Etichettato: relazione bankitalia 2013
L’anno d’oro dei paperoni italiani
L’anno orribile alle nostre spalle non deve esser stato così orribile, o almeno non per tutti, se le attività finanziarie delle famiglie italiane sono cresciute in valore del 2,1%, arrivando a quotare il 3,6% del reddito disponibile.
In media, ovviamente.
Sicché mentre continuo a sfogliare l’ultima relazione di Bankitalia, che così tante verità sussura nelle orecchie di chi voglia ascoltarle, mi sorge il dubbio che siamo tutti vittima di una rappresentazione artatamente drammatizzata della nostra realtà, dove trovano ostello solo uggie e depressioni, ritmate dall’onnipresente crisi, mentre molti, all’ombra di cospicui conti correnti o portafogli zeppi di carta valevole, nel disgraziatissimo anno che abbiamo superato, col suo prodotto declinante e la sua finanza pubblica in bilico, prosperino assai bene. E buon per loro, ovviamente.
Ma perché allora non raccontarla tutta questa storia?
Mi dico che dev’essere un vezzo del carattere nazionale farla sempre peggio di come sia, oppure svalutare le nostre peculiarità più belle solo perché magari le disgrazie hanno buona stampa, a differenze delle fortune. O forse perché ci piace raccontarci tristi e disgraziati, mentre sorseggiamo l’aperitivo delle cinque attrezzati di tutto punto con lo smartphone all’ultimo grido.
Sicché mi dico pure che non è prova di scarsa discrezione ficcare il naso nelle tasche altrui, ma semplice restituzione di realtà a un Paese che ha smesso di pensare a come usare i suoi soldi in un modo che sia altro da farci altri soldi.
La ricchezza finanziaria, perciò, croce e delizia delle famiglie italiane (e delle imprese), che si trovano invischiate nel fastidioso (e invidiabile) problema di dover gestire masse di attivi che a fine 2013 sfioravano i 3.900 miliardi di euro che, al netto di debiti per altri 900 circa, quotano una rispettabile ricchezza numeraria netta di quasi 3.000 miliardi. Per la precisioni sono 2.975,535 miliardi.
Parlo di ricchezza finanziaria perché quella totale, che quindi include i beni reali, ha sofferto per il calo del mattone, che anche nel 2013 ha patito, dopo aver goduto a inizio secolo di rialzi spettacolari. Sicché la ricchezza totale, sempre a fine 2013, è diminuita rispetto al 2012 da 8 volte a 7,9 volte il reddito disponibile. Ciò, malgrado il corposo rialzo che abbiamo visto della quota finanziaria di tale ricchezza. Ciò per dire quanto sia rilevante il mattone a casa nostra.
Limitiamoci alla finanza, perciò, che ha già tante cose da dirci.
La ricchezza finanziaria lorda è arrivata a quotare, sempre in media, 3,6 volte il reddito disponibile, superando persino il livello del 2007, quando era 3,5 volte il reddito, come se la crisi fosse stata solo un brutto sogno.
Circostanza comune, peraltro. E’ accaduta la stessa cosa in Francia (da 2,94 a 3,17), in Germania (da 2,78 a 2,79), al contrario della Spagna, che ancora deve recuperare (da 2,86 a 2,79). Mentre nell’area euro il trend è consolidato (da 3,14 a 3,27).
Se poi depuriamo delle passività la ricchezza, scopriamo, sempre nel confronto intereurozona, che godiamo ancora dell’invidiabile privilegio della più bassa quota di debiti finanziari sul reddito disponibile, pari al 65%, persino in calo rispetto al 2012, a fronte dell’85% franco-tedesco e del 116% spagnolo, ben al di sotto della media euro del 95%.
Vale la pena rilevare, tuttavia, che dal 2007 i debiti li abbiamo peggiorati (erano il 57% del reddito), al contrario di quanto è accaduto in Spagna, che erano al 131%, ma in coerenza con quanto è accaduto nell’intera euroarea (dal 95 al 98%).
E ciò malgrado, la nostra ricchezza finanziaria netta quota 2,76 volte il reddito disponibile, ben oltre la media euro di 2,17 e sopra anche Francia (2,12) e Germania (1,94). Certo, le statistiche sono ingannatrici, e bisogna pur tener conto del numero di abitanti e dei valori medi e mediani. Però l’indicazione è chiara: i soldi, come sistema paese, ce li abbiamo. E sono pure aumentati.
