cosiddetta stagnazione secolare, che peraltro è stata teorizzata 80 anni fa.

Ciò avrà alcune conseguenze, a cominciare dal fatto che “l’economia potrebbe non tornare più al suo livello pre crisi di crescita e tassi di interesse”. Con la complicazione che i modelli economici tuttora usati per rappresentare la nostra realtà sostengono il contrario, per la semplice ragione che le tre D ancora non vengono contemplate.

Vi parrà assurdo, ma è così che va il mondo. Ciò che è ovvio deve essere digerito, assimilato e trasformato in analisi teoriche, quindi inglobato in strumenti predittivi (un modello) che trasformano l’ovvio in prassi. Il problema è che questo processo richiede anni, durante i quali persistiamo nell’analisi della realtà con strumenti errati e in cui il nostro dibattere pubblico, già naturalmente retorico, viene nutrito da interpretazioni viziate della realtà.

Sicché, scorrendo lo speech, leggo divertito che “il debito è importante” e che questa dichiarazione “ancora controversa un decennio fa” lo è molto meno adesso. Ecco l’ovvio irrompere nel pensiero economico tradizionale. “Abbiamo ampie evidenza che le famiglie e le imprese con alti livelli di debito riducono le spese più bruscamente degli altri quando il ciclo economico diventa avverso”. Ma davvero? Con l’aggiunta che tale evidenza microeconomica ha effetti macroeconomici: “Le recessioni seguite a un accumulo di debito sono più severe e durature di quelle senza”. Per rimediare a un eccesso di debito ci sono due strade che si possono seguire: una dolorosa ristrutturazione, rapida e spietata, o tenere i tassi bassi per fare in modo che, a parità di debito, l’incremento del reddito sia superiore e così la montagna piano piano di appiattisce. Si è scelta questa strada, è chiaro a tutti. Perciò i tassi dovranno rimanere bassi a lungo, come non si stancano di ripeterci i nostri banchieri centrali. La strada intrapresa, dice il nostro, funziona talmente bene che il debito del settore privato non finanziario britannico, salito dal 120% del Pil a 190% prima della crisi, ora è sceso addirittura al 160%. Osservo solo che ci sono voluti otto anni di tassi vicino a zero per abbattere il debito del 15%, mentre erano bastati un pugno di anni per farlo cresce quasi del 60%. Il che mi suggerisce che i debiti siano alquanto inelastici ai tassi bassi. Questi ultimi servono semmai a renderli sostenibili. Sorvolo, come d’altronde fa il nostro banchiere, su quanto sia cresciuto nel frattempo il debito pubblico.

La seconda D è ancora più divertente, per quanto è ovvia. “Come il debito, la demografia può avere un effetto di lungo termine sulla relazione fra crescita e tasso di interesse”, con l’aggravante che tale effetto può persistere anche più di quello dell’accumulo di debiti “visto che le transizioni demografiche persistono per decenni”. Il combinato disposto fra aumento della longevità e diminuzione della fertilità è ciò che sta guidando questa evoluzione, che abbiamo visto essere incerta non soltanto quanto agli esiti, ma anche relativamente alla sua stessa dimensione. Dal punto di vista che interessa al nostro relatore, ossia la relazione fra crescita e tasso di interesse, una popolazione più anziana, che vuol dire una crescita più lenta della popolazione in età di lavoro, implica che serve meno capitale e perciò investimenti più lenti che “finiscono ancora col fare abbassare i tassi di interesse“. Un modello sviluppato di recente, basato sui dati dei paesi del G7 a partire dal 1990 ha calcolato nell’1,5% il ribasso del tasso di interesse provocato dai cambiamenti demografici, con un altro 0,5% in meno potenziale di là da venire. E poi c’è il caso del Giappone, che il nostro banchiere giudica una sorta di avanguardia, visto che quello che è successo lì nell’ultimo ventennio sta accadendo adesso nel resto delle economie avanzate.

