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L’insostenibile peso del mattone
Gira e rigira si torna da dove siamo partiti. E il punto di partenza, che ha originato per via finanziaria il caos di questi tristissimi anni, è stato il settore immobiliare che perciò, e non a caso, è il chiodo fisso di tutti i regolatori. Anche perché, come spiega efficacemente la Bis nel suo ultimo quaterly report, “i prezzi delle abitazioni sono indicatori precoci di instabilità finanziaria”.
“Fin troppo spesso – nota la banca – al centro degli episodi di tensione sistemica vi sono stati boom immobiliari alimentati dall’indebitamento, poi sfociati in un bust. L’esperienza storica dimostra che le interazioni fra una rapida crescita dei prezzi delle abitazioni e un’eccessiva espansione del credito sono un segnale significativo dell’accumulo di vulnerabilità nel settore delle famiglie e fonte di perdite future per le banche”.
Purtroppo l’esperienza storica non ci ha insegnato nulla. L’avere identificato una chiara correlazione fra aumento dei corsi immobiliari e conseguenti crisi bancarie, dovute all’espansione irresponsabile del credito, non ha impedito, né impedisce tuttora, che tali boom siano non solo alimentati ma persino perseguiti.
Talché risulta persino schizofrenica l’attitudine a registrare con compiacimento l’andamento crescente dei corsi immobiliari, come sta accadendo in Usa e UK, e poi lamentarsi degli eccessi che rendono il mattone semplicemente insostenibile, quando poi l’eccesso è consustanziale al mercato immobiliare, dove la corposità dei rendimenti implica un’altrettanto elevata rischiosità, addirittura sistemica, visto il largo uso che fanno gli intermediari finanziari di mattone nei collaterali.
La Bis, e non a caso, ha messo in piedi un sistema di rilevazione statistica molto sofisticato per registrare le variazioni del mattone su scala globale, dando seguito a una indicazione in tal senso del G20 arrivata dopo l’ennesimo patratac e sta svolgendo un lavoro egregio malgrado, come ammetta lei stessa, “i dati sui mercati degli immobili commerciali sono assai lacunosi e difficili da reperire già a livello nazionale, e ancor più a livello internazionale”. Precisazione non da poco, atteso che gli immobili commerciali hanno un peso specifico assai elevato sull’andamento del mercato anche per la loro sensitività al clima economico.
Leggo perciò con crescente interesse la seguente domanda: i prezzi delle abitazioni attuali sono sostenibili? E capisco che la semplice circostanza che occorra formulare questa domanda implica che, ancora una volta, non abbiamo imparato niente dalla storia, malgrado sia assai recente.
Gli analisti di solito usano due indici per misurare la sostenibilità del mercato immobiliare, il price-to-rent e il price-to-income. Il primo misura il rapporto fra il canone di locazione di un immobile e il suo prezzo, replicando quindi l’indice dividendo/prezzo che si usa nel mercato azionario. Il secondo misura il rapporto fra il prezzo delle abitazioni e il reddito . Vale la pena ragionarci un po’ sopra per capirli meglio.
Se affitto a dieci un immobile che vale mille, vuol dire che il price-to-rent vale 0,01, ossia che il mio bene ha un rendimento dell’1%, decisamente basso. Ciò può essere determinato o dal costo troppo ridotto della locazione, che quindi dovrebbe essere aumentata, o da quello troppo elevato del bene. Il che genera un interessante paradosso: se i prezzi immobiliari calano, a parità di canone il rendimento aumenta. Quindi un elevato price-to-rent può significare due cose: o sono molto salati gli affitti, o sono poco care le case. In ogni caso un indice elevato condurrà naturalmente o a un calo degli affitti o a un aumento del costo degli immobili: essendo poco cari gli acquisti e costose le locazioni è logico tendere a comprare piuttosto che affittare.
Se un immobile costa mille e io ho un reddito di dieci, significa che il mio price-to-income vale cento, ossia che in pratica dovrei lavorare cento anni senza spendere nulla per comprare quell’immobile. La qualcosa è chiaro pure a quelli come noi, che esperti non sono, è assolutamente insostenibile. Nessuno potrà comprare, quindi dovrà affittare. Ciò condurrà a un aumento degli affitti e quindi a un incremento del price-to-rent.