Nel 2013 il saldo finanziario delle famiglie è arrivato al 2,5% del Pil, superando quota 30 miliardi, in crescita rispetto ai 18 del 2012. Per chi non lo ricordasse, il saldo finanziario misura la differenza fra il flusso dei risparmi e quello degli investimenti. Quindi un saldo finanziario positivo significa che si è investito più di quello che si è disinvestito.
Come li utilizziamo è un altro paio di maniche.
Quindi è scrutando la dinamica degli impieghi che s’arguisce la fisionomia di un popolo e di un’epoca.
Scopro così che nel 2013 siamo diventati un filo più amanti del rischio, ma solo perché siamo molto più attenti ai rendimenti. Sono aumentati gli investimenti in azioni e nelle varie forme del risparmio gestito. Da bravi capitalisti, gli italiani danarosi vogliono trarre il massimo dalle proprie provvidenze, in forme di rendite. Anche perché il governo le ha pure tassate più di prima e perciò bisognerà pure rischiare qualcosa di più per cavarci una qualche soddisfazione.
E perciò a soffrire deflussi sono innanzitutto i titoli di stato (non c’è più lo spread di una volta) e anche le obbligazioni bancarie.
Ma ciò non vuol dire che siamo diventati degli spregiudicati gambler. Al contrario. Una rilevante percentuale di questi soldi è investita in attività liquide, quindi circolante e depositi. Parliamo del 30,9% del totale del malloppo, in decisa crescita rispetto al 27,3% del 2007. In valori assoluti parliamo di circa 1.047 miliardi di depositi, ai quali bisognerebbe aggiungere circa 273 miliardi di risparmio postale e soldi liquidi, carta commerciale e altre amenità.
Ma è cresciuta di più la quota di ricchezza investita in attività più rischiose, arrivata al 31,4%, dal 29,2 del 2007.
E già qui si individua una interessante linea di faglia che appassionerebbe un sociologo: i più ricchi cercano il rischio, i più poveri si aggrappano al conto alla posta. I primi guadagnano, gli altri no. Risultato: aumenta la disuguaglianza.
I dati del 2012, sempre di Bankitalia, sottolineano che il 10% più ricco ha portato la sua quota di ricchezza al 46,6% dal 45,7 del 2010, a dimostrazione (qualora fosse necessario) che le crisi servono a far ricchi i più ricchi. E sono proprio costoro, i più ricchi, quelli che si possono permettere di giocare al rialzo, dando la caccia al rendimento.
“Le famiglie più abbienti sono i principali investitori in attività rischiose e detengono oltre due terzi del totale di azioni, obbligazioni emesse dal settore privato, risparmio gestito e titoli esteri”, scrive Bankitalia.
Per darvi un’idea di che cifre stiamo parlando, sappiate che le consistenza di azioni a fine 2013 quotavano oltre 916 miliardi di euro, i titoli obbligazionari 624 miliardi, dei quali appena 184 bond statali (in calo di quasi 40 mld fra 2012-13), e 308 miliardi di fondi comuni.
I soldi fanno soldi, dice il proverbio.
E anche la relazione annuale conferma un dato che ci era noto: “Il valore mediano della ricchezza netta dei nuclei con capofamiglia di età superiore a 64 anni registra una
dinamica di lungo periodo più favorevole rispetto a quella dei nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni”.
Detto in parole semplici: la ricchezza è concentrata nella fascia più anziana della popolazione.
Il 2013, perciò, è stato un anno d’oro per i paperoni italiani, che sono diventati più ricchi di prima. E di nuovo: buon per loro. Ma possibile che non si riesca a fare nulla di meglio coi soldi che farne altri?
A fronte di ciò leggo con divertito sconcerto che sono aumentati, nella generale crisi del credito, i prestiti garantiti dal quinto dello stipendio, “una forma di finanziamento meno rischiosa per gli intermediari (le banche, ndr)”.
Sicché i ricchi si arricchiscono e i poveracci cedono il quinto.
D’altronde non ho mai detto che questa fosse una storia a lieto fine.
Il divorzio (all’italiana) fra debito pubblico e ricchezza privata
C’è molto sentimento nel rapporto che noi italiani intratteniamo col nostro debito pubblico, che poi altro non è che l’apparenza contabile del nostro Stato e perciò, in sostanza, la fisionomia di noi stessi.