La terza D è probabilmente fra le più popolari oggidì: la distribuzione della ricchezza. Il nostro ammette che si tratta di di un argomento dove la congettura è prevalente, rispetto agli altri. E tuttavia accredita l’idea che così come “la politica monetaria ha effetti redistributivi“, anche la distribuzione della ricchezza possa avere effetti sulle politiche monetarie. Citando il solito Piketty e altri, il relatore osserva che la concentrazione della ricchezza sposta maggiore potere d’acquisto su chi ha meno propensione a spendere, con effetti intuitivi sui tassi di interesse. Se c’è maggior risparmio offerto calano i prezzi del denaro, lo scriveva già Smith nel XVIII secolo. Qualcuno più di recente ha calcolato che un aumento di due punti del livello di risparmio abbassa i tassi dello 0,5%.

Insomma: le tre D cospirano per tenere i tassi bassi o, che è lo stesso, per tenere la crescita bassa. Questa nuova normalità, che le banche centrali ormai stanno trasformando nella narrazione prevalente del nostro tempo, ha implicazioni di policy evidenti. La prima riguarda proprio le banche centrali, che nel new normal trovano la legittimazione teorica dei loro comportamenti non convenzionali. E poi per il resto di noi, che il nostro banchiere analizza con estrema accuratezza.

La prima sarà la rivoluzione dei modelli predittivi, ormai inadatti a interpretare la realtà, che sono sicuro lascerà indifferenti molti di voi, ma che però non dovrebbe, atteso che da quello che partoriscono i modelli scaturiscono molte decisioni politiche. Se continueremo a usare i vecchi modelli rischiamo di compiere gravi errori.

Ma ciò che conta è la visione sociale che tale mutazione portà con sé. “Non possiamo contare sul fatto che il futuro somiglierà al passato”, dice. “Dobbiamo essere preparati alla possibilità che i tassi di interesse reali rimangano sotto il livello storico per molto tempo, anche nel caso che la crescita torni anche poso sotto la sua media storica”. Ciò pone alle banche centrali, che sulla manovra dei tassi hanno costruito la loro fortuna politica, un grande problema di strumenti, visto che “l’acquisto di asset è un sostituto imperfetto del taglio dei tassi”.

Sarebbe tutto un problema da banchieri centrali se fosse tutto qua. In fondo a noi che importa se i tassi rimangono bassi a lungo? Anche qui, un supplemento di osservazione basta a comprendere che i tassi bassi a lungo implicano un cambiamento profondo del nostro agire economico. Detto in parole povere, con i tassi bassi a lungo termine cambiano prassi che si sono evolute nel corso dei secoli.

Le quattro D, agendo insieme, possono terremotare il nostro sistema economico. Sono i moderni cavalieri dell’apocalisse.

La prima puntata della serie

 

Pubblicità

L’enigma giapponese

“La gente spera nel cambiamento, ma la realtà è che abbiamo già visto questa situazione”. Con questa riflessione dal tono sconsolato Atsutomo Ohto, pezzo grosso del gruppo Capital Markets Mizuho Securities a Tokyo, conclude un colloquio con il Financial Times sul ritorno alla premiership di Abe. “In particolare – sottolinea Ohto – abbiamo già visto Mr Abe, prima”. E’ tutto qui, nel cambiamento che assomiglia al passato, lo spirito dell’enigma giapponese che lascia basiti gli osservatori da quasi trent’anni. Da quando, vale a dire, l’economia giapponese si è impantanata in una palude di liquidità che nutre il debito, da una parte, e la deflazione e la decrescita dall’altra. Un paradosso economico.

Il ritorno di Abe al potere segna un chiaro ritorno al passato. I vari governi liberlademocratici che si sono succeduti in Giappone hanno provato senza troppo successo la strategia degli stimoli monetari. Il neo primo ministro ha detto di volere un’inflazione al 2% e di infischiarsene del tetto al debito pubblico fissato dal governo precedente. In parole povere, il Giappone stamperà moneta più di quanto non abbia fatto sinora ed emetterà debito. E poco importa se il debito pubblico continuerà a crescere (dovrebbe arrivare al 236% per marzo 2013). Di sicuro non importa ai mercati. Da quando Abe si è insediato l’indice di borsa Nikkei si è impennato, lo Yen si è indebolito sul dollaro e i rendimenti sui bond quinquennali sono scesi. Più soldi per tutti, insomma, e i mercati fanno festa.