Come vedete i due indici si devono leggere insieme, per avere una visione completa. Grossolanamente potremmo dire che un price-to-rent elevato, spingendo la domanda di acquisti, tende a tradursi in una crescita del price-to-income, poiché la maggiore domanda di immobili fa crescere i prezzi. Quindi in qualche modo i due indici sono complementari. Con la complicazione però di avere a che fare con dati poco elastici e praticamente mai in tempo reale. Quindi gli operatori di questo mercato sono auruspici più che analisti.
Detto ciò è interessante vedere come si stiano evolvendo i due indici su scala globale leggendo le statistiche della BIS.
Per non annoiarvi troppo mi limiterò al caso americano e poi darò un’occhiata a quello canadese e a quello italiano. Ma se avete voglia di saperne di più non avete che da leggervi il report della Bis.
Negli Usa, nell’ultimo triennio, i prezzi reali degli immobili sono cresciuti di circa il 16-17%. Nel suo grafico la Bis ha calcolato l’evoluzione del price-to-rent in relazione alla sua serie storica. Fatta 100 quest’ultima, un livello mettiamo di 110 del PtR implica che l’indice supera del 10% il suo valore storico. O, per dirla più semplicemente, che il rapporto fra prezzo degli affitti e costo degli immobili è del 10% maggiore di quello della storia. Ossia che il rendimento del mio immobile è superiore del 10% rispetto al passato.
Perdonate la prolissità, ma spiegarsi bene all’inizio serve a evitare fraintendimenti.
Ebbene, per gli Usa l’indice price-to-rent misura circa 130. Quindi i rendimenti degli affitti del mattone Usa sono del 30% superiori della media storica.
Se andiamo a vedere il price-to-income, quindi il rapporto prezzo reddito, vediamo che gli Usa stanno praticamente a livello 100, quindi i prezzi, malgrado l’incremento dell’ultimo triennio (o forse in ragione di ciò) sono ancora allineati al livello “normale” e ben lontani dal picco del 2005-6.
Cosa possiamo dedurne? Che poiché gli affitti hanno un buon rendimento e i prezzi sono nella media, il prezzo degli immobili dovrebbe aumentare (e mai condizionale fu più d’obbligo) nei prossimi anni, visto che molti, credito permettendo, stimeranno un buon investimento comprare immobili per affittarli.
Se prendiamo il caso del Canada, dove i prezzi sono saliti del 5% in tre anni, notiamo che l’indice del price-to-rent pesa addirittura 180. Quindi buon senso vorrebbe che i prezzi degli acquisti salgano, se non fosse però che al tempo stesso il Canada ha un indice del price-to-income pari a 140: quindi il livello dei prezzi sul reddito è del 40% superiore alla sua serie storica. Quindi il Canada ha un doppio problema: costano cari gli affitti, addirittura l’80% della loro serie storica, e anche gli acquisti. Il che non pare un buon viatico per la sostenibilità.
L’Italia appartiene al gruppo dei paesi, come anche la Spagna, dove i corsi immobiliari hanno perso parecchio negli ultimi tre anni, e precisamente il 15%, meno della Spagna, che ha perso oltre il 20%, ma anche dell’Irlanda, che ha perso circa il 16% e dell’Olanda, che ha sfiorato il -20%.
Detto ciò, l’indice del price-to-rent vede l’Italia esattamente a 100, quindi il costo degli affitti è allineato alla sua serie storica, a differenza della Spagna dove sta a 120, replicando il paese iberico, seppure più modestamente, la performance canadese.
Il price-to-income invece vede l’Italia sfiorare quota 120, proprio come la Spagna. Ciò implica che i prezzi siano quasi il 20% più alti della serie storica. In teoria ciò dovrebbe condurre a una correzione, passando magari da un temporaneo aumento degli affitti.
