Le fondamenta fragili dell’export italiano

Il rapporto sulla competitività pubblicato da Istat ci consente di fare un passo ulteriore nella comprensione della fisionomia del nostro settore esportatore, sulla cui importanza per la nostra economia è inutile indugiare, visto che dovrebbe essere chiaro a tutti. Detto in parole semplici: senza il commercio internazionale eccedentario la nostra economia boccheggia.

Diventa perciò strategico comprendere bene le articolazioni di questo settore, e ricordare quanto abbiamo detto a proposito dell’export di servizi, che nel caso dell’Italia risulta purtroppo poco sviluppato. Una circostanza importante non solo per una questione di volumi economici, ma perché i servizi, o almeno alcuni tipi di servizi, incorporano maggiore valore aggiunto, che significa maggiore specializzazione e quindi conoscenza, ossia istruzione efficace. Detta in altre parole, la debolezza del nostro export di servizi è la fotografia delle nostra fisionomia produttiva. “L’Italia esporta in larga misura manufatti, ma il contenuto di valore aggiunto generato internamente è relativamente più elevato nel caso dell’export di servizi”, spiega Istat.

Questa caratteristica spiega bene l’andamento dell’export italiano nell’ultimo decennio e anche il modo in cui l’Italia partecipa alle cosiddette catene del valore, ossia alla filiera di processi produttivi che conduce dal bene iniziale a quello finale, che si distribuisce lungo realtà produttive localizzate in paesi diversi. Per comprendere perché l’analisi di queste “catene” sia diventata fondamentale per la conoscenza dell’economia contemporanea basta un dato. “La quota di commercio internazionale riguardante prodotti finiti che vengono realizzati in un paese e successivamente esportati per essere destinati al consumo o all’investimento in altri paesi rappresenta ormai solo il 30 per cento degli scambi di beni e servizi su scala mondiale. Il restante 70 per cento si riferisce a beni e servizi scambiati tra paesi lungo le catene globali del valore”. Questo è il senso profondo di un’economia globalizzata: si scambia per produrre assai più di quanto si produca per scambiare.

Fatte queste premesse, che in qualche modo anticipano le conclusioni, andiamo a vedere un po’ più nel dettaglio l’andamento del nostro settore esportatore negli ultimi anni. Il dato aggregato riportato da Istat ci dice che fra il 2010 e il 2017 le esportazioni italiane hanno registrato una crescita del 33%, in media il 4,2% l’anno, con il 2017 a far faville con un +7,6%, secondo classificato dopo il boom del 2011 (+11%). La crescita delle nostre esportazioni è stata in linea con quelle Ue, con i mercati extra Ue assai più dinamici.

Il dato aggregato però ci dice poco sulla qualità di questo export. Per addentrarci un po’ di più, dobbiamo segmentare i beni esportati nelle diverse categorie. Scopriamo così che l’Italia è andata molto bene, nel confronto con gli altri partner europei, nei beni di consumo non durevoli (+51,6% fra il 2010 e il 2017). La Germania si è segnalata invece per i buoni andamenti di beni intermedi (+25,7%) e strumentali (+43,1%), mentre la Francia è andata molto bene sui beni di consumo durevoli (+56,5%). L’Italia comunque è andata mediamente bene anche nell’export di beni intermedi, ossia di beni legati ai processi produttivi. Un segnale di quanto il nostro paese sia inserito nella catene globali del valore.

L’ottimo risultato del nostro export di beni non durevoli è la chiara cartina tornasole del nostro sistema produttivo, che, nota Istat “è evoluto in misura moderata nell’ultimo decennio, con una perdita relativa di peso di alcune industrie tradizionali del Made in Italy, ricomprese nelle filiere del vestire (tessile, abbigliamento, calzature e pelletteria), dell’abitare (mobili, ceramica tra i prodotti della lavorazione dei minerali non metalliferi, rubinetterie), e di settori a medio-alta tecnologia già caratterizzati da un ridotto livello di specializzazione”. Al contempo però “sono cresciute notevolmente la filiera dell’agroindustria e quella della chimica e farmaceutica”.

Negli anni considerati si è osservato però che la perdita del peso specifico delle industrie tradizionali, che assorbono buona parte della specializzazione settoriale italiana, si è associata con una diminuzione relativa dei valori unitari, che si è verificata per l’export di strumenti di precisione, macchine elettriche e mezzi di trasporto. In sostanza “tra il 2010 e il 2017 si è dunque ridotto il grado di specializzazione dell’export nei settori nei quali il nostro paese ha un vantaggio comparato rispetto all’area euro”.

A questo elemento di fragilità se ne aggiunge un’altro che dipende dalla fisionomia del nostro sistema produttivo. “Nonostante la dinamica delle esportazioni Italiane sia stata, nel periodo osservato, sostanzialmente analoga a quella tedesca, essa è stata generata dalle vendite di un elevato numero di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni”. L’Italia è un caso speciale fra le economie europee. Si distingue per l’elevato numero di aziende esportatrici (oltre 195 mila nel 2016), secondo solo a quello tedesco, che producono il 45% del valore aggiunto del sistema produttivo. Abbiamo insomma tanti produttori che producono poco intensamente. I primi cinque esportatori italiani generano il 7,5% dell’export complessivo, a fronte del 28% tedesco. Siamo il paese delle piccole e medie imprese, innanzitutto. Se consideriamo le prime dieci esportatrici italiane, non arriviamo comunque a superare il 10% del valore dell’export complessivo a fronte di oltre il doppio di Francia e Germania.

Questa fisionomia ci conduce all’ultima parte della nostra analisi, ossia il posizionamento dell’Italia nelle catene globale di valore. Un indicatore importante che ci consente di avere un indizio circa la nostra capacità di essere integrati nell’economia globale, che è un bene quando le cose vanno bene e viceversa quando vanno male.

Per evitare inutili complicazioni tecniche basterà qui riportare le conclusioni alle quali arriva Istat, secondo le quali “il grado di partecipazione dell’economia italiana alle GVC è nel complesso piuttosto elevato”. Siamo quindi un’economia internazionalizzata ma a vocazione manifatturiera, dove il valore aggiunto è più basso rispetto ai servizi. Abbiamo quindi delle fragilità strutturali, che dipendono dalla tipologia delle nostre produzioni e dalla fisionomia del nostro settore produttivo popolato da una miriade di piccoli produttori. Dobbiamo sperare che il commercio globale marci sempre a ritmo serrato per “trainarci” dall’interno. Nel frattempo dovremmo favorire la crescita dimensionale dei nostri soggetti imprenditoriali e investire sulla conoscenza per sviluppare l’economia dei servizi che ha un valore aggiunto maggiore. Vaste programme. Specie quando non se ne parla affatto.

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