Tale sentimento, che oggi volge all’odio dopo una lunga stagione d’amore, racconta del difficile rapporto che intratteniamo con noi stessi, ora egotico/superomista, ora autoflaggellante/esterofilo, ma soprattutto racconta di una lunga relazione, un matrimonio quasi, che il popolo italiano ha intrattenuto con il suo bilancio pubblico, facendone la cornucopia della sua privatissima ricchezza al prezzo, appunto, del debito che conosciamo, che tanto scandalo ha generato nel mondo finendo con l’interrompere l’idillio.
Sicché il matrimonio è diventato un divorzio.
Divorzio all’italiana, comunque. Quindi pieno di sotterfugi e balletti, un passo avanti e due indietro, con l’occhio giudicante dei perbenisti che alla fine ti spingono al delitto: proprio come nel vecchio film di Germi.
Sicché il divorzio fra il nostro debito pubblico e la nostra ricchezza privata non ha mai avuto la meritata evidenza che pure hanno trovato nelle cronache divorzi assai meno rilevanti, se non per gli appassionati, come quello dell’81 fra il Tesoro e Bankitalia, di cui chi segue questi argomenti potrà trovare ampi resoconti sulla rete.
Il che è un vero peccato, perché il dovorzio fra debito pubblico e ricchezza privata semina ancora oggi i suoi frutti velenosi nella nostra società, e, soprattutto, non essendo stato elaborato il lutto, spinge la popolazione da una parte a disprezzare il suo Stato e dall’altra a chiedergli soccorso.
Proprio come succede fra ex coniugi che abbiano malamente divorziato dopo una lunga storia d’amore, essendo infine vittima ognuno del conforto delle consuetudini.
E che sia stato amore, quello fra debito pubblico e ricchezza privata, non è un’esagerazione.
La natura di questo sentimento mi si è rivelata grazie a una agilissima tabella pubblicata nell’ultima relazione annuale di Bankitalia dal titolo tutt’altro che sentimentale: risparmio e investimenti lordi in Italia, quota percentuali del reddito nazionale lordo disponibile.
Sorvolo sulla mia distonia che mi fa scorgere sentimenti dietro l’arida statistica, e mi soffermo invece su una serie storica che la banca centrale sommarizza a far data dal 1981 (quando si consumava anche quell’altro divorzio, casualmente).
Prima di illustrarvela però serve una breve premessa, sempre perché il significato delle definizioni statistiche spesso è molto diverso da quello che noi pensiamo che sia.
Nella teoria economica si definisce risparmio nazionale la differenza fra il prodotto interno e i consumi, ed equivale algebricamente alla somma degli investimenti interni e al saldo, debitore o creditore che sia, verso il resto del mondo. Quindi se gli investimenti eccedono il risparmio nazionale avremo un deficit verso l’estero e viceversa. In pratica vuol dire che un paese ha dovuto chiedere soldi all’estero per finanziare i suoi investimenti, visto che il risparmio nazionale non è stato sufficiente.
La contabilità nazionale fotografa il risparmio nazionale dividendolo nei tre settori dell’economia. Quindi il settore pubblico, le famiglie e le imprese. Semplificando potremmo considerare che siano solo due: il pubblico e il privato, ossia i nostri due coniugi immaginari. Se il pubblico consuma meno di quanto produce avremo un risparmio pubblico, viceversa un deficit. Ad esso si oppone il comportamento dei privati.
Nel decennio fra il 1981 e il 1990, ci racconta Bankitalia, il risparmio delle amministrazioni pubbliche è stato sempre negativo, per una percentuale media del 6,6% del reddito nazionale (ossia del prodotto). Sono gli anni in cui il nostro debito pubblico cresce senza freni, infatti, e nei quali il matrimonio fra Stato e cittadini raggiunge l’acme del suo idillio. Sono gli anni del tutto (gratis) per tutti, nei quali il fisco era amichevole e disattento, e le provvidenze dello Stato arrivavano a pioggia, sotto forma di prestazioni sociali, pensioni in testa, posti di lavoro, sovvenzioni di ogni tipo.
Basterà ricordare che nel 1990, quando Istat inizia a elaborare le statistiche paragonabili, la pressione fiscale stava poco sopra il 35% e il deficit/Pil, già dal 1987 e fino al 1993, viaggiava saldo sopra il 10%.