Ma anche questo è un film già visto. Dopo la crisi del 1989, quando scoppiò la grande bolla immobiliare e borsistica, la società giapponese conobbe una distruzione di ricchezza senza precedenti. Per dare un’idea, basti pensare che l’indice di borsa crollò a poco più di 15.000 punti (da 40.000) in un paio d’anni. Dall’euforia alla depressione il passo è breve, come sanno bene economisti e psicologi. A metà degli anni ’90 si calcolava che il Giappone avesse bruciato circa un milione di miliardi di Yen.

La reazione delle autorità giapponesi allo scoppio della bolla furono sbagliate, dicono gli analisti col senno di poi. I governi scelsero un percorso di austerità, aumentando le imposte e riducendo la spesa pubblica, che ricorda la storia di oggi, fornendo benzina alle spinte deflazionistiche. Ma la pulsione rigorista durò poco. Scottato dalla deflazione e la disoccupazione, il Giappone sperimentò l’espansione monetaria (anche questa sembra storia di oggi). Il tasso di sconto, portato al 6% nel 1990, in piena crisi da bolla, crollò all’1,75% già nel 1993 per arrivare allo 0,5% nel 1995 e allo 0,1% nel 2001, e da lì è rimasto più o meno stabile fino ad oggi. Il governo allargò i cordoni della borsa, ma nella letteratura economica gli anni ’90 del giappone vengono ricordati come quelli del decennio perduto, fatto di bassa crescita, disoccupazione ed enormi quantità di denaro messe a disposizione che però hanno fatto solo la fortuna dei carry traders, coloro che hanno preso a prestito praticamente gratis dal Giappone per investire a rischio pressoché zero sul mercato dei bond lucrando sugli spread. Assai prima e assai più dell’America il Giappone ha contribuito ad aumentare la liquidità nel mondo a disposizione della speculazione.

Nel 2001 il premier liberaldemocratico Koizumi vara un importante programma di liberalizzazioni, ma l’instabilità politica (sette premier in sette anni dal 2001 al 2008) non aiuta e la società non risponde. Il cavallo non beve, malgrado l’acqua (liquidità) sia abbondante e a basso costo. Fra marzo 2001 e marzo 2002 la base monetaria aumenta del 33% ma il Pil diminuisce dello 0,5%. Il Pil si riprende giusto il tempo di recepire gli ampi programmi di stimolo varati dai governi, per poi inabissarsi di nuovo. Nel 2002 diminuisce dello 0,3% (nonostante il boom dell’export). La banca centrale continua a immettere liquidità a costo zero, i governi a varare piani di espansione (il deficit sul Pil supera il 6%). Ma la disoccupazione aumenta e i consumi interni languono.

Nel 2003 finalmente il Giappone esce dalla recessione, trainato dalla ripresa internazionale. Il Pil cresce del 2,5%, un livello che non vedeva dal 1996. Ma intanto fra il 1997 e il 2003 erano spariti due milioni di posti di lavoro, i contratti di lavoro erano diventati più flessibili e il costo del lavoro era diminuito del 6% (anche questa sembra storia di oggi).  Nel 2004 la crescita si stabilizza, aumenta leggermente nel 2005 per iniziare, lentamente a declinare, complice – forse – anche la nuova politica di rigore sui conti decisa dal governo per rientrare dall’immane debito e la politica monetaria meno accomodante – ma comunque generosa. C’è spazio per un po’ di ottimismo. I prezzi tornano moderatamente a crescere, l’occupazione si stabilizza.

Dal 2006 in poi il Pil torna a diminuire, ma è ancora ampiamente positivo. Perciò nel 2007 la BoJ riporta il tasso di sconto allo 0,5%, mentre il deficit sul Pil scende al 4,9%. Segni di una normalizzazione che però è un fuoco di paglia. Senza la droga monetaria e del debito pubblico, l’economia inizia a sgonfiarsi (complice anche il rallentamento della domanda mondiale e domestica). Il 2007 viene archiviato con un +2,1% di Pil a fronte del +2,4% del 2006.

La resa dei conti arriva nel 2008. Il Pil torna negativo (-0,7%). La banca centrale, a fine anno, riporta il tasso allo 0,1%. A metà 2008 le autorità annunciano spese pubbliche per un ammontare di due punti di Pil. Ricomincia la giostra. Come prima e anche peggio. Nel 2009 il Pil crolla del 5,2% (-15,9% nel primo trimestre 2009), riemerge la deflazione, la banca centrale annuncia che mettera sul tappeto operazioni di finanziamento pari a circa 4 punti di Pil, il disavanzo sul Pil arriva al 10,3%.