Tutte questa astrazioni astruse hanno un notevole punto di contatto. Seppure nelle diverse caratterizzazioni (affitti troppo alti in America, Spagna e in Canada, prezzi d’acquisto troppo alti in Canada, in Spagna e in Italia) ognuno rivela un rischio sostenibilità che, indirettamente, e l’abbiamo visto anche nel 2008, coinvolge le banche. Il settore immobiliare è ancora a forte rischio di sostenibilità, specie in un’epoca deflazionaria come quella nella quale ci siamo infilati.
Ciò rivela una singolare caratteristica del mercato immobiliare del nostro tempo, ma forse a ben vedere di tutti i tempi: la sua estrema pericolosità.
Il mattone è pesante d’altronde, Spesso insostenibilmente.
La questione peninsulare
C’è molto da imparare a leggere l’ultimo rapporto sul reddito disponibile delle famiglie pubblicato di recente dall’Istat, e ancora di più a scorrere le serie che raccontano la storia del reddito italiano sin dal ’95.
Cominciamo dalla voce più robusta del reddito disponibile, ossia la quota che deriva dal lavoro dipendente. Tale quota pesava il 55,9% nel 1995. Nel 2011 è arrivata al 61,5%. L’andamento nei 15 e passa anni considerati è stato più o meno crescente. Ha rallentato a fine anni ’90 e poi è cresciuta con regolarità dal 2003 in poi raggiungendo il picco del 61,7% nel 2010. In pratica siamo sempre più un paese di impiegati e sempre meno di imprenditori.
Tale sospetto si rafforza se guardiamo l’andamento del reddito misto, ossia del flusso che rappresenta la quota del risultato economico dell’impresa destinato alle famiglie produttrici. Nel 1995 tale voce pesava il 22,7% del reddito disponibile e da questa quota si è sposta di pochi decimali in più o meno fino al 2005, quando per la prima volta è scesa al 21,6%. Il calo è proseguito negli anni successivi fino al 20,5% del 2011, in leggera ripresa dopo il picco di ribasso del 20,3% del 2010.
Un altro indicatore molto interessante è quello relativo all’andamento delle imposte correnti. Nel 1995 pesavano il 14,7% del reddito. Nel 2000 erano già arrivate al 17,2%. Calano leggermente a partire dal 2001 (16,3%) per arrivare al 15,4% nel 2005. Nel 2006 si era già tornati al 16,2, per arrivare al 17,6 del 2010 e al lieve calo del 17,3% l’anno successivo.
Quindi l’incremento della quota di reddito riservata al lavoro dipendente è in rapporto di correlazione diretta (ed è anche facile capire il motivo) con l’andamento di quello del peso delle imposte (i redditi da lavoro dipendente sono gli unici che danno soddisfazione al fisco) e in rapporto di correlazione inversa con quella dei redditi misti.
Altra voce eloquente è quella delle prestazioni sociali, ossia i trasferimenti correnti corrisposti alle famiglie per, genericamente, la sicurezza sociale. Quindi il Welfare.
Tali passaggi di denaro pesavano il 24,5% del reddito nel 1995. Nel 1999 erano già il 26,4%. Calano lievemente fino al 2002 e poi riprendono a correre. Sono il 26,7% nel 2003, il 26,9 nel 2006, il 28,2% nel 2008 e superano stabilmente il 30% dal 2009 in poi.
Quindi una quota robusta del reddito disponibile viene originata dal lavoro dipendente e dal Welfare. E questa situazione, pure nelle differenze regionali, spesso sorprendenti (capita che la Sardegna abbia avuto una crescita percentuale del reddito disponibile per abitante fra il 2008 e il 2011 del 2,1%, più alta di Bolzano) accomuna tutto il paese.
Siamo un paese che campa di stipendi e di assistenza, dove la ricchezza prodotta dal redditi da capitale è crollata dal 27,3% del reddito del 1995 al misero 17% del 2011 e sopravvive a fatica una certa ricchezza immobiliare, anche questa falcidiata.
L’Italia si è meridionalizzata.
Ormai è esplosa la questione peninsulare.