Il settore privato, infatti, arrivava a risparmiare in media il 28,8% del reddito ogni anno, con le famiglie a fare la parte del leone con un bel 20% tondo, col quale magari finanziavano i deficit statali imbottendosi di bond statali a interessi a due cifre. Ricorderete che nei primi anni ’90 la quota di titoli di stato in mano alle famiglie era pressoché il doppio di oggi.
Al netto del deficit pubblico, il risparmio nazionale si collocava intorno al 22,3% del reddito, a fronte del quale si conteggiavano investimenti lordi pari al 23,2% del prodotto. La conseguenza era che il deficit dei nostri conti con l’estero si collocava, sempre nel periodo considerato, allo 0,9% del reddito.
L’idillio entra in crisi nel decennio fra il 1991 e il 2000. La caduta del muro e la conseguente ricalibrazione degli equilibri internazionali, mettono a nudo l’insostenibilità di un matrimonio nel quale un coniuge si arricchisce a spese dell’altro. Circostanza già nota, ma tollerata in omaggio a una logica, quella della guerra fredda, che considerava le compatibilità di bilancio un dettaglio. Consentire ai privati di vivere al di sopra delle proprie possibilità era un prezzo tutto sommato accettabile col nemico alle porte. Non più una volta che il nemico ha deposto le armi.
Il nuovo corso inizia con la crisi del 1992. Da quell’anno e fino al 1997 lo stato italiano realizza una correzione fiscale del 6,5% sul saldo primario che conduce l’indebitamento netto nella fatidica soglia del 3% del Pil. Ci si preparava a sognare il sogno europeo.
Sicché il risparmio nazionale cambio volto. E gli investimenti di conseguenza. Nel periodo 1991-2000 la media del risparmio pubblico rimane negativa, ma si dimezza quasi, portandosi al 3,3%. Di conseguenza cala il risparmio del settore privato, che si porta a un sempre comunque ragguardevole 24,6%.
Ma sono le famiglie a pagare il prezzo più alto: dal glorioso 20% di dieci anni prima, il risparmio si ferma al 13%. Ciò implica che quello delle imprese, che dieci anni prima era all’8,8%, guadagna quasi tre punti, portandosi all’11,6%.
Gli anni Novanta, d’altronde, sono quelli della privatizzazione e delle liberalizzazioni, che il mainstream presentava come la panacea dei mali della nostra società.
Il risparmio nazionale lordo, di conseguenza si riduce, seppure di poco, arrivando al 21,3%, ma poiché gli investimenti perdono quasi tre punti, portandosi al 20,5%, il saldo con l’estero diventa positivo per lo 0,9. Gli anni Novanta, ricordo anche questo, sono gli anni della crisi valutaria, della svalutazione e del rimbalzo del nostro export.
Senonché è proprio in quegli anni che si innesca la spirale del nostro declino produttivo. Un calo degli investimenti non è mai un buon viatico per il futuro. E soprattutto, l’Italia si è incamminata nel percorso di costante erosione del proprio risparmio privato, guidata dal calo dei redditi di lavoro, dovendosi correggere il profondo squilibrio di quello pubblico.
Il divorzio si sostanzia già da metà anni Novanta, ma diventa palese nel primo decennio del XXI secolo: fino al 2008, infatti, l’Italia accumula avanzi primari che di fatto azzerano il deficit di risparmio del settore pubblico.
E infatti la tabella di Bankitalia segna un bellissimo zero alla voce risparmio delle amministrazioni pubbliche, mentre il risparmio del settore privato crolla al 19,9, quasi dieci punti in meno rispetto ai mitici anni ’80, con le famiglie che ormai totalizzano un misero 8,1% mentre le imprese, con il loro 11,8% consolidano e migliorano il dato del dcennio precedente.
Ma il succo è che il risparmio nazionale crolla al 19,9% mentre gli investimenti aumentano al 21,2. Siamo in piena età dell’euro, quando i (finti) tassi bassi incoraggiano tutti a investire, specie nel mattone, preparando il disastro che andrà in scena dal 2008 in poi.
Ma a questo punto gli ex coniugi sono in pieno litigio. Lo Stato, da madre generosa diviene matrigna. E ovviamente il prezzo più caro lo pagano i figli, come sempre succede. Sono i giovani le prime vittime del divorzio fra pubblico e privato.