La cura da buoni risultati l’anno dopo. Il Pil aumenta del 4% (senza recuperare la perdita dell’anno precedente), ma al prezzo di politiche monetarie mai così espansive e di bilancio mai così generose, senza peraltro riuscire a debellare la deflazione. Ciò malgrado nel 2011 il Pil torna di nuovo ad essere negativo (-0,7%), la deflazione non aumenta ma neanche diminuisce. Il deficit supera di nuovo il 10% e il debito si stima arriverà al 240% del Pil per l’anno prossimo. Il bilancio della banca centrale, impegnata in massicci programma di acquisti di titoli di stato, arriva al 30% del Pil.

“Abbiamo già visto questa situazione”, dice sconsolato Atsutomo Ohto. Come dargli torto? L’economia giapponese, forse inconsapevolmente antesignana del destino delle economie cosiddette avanzate, continua ad essere un enigma per gli economisti e i politici, che hanno provato tutte le ricette e il loro contrario senza cavare un ragno dal buco. Il dilemma è quello noto: spendere e (e)spandere  a suon di debito (immaginando che possa cresce all’infinito) oppure non spendere e dimagrire. Come tutti i dilemmi, anche questo sembra destinato ad incornare chi si avventuri a immaginare una soluzione.

Forse la domanda “che fare?” nel caso giapponese (ma vale anche per noi europei e per gli americani), è una di quelle domande che i buddisti zen chiamano domande Mu, ossia domande che non hanno risposta perché dipendono da presupposti errati.

Forse quel presupposto siamo noi stessi.

Warfare/Welfare, andata e ritorno

Finora è stato un viaggio di sola andata quello che ha condotto dal warfare (guerra) al welfare (benessere). Una storia lunga un secolo, durante il quale le devastazioni delle guerre sono state più che compensate dall’incredibile aumento di benessere che ha riguardato i paesi avanzati. Nostro compagno, in questo lungo viaggio, è stato il debito, pubblico e privato.

E’ opinione comune fra gli storici che la prima guerra mondiale abbia interrotto la prima grande ondata di globalizzazione del mondo, iniziata dopo la fine del conflitto franco-prussiano, nel 1870, e durata fino alla crisi dell’estate del ’14, quando le grandi potenze si infilarono nella Grande Guerra. Fino ad allora la globalizzazione, spinta dallo sviluppo delle infrastrutture, aveva prodotto una crescita tumultuosa del commercio internazionale i cui benefici, tuttavia, venivano goduti solo da una piccola popolazione di rentier e da pochi uomini d’affari, che potevano contare su valute stabili e quindi prestavano volentieri i propri soldi agli stati. All’epoca erano molto in voga i titoli permanenti, ossia senza scadenza. Una volta iscritti nel gran libro del debito di questo o quello stato, i soldi del rentier producevano interessi sicuri, al riparo anche dall’inflazione che il mondo avrebbe patito solo durante e dopo la prima guerra mondiale.

La prima globalizzazione vide anche sorgere l’alba del welfare, prodotto culturale dei grandi moti sociali del XIX secolo. Fu Bismarck, nel 1892, a tratteggiare il primo sistema statale di pensioni per i dipendenti pubblici tedeschi. Un modo, spiegò, assai efficace per tenerli sotto controllo, prima, durante e persino alla fine della loro carriera. Molti altri stati seguirono l’esempio. L’idea di usare il welfare per attenuare le tensioni sociali viene da lontano.

In generale, tuttavia, gli stati dell’epoca dedicavano gran parte delle loro risorse alla politica espansionista, al Grande Gioco, che grazie alla leva del debito prosperava. Più tardi, ai primi del XX° secolo, si dedicarono con decisione agli armamenti. Il viaggio dal warfare al welfare era ancora all’inizio.

Anche in questa fase il debito giocò un ruolo fondamentale. La storia del mercato dei bond governativi a cavallo fra la fine del XIX° e la vigilia del conflitto meriterebbe un libro.

