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Il futuro della globalizzazione passa dal Mare Cinese meridionale

Lunedì mattina, 5 marzo, la portaerei Usa Carl Vinsom si è fatta vedere nel porto vietnamita di Da Nang. Fatto storico, visto che è la prima portaerei americana a costeggiare il Vietnam dal 1975, quando terminò il conflitto, e insieme simbolico, visto che il Vietnam è uno degli stati impegnati nella lunga tenzone che da anni si combatte silenziosamente, a suon di isole artificiali e insediamenti militari, nel mare meridionale della Cina. Ovviamente i cinesi sono stati i primi a reagire. Il ministro degli esteri cinese, parlando dopo pochi giorni a una conferenza stampa a margine del National People’s congress, la sessione annuale del parlamento cinese, ha detto genericamente che “poteri esteri” stanno mostrando i muscoli e creando grandi disturbi nella regione del Mare cinese meridionale. E così, d’improvviso, la questione del conflitto silenzioso è tornata attuale, proprio nel momento in cui l’amministrazione Trump svela il suo piano di dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio che sembra fatto apposta per penalizzare, oltre all’industria europea, quella cinese.

I dazi, che certo non lasceranno indifferente Pechino, sono solo l’ultimo fronte di tensione che gli Usa dovranno affrontare con i cinesi. Ma probabilmente il caso della portaerei in Vietnam ha creato maggiore nervosismo al governo cinese per la semplice ragione che si tratta di una interferenza in un processo assai complesso che Pechino sta portando avanti da anni con i paesi dell’Asean e che dovrebbe condurre alla redazione di un codice di condotta, annunciato nel novembre scorso, per la gestione della regione del Mare cinese meridionale, zona tanto contesa quanto strategica. Le ragioni sono molteplici. I fondali sono molto pescosi e si pensa contengano anche importanti riserve di idrocarburi. Ma soprattutto è una zona da dove si dipanano importanti rotte commerciali, attraversate da numerose navi piene di container, ossia l’ossigeno che alimenta l’economia esportatrice della Cina.

Come si può osservare dal grafico, oltre alla linea diretta di trasporto marittimo verso gli Usa attraverso il Nord Pacifico, esistono almeno quattro rotte che attraversano il Mar cinese meridionale che sono vitali per i traffici diretti verso l’Europa, l’Africa e il Sud America. Alcuni specialisti stimano che attraverso il Mare cinese meridionale passi la metà del traffico merci del mondo. In sostanza, si tratta di una regione altamente strategica per il futuro della globalizzazione, che com’è noto procede innanzitutto per mare, con la stragrande maggioranza delle merci trasportate su container e cargo. Un grafico tratto dall’ultima Review of maritime transport dell’Unctad illustra benissimo questa situazione.

Come si può osservare, l’andamento del trasporto marittimo di merci segue pressoché quello del commercio internazionale. E non è certo un caso che la Cina possegga (insieme alla Germania e alla Grecia) il 39% delle flotte commerciali del mondo. Si stima che Pechino disponga di 5.000 navi mercantili e abbia costruito, insieme a Giappone e Corea del Sud, le navi sulle quali ha il 92% delle merci nel 2016.

Al tempo stesso, lungo il Mare cinese meridionale transitano un terzo dei trasporti di greggio globale e la metà del gas naturale destinati alla Cina, ma anche alle altre potenze asiatiche. E la Cina, in particolare, vede passare il 70% dei suoi acquisti di petrolio attraverso lo stretto di Malacca.

L’economia del mare, per la Cina, è a dir poco vitale, e perciò non deve stupire che qualche anno fa, nell’ambito del tredicesimo piano quinquennale, gli estensori abbiano ribadito che una delle priorità assolute è diventare una “potenza marittima”, attraverso la modernizzazione della flotta e insieme tramite l’occupazione di territori strategici nel Mar Cinese meridionale e orientale. In uno dei libri bianchi della difesa pubblicato dal governo cinese, si legge che Pechino conferisce “grande importanza alla gestione dei mari e degli oceani e alla protezione dei diritti e degli interessi marittimi”. Ecco perché la Cina deve rafforzarsi e “costruire una marina da combattimento efficiente e multifunzionale”. Il passaggio dalla marina commerciale a quella militare spiega bene il notevole incremento nella spesa militare, che abbiamo già osservato, e insieme ricorda l’epopea della marina tedesca prima della Grande Guerra, che la Germania di allora creò per insidiare la supremazia inglese sui mari, prima commerciale e poi militare per soddisfare le sue velleità coloniali. La storia tende a ripetersi, pure se cambiano i personaggi e gli interessi.

Questa chiave di lettura spiega perché Pechino da parecchio tempo abbia tracciato la sua linea immaginaria, conosciuta come Linea dei nove trattini, lungo il Mare Cinese meridionale e anche perché, come di recente è stato documentato, vi abbia costruito intorno delle isole artificiali dove ha installato infrastrutture militari che hanno mandato su tutte le furie gli altri paesi che insistono sul Mare, fra i quali il Vietnam, appunto, e anche le Filippine. Tale modo di fare è proseguito noncurante anche di una sentenza della Corte dell’Aja, richiesta proprio dalle Filippine, che nel luglio 2016 stabilì che le acque rivendicate dai cinesi erano acque internazionali, che però è rimasta lettera morta. E spiega anche perché gli Usa, sostenuti anche da altri paesi come la Gran Bretagna e l’Australia, si erigano a paladini della libera navigazione dei mari e ogni tanto facciano capolino nel Mare cinese meridionali esibendo l’artiglieria. Perché la diplomazia è una bella cosa, ma alla fine è la spada che traccia il solco dove passano i mercati. La Cina lo sa e gli Usa meglio di lei. E non c’è rischio che lo dimentichino.

(2/fine)

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