Nel 2010, quando ormai la lunga serie di avanzi primari si è interrotta da due anni, malgrado un deficit di risparmio statale dell’1,5%, non è più il settore privato a goderne il frutto, ma il mercato internazionale. Schiacciato dal debito, lo Stato italiano deve innanzitutto pensare a servirlo, pure al costo di stritolare i bilanci familiari.
Non siamo più nello splendido 1990: la pressione fiscale ormai veleggia ben oltre il 40% del Pil.
Sicché il risparmio privato ne soffre, e quello delle famiglie ancor di più. Il primo arriva al 18,3% e il secondo scende al 6,1. Cresce solo quello delle imprese, ormai oltre il 12%. Troppo poco per sostenere gli investimenti, che pure se in calo, sono ancora al 20,4%, provocando un deficit del 3,6% col resto del mondo.
Si prepara la crisi dello spread.
Nel 2012, a crisi consumata e ulteriore dolorosa correzione imposta (a vent’anni dal ’92) il deficit di risparmio pubblico si è ridotto a un timido 0,3% e il risparmio del settore privato al suo minimo storico del 18,1%, con le famiglie ormai ridotte a un povero 5,4%, quasi un quarto del livello degli anni ’80.
Come tutti i matrimoni finiti male, anche questo porta con sé una coda dolorosa. La correzione statale, infatti, non è riuscita ad abbattere il debito, che anzi è cresciuto. Il che costringerà il settore pubblico a ulteriori correzioni a spese del settore privato.
Un po’ meno male se la passano le imprese che, sempre nel 2012, vedono sostanzialmente stabile la loro quota di risparmio al 12,7% e i nostri conti esteri, il cui deficit scende allo 0,4%. Ma solo perché gli investimenti lordi sono ulteriormente calati al 18,3, quasi cinque punti in meno rispetto agli anni ’80. E ci stupiamo che la disoccupazione sia al 13%?
Il 2013, che chiude questa breve narrazione, è l’anno del governo delle larghe spese, che infatti triplica il defici di risparmio del settore pubblico (allo 0,9%), aumentando di conseguenza il risparmio del settore privato (19,3%), in una inedita riedizione dei vecchi tempi, ma senza la loro passione travolgente. Un piccolo amarcord.
Le famiglie guadagno un punto di risparmio, portandosi al 6,4% e le imprese arrivano a sfiorare il 13%. Ma è una coda avvelenata anche questa.
Gli investimenti infatti crollano al 17,5%, visto che lo Stato prosciuga praticamente la sua quota, però in tal modo il saldo con l’estero diventa positivo per lo 0,9%. Il 2013 è l’anno in cui il nostro debito pubblico torna di moda dopo la fuga del 2011.
Morale della favoletta: le famiglie italiane son quelle che hanno goduto di più, nel settore privato, quando lo Stato elargiva a mani basse, e sono quelle che hanno pagato di più quando lo Stato ha dovuto smetterla e che presumibilmente dovranno continuare a pagare.S
Le imprese, al contrario, alla fine della storia ci hanno guadagnato, ma solo al costo di un calo degli investimenti di quasi sei punti, in gran parte dovuta al crollo della spesa statale per investimenti, che ha messo in crisi il sistema produttivo e l’occupazione.
Questo dicono i numeri. Quello che non dicono è il danno che questo trentennio ci lascia in eredità, che non è certo (o almeno non solo) il nostro debito pubblico, a fronte del quale, vale rilevarlo, abbiamo ancora una delle ricchezza private più alte al mondo che peraltro non sappiamo neanche come utilizzare.
No: il guasto principale è che il coniuge tradito (il settore privato) chiede ancora gli alimenti a colui che ha imposto il divorzio (il settore pubblico).
C’è una preoccupante dipendenza psicologica che lega il settore privato a quello pubblico, malgrado lo storia mostri con evidenza che gli italiani, quando si tratta di roba loro, sono bravissimi a far da soli.
Siamo un popolo di autentici falsi liberali, verrebbe da ironizzare.
Vogliamo l’aiuto dello Stato, ma lo odiamo.
Viziati da anni e anni di prebende pubbliche, abbiamo dimenticato la nostra natura sostanzialmente anarchica, e continuiamo a ignorarla, chiedendo allo Stato di dare ciò che non può più dare. Quindi soldi, prima ancora che un buon esempio. Lo Stato rimane un’ampia possibilità di saccheggio, e ci stupiamo pure che ci siano gli scandali.