Con la guerra le finanze pubbliche dei paesi coinvolti esplosero insieme al sistema monetario. L’inflazione che ne conseguì decretò la fine del rentier, come ebbe a scrivere Keynes, e del ceto medio che viveva di pensioni e stipendi, ma non certo del mercato finanziario, che al contrario prosperò. La Gran Bretagna tramontava, la Francia aveva il suo daffare, la Germania e l’Austria erano piegate dall’iperinflazione, la Russia aveva fatto la rivoluzione e ripudiato il suo debito. Ma c’era un gran lavoro per i banchieri. Bisognava solo trovare nuove forme di impiego.

Il sistema finanziario trovò il suo nuovo baricentro a New York. La sbornia americana degli anni Venti, gli anni ruggenti del Jazz e della grande speculazione immobiliare in Florida, fu alimentata da risorse in libera uscita dall’Europa, specialmente dall’Inghilterra, che alla fine trovarono un’ottima allocazione nella borsa di New York. Wall Street  produceva rialzi spaventosi spingendo anche i privati cittadini ad indebitarsi per inseguire la bolla.

Di nuovo il debito, stavolta privato, fu il grande protagonista della straordinaria crescita di ricchezza di quegli anni negli Usa, e, contemporaneamente, la causa della Grande Depressione che l’America prima e il mondo poi, sperimentarono dal 1929 in poi. Ma l’America non era ancora attrezzata per il Welfare, come si vide con chiarezza durante la crisi.

Solo gli amari anni ’30 indussero gli Stati Uniti a fare leva sulle cosiddette politiche keynesiane per uscire dalle secche della depressione. La bacchetta magica della spesa pubblica avrebbe sortito il miracolo della ripresa e, insieme, tenuto lontano il popolo dalle pulsioni totalitaristiche che stavano sconvolgendo parte dell’Europa.

Col New Deal gli americani misero in piedi strutture e politiche che ancora oggi fanno parte del patrimonio pubblico. Si decise, ad esempio, di fare in modo che ciascuno potesse avere una casa di proprietà e per riuscirci il governo creò, letteralmente dal nulla, il mercato finanziario immobiliare istituendo due agenzie, Freddie Mac e Fannie Mae, che avevano l’incarico di  riuscire a fare arrivare il credito alle famiglie “comprandosi” i mutui dalle banche e rivendendoli alle famiglie stesse a tassi e condizioni agevolati. Il New Deal fu un’altra tappa importante del viaggio verso il Welfare.

Ma ci volle un’altra guerra per oltrepassare il punto di non ritorno. I trionfatori americani americani, esportatori netti di valuta e capitali, ebbero gioco facile a “suggerire” il modello inaugurato da Roosvelt negli anni ’30 ai paesi liberati. Liberati anche dal debito enorme accumulato durante la guerra, ancora una volta polverizzato dall’inflazione. Gli stati europei e il Giappone poterono ripartire, grazie agli aiuti americani, lancia in resta verso il sol dell’avvenire capitalistico. Il traguardo era il welfare che, nelle intezioni dei teorici, inglesi come giapponesi, doveva accompagnarti dalla culla alla tomba come un tenero abbraccio materno.

Il miraggio divenne realtà nel ventennio fra i ’50 e i 60, quando ci fu l’unica parentesi di crescita economica accompagnata da un basso livello di indebitamento. Anche perché si partiva sostanzialmente da zero e con i bilanci ripuliti. Gli stati occidentali misero in piedi programmi di welfare ambiziosi con lo scopo, fra gli altri, di garantirsi un’adeguata pace sociale proprio mentre imperava la guerra fredda. Il warfare “raffreddandosi” si stemperava verso un welfare pacioso e amichevole, che però cresceva al ritmo forsennato del rock and roll.

Il social spendig divenne una medaglia d’onore per gli stati. I dati Ocse mostrano che in Europa la spesa sociale è passata da una media del 10% del Pil nel 1960 al 15% del ’70. In quegli anni peraltro si incardinarono leggi e abitudini, quelli che oggi chiamiamo diritti, che produrranno i loro effetti negli anni a venire e che oggi hanno fatto salire la spesa media dell’Ue per il welfare al 25% del Pil. Una tendenza simile è visibile anche negli Stati Uniti e in Giappone.

I semi del Welfare piantati nel dopoguerra misero radici e nell’arco di un ventennio divennero una quercia robusta e famelica che doveva essere nutrita con dosi sempre maggiori di spesa pubblica. Per sostenere questi livelli di spesa gli stati dovettero tornare a indebitarsi assai al di sopra delle proprie possibilità.