Anche questo succede nei matrimoni, quando la consuetudine prevale sull’interesse reale dei coniugi.
E finirà che a furia di rimpianger la vita comoda, ne otterremo un’altra.
Assai scomoda.
L’ultima sfida della globalizzazione
Evviva il commercio, dicevano i vecchi liberali, convinti che tale pratica fosse la panacea d’ogni male e il viatico di ogni bene. Il commercio, quindi scambi sempre più fitti, con lo stato a regger la cornice del quadro idilliaco in cui l’operoso mercante, col sostegno del banchiere avveduto, portava la sua roba di là del mondo per tornare al suo più ricco e cosmopolita, e perciò cittadino più degli altri del grande luogo che si chiama mercato internazionale.
Questa utopia, germinata secoli fa in quella che Polanyi chiamò mercato autoregolato, ha conosciuto la sua seconda o terza giovinezza da un trentennio a questa parte, e in particolare negli ultimi venti, quando la fine della guerra fredda ha trasformato il mondo in una bancarella globale dove le merci, denaro in testa, provano a circolare liberamente per la gioia dei mercanti, appunto, e dei cittadini che così, dice la vulgata possono comprare mercanzie estere a prezzi convenienti, poiché è facile importarli laddove è conveniente produrle, come insegnavano gli economisti classici.
Il nuovo eden in cui tutto si scambia, perciò, è divenuto il mito contemporaneo e di conseguenza la costituente della narrazione collettiva che l’economia sostanzia con i suoi astrusi algoritmi. Siamo cresciuti e cresciamo a pane e globalizzazione, con, come sottofondo, i raglii stonati di quelli che si dicon contrari, salvo poi esibire smartphone coreani, mangiare sushi, fumare Camel, vestire indiano e riempirsi la bocca della Cina, magari guidando una bella Bmw.
D’altronde non bisogna stupirsi: l’utopia della globalizzazione genera la contro-utopia del no logo, esattamente come il capitalismo ha generato il comunismo. Peraltro global e no global hanno in comune una semplice circostanza: entrambi sono mode assai remunerative per chi le pratica.
Quest’allocuzione che a molti parrà fuori luogo in realtà me l’ha ispirata la lettura della sempre interessante relazione annuale della nostra banca centrale che con grande acume dedica un paio di paginette alla grande scommessa (forse l’ultima) del futuro prossimo venturo: ossia il rilancio in grande stile del processo di globalizzazione guidato stavolta non più dai soliti accordi bilaterali fra stati, redatti sotto lo sguardo benigno del Wto, ma direttamente dai grandi accordi regionali, fra i quali spicca quello che dovrebbe siglarsi fra Usa e Ue, destinato per sua stessa natura a fungere da apripista agli altri.
Tale accadimento, spiega Bankitalia, non è certo un incidente della storia, ma risponde a una precisa logica economica.
“Sulla scelta delle principali economie di investire in accordi di liberalizzazione a elevato potenziale – scrive – hanno influito anche fattori congiunturali. In una fase di stringenti
vincoli alla spesa pubblica, questi accordi rappresentano strumenti di stimolo all’attività economica e al commercio internazionale che non incidono direttamente sulle finanze statali”.
Senonché il problema è quel “direttamente” che chiude il ragionamento. Perché gli stati, con le loro gelosie e i loro protezionismi, da sempre bestie nere dei mercanti, sono gli stessi che dovrebbero abbattere le barriere che hanno costruito. E proprio in fase di “stringenti vincoli alla spesa pubblica”, ossia di malumori nazionali, non è certo semplice gestirne altri che necessariamente derivano dall’infliggere una robusta dose di globalizzazione al mercato interno. Non è certo un caso che il commercio internazionale si sia ridotto a causa della crisi.
Come esempio basti quello che già ha prodotto il primo veto nel negoziato Usa-Ue: la normativa sugli appalti pubblici.
Gli Usa, notori campioni del liberalismo (altrui) proteggono le proprie imprese nazionali riservando loro una corposa quota della spesa pubblica stanziata per gli appalti e quindi non hanno alcuna intenzione di aprire il loro ricco mercato interno alle imprese estere che, hai visto mai, potrebbero persino competere in casa loro.
Non vi stupisca questa ipocrisia: dire una cosa e praticare il contrario è prassi comune nel pensiero liberale applicato, coi liberali puri a lagnarsi degli stati che dicono che bisogna liberalizzare ogni cosa, ma col quasi fra parentesi.
Nel 2013 perciò, sulle ali della timida ripresa che fa vagheggiare altrettanto timidi balzi del prodotto, è ripartito l’impeto globalizzante al grido: riforme a costo (fiscale) zero e ad alto valore aggiunto.
Il commercio, perciò, innanzitutto.
“Il 2013 – scrive Bankitalia – ha rappresentato un anno di svolta per le iniziative di liberalizzazione commerciale, contraddistinto dall’avvio dei negoziati per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), ambizioso accordo bilaterale fra Stati Uniti e Unione europea, dall’avanzamento di quelli per il Trans-Pacific Partnership Agreement (TPP), che interessa oltre agli Stati Uniti e al Giappone numerosi paesi dell’Asia – a esclusione della Cina – e alcuni dell’America latina, e dalla conclusione del primo accordo multilaterale in seno al Doha Round, lo scorso dicembre a Bali”.
Tanta effervescenza è stata sospinta dalla crisi che ha fatto ripensare le strategie della politica commerciale globale. Dopo il fallimento del Doha round, degradato a congerie di accordi bilaterali da quel mega accordo globale che si immaginava sarebbe diventato agli albori del XXI secolo, Usa, Ue e Giappone hanno deciso di intraprendere la difficile sfida degli accordi regionali che, nota la Banca, “rispondono alle esigenze di un sistema produttivo ormai sempre più organizzato su scala globale”. D’altronde che senso avrebbe per un tedesco produrre in Cina se poi non potesse vendere negli Stati Uniti?
Senonché tale logica meravigliosa contrasta con una delle costituenti stessa del pensiero economico-liberale, ossia con gli stati. Gli stati hanno inventato i mercati, a cominciare da quelli interni, gli stati possono distruggerli, a cominciare da quelli internazionali, che peraltro hanno sempre subìto più che apprezzato e con i quali oggi sono costretti a fare sempre più i conti, dovendoseli pure far piacere. Ciò spiega perché ognuno mantenga intero il suo potere di contratto.
“Le negoziazioni tra economie di pari rilievo, tuttavia, sono particolarmente delicate e difficili – nota Bankitalia – richiedendo una maggiore disponibilità a scendere a compromessi. Vi è quindi un concreto rischio che le trattative si protraggano oltre gli orizzonti previsti, come testimoniato dalle difficoltà emerse finora in seno ai negoziati per il TTIP e il TPP”.
Difficoltà non facili, anche per la vastità dell’ambizione del processo di globalizzazione che ormai vuole estendersi a qualunque scibile, sia esso finanziario, regolatorio, normativo o merceologico. Vuole esser tutto per tutti, e per ognuno allo stesso modo.
Quest’ansia omologante trova la sua ragion d’essere nel miraggio dei guadagni, che in epoca di cresci asfittica vengon promessi abbondanti. I “numerosi studi” concordano nel calcolare i benefici derivanti dal liberalizzare nell’ordine dei tre decimi/un punto di Pil, anche se la stessa Bankitalia rileva quanto siano aleatorie e incongruenti tali stime.
Sicché rimane da osservare che di certo c’è solo che il commercio internazionale cala, con grande scorno dei buoni propositi, anche nel primo trimestre del 2014. “Secondo le più recenti previsioni del Fondo monetario internazionale, il volume degli scambi si espanderebbe del 4,3 per cento nel 2014, una crescita ancora contenuta in relazione alla dinamica del PIL mondiale (3,6 per cento), rispetto all’elasticità storicamente osservata”.
Perciò la massima scomessa della globalizzazione viene giocata nel momento di massima debolezza dei commerci internazionali. Proprio per questa ragione, sottolinea la vulgata: per rilanciarla.
Proprio come si fece negli anni Venti del XX secolo, quando tutti i paesi si sottoposero alla cura da cavallo del gold standard proprio per rilanciare il commercio internazionale, a cominciare da quello dei capitali, che sul gold standard, si basava e allo stesso tempo gli stati aumentavano la loro dotazione di gelosie protezionistiche, visto che l’adozione dello standard finiva col deprimere le loro economie.
Poi arrivarono gli anni Trenta.