In Italia le varie leggi di spesa incardinate negli anni ’70, fecero schizzare il debito pubblico al 90% del Pil a fine anni ’80, quando nei primi anni ’60 veleggiava sotto il 40%, per poi superare rapidamente il 100% e il 120 nel ’92. Dove siamo più o meno ancora adesso.

All’apice del suo successo, il Welfare innescò la sua crisi, ormai da molti ritenuta terminale. A livello teorico, la reazione contro le politiche keynesiane cominciò addirittura sul finire degli anni ’70 per raggiungere il culmine politico nei primi anni ’80, quelli di Reagan e della Thatcher. Lo Stato non è la soluzione, si disse. Semmai il problema. Ma per quasi trent’anni il social spending continuò la sua corsa forsennata, sempre a debito, in Europa, ma anche negli Usa e in Giappone.

La curva del Welfare imbocca la sua china discendente solo con la crisi del 2007, dopo essere stata pompata fino allo sfinimento da politiche economiche sempre più basate sul deficit.  Il salvataggio (obbligato) del sistema finanziario dà il colpo di grazia alle finanze pubbliche. Solo pochi mesi fa il presidente della Bce Mario Draghi ha detto a chiare lettere che questo modello di Welfare non possiamo più permettercelo.

Siamo al punto che le ricche terre d’Occidente, ingrassate all’ombra del debito, devono abbandonare il paradiso del Welfare e non sanno più dove andare. Il sogno delle magnifiche sorti progressive si è infranto e adesso coltivano la tentazione di tornare indietro, avendo anche smarrito la memoria. Ma indietro c’è solo il Warfare.

Oggi si parla chiaramente di guerra economica. Ma il viaggio non è ancora terminato.

Educazione americana

Il WSJ ha riportato un dato assolutamente rilevante circa il senso e lo spirito dell’educazione americana. Il programma di prestiti agli studenti ha generato una montagna di debito (a loro carico) arrivato a 956 miliardi di dollari, in aumento del 4,6% solo nel terzo trimestre 2012.

Una cifra persino superiore a quella del debito accumulato sulle carte di credito e che inizia a spaventare le autorità, ormai persuase che sia troppo facile, per gli studenti, prendere a prestito, senza magari curarsi delle conseguenze. Fra le quali, come ricorda lo stesso WSJ, quella di fare bancarotta, vedersi diminuito il merito di credito, oppure sequestrata parte dello stipendio una volta che si troverà un lavoro, o sennò far finire i genitori nelle mani del fisco al proprio posto se un genitore ha avuto la sventurata idea di farsi garante. Perciò le autorità suggeriscono al giovane di farsi bene i conti, non investire troppo sulla propria educazione professionale, se si pensa che il ritorno sia più basso dell’investimento: un ROI negativo di se stesso può compromettere le proprie prospettive di vita.

Questa visione dell’uomo come azienda, e quindi vocato naturalmente al debito, è uno dei pilastri dell’educazione americana. Prima i cittadini cominciano ad averne consapevolezza (e quindi pratica) meglio è. Tanto è vero che si diventa maggiorenni indebitandosi per fare l’università.

Poi ce n’è un altro. Qualche giorno fa ho visto in tv un ragazzo americano che passa le sue giornate a scovare coupon (anche nella spazzatura) che consentono di aver sconti al supermercato al solo scopo di fare spese pantagrueliche. La sua stanza esibiva come trofei scaffali pieni di roba (il grosso era in garage) che fungevano da sfondo alla sua intervista. Ripreso al supermercato, mentre spingeva tre carrelli carichi di carta assorbente (56 rotoli), salsicce (84 confezioni) e detersivi (63 flaconi), il giovane manifestava una gioia autentica quando la cassiera detraeva dal totale di oltre 600 dollari il valore dei suoi coupon, arrivando persino a trasformarlo in un credito di 5,63 dollari. “Per me è un lavoro a tempo pieno”, ha spiegato il giovane. Cosa farne di tutta questa roba è un tema del tutto secondario. L’importante è procacciarsela, assecondando la propria bulimia da consumo.

Debito e consumo sono la declinazione economica di colpa e desiderio. L’educazione americana.