La contraddizione finanziaria nel cuore della globalizzazione
Una globalizzazione si fonda su alcune caratteristiche che sono sostanziale espressione di un ordine politico. A quelle del nostro tempo appartengono, ad esempio, la lingua inglese e il dollaro, che accompagnano (e denominano) i beni che viaggiano lungo le rotte commerciali – in gran parte marinare – e i servizi che vengono scambiati, sempre più, questi ultimi, lungo rotte digitali. Questi strumenti – perché di strumenti si tratta, per loro natura devono (dovrebbero) favorire i processi di integrazione che la globalizzazione incrementa col suo procedere. Ma cosa succede se invece così non fosse? Se, vale a dire, uno degli strumenti dell’internazionalizzazione si rivelasse potenzialmente capace di danneggiarla?
La domanda è ciò che rimane dopo la lettura di un bel paper di Valentina Bruno e Hyun Song Shi della Bis di Basilea dal titolo assai indicativo: “Dollar exchange rate as a credit supply factor-Evidence from firm-level exports“. Indagine molto interessante, perché condotta a livello micro, ossia laddove i fatti concreti prevalgono sulle congetture, osservando 4,6 milioni di spedizioni di prodotti lungo il mondo suddivisi in diverse categorie.
I risultati dell’osservazione sono molto interessanti. In particolare emerge che “un ampio apprezzamento del dollaro rallenta il commercio internazionale incidendo sulle catene globali del valore, che funzionano ad alta intensità di credito”. Una conclusione che fa a pugni con la convinzione assai diffusa – tipicamente di natura macro – che ci sia un collegamento automatico fra i tassi di cambio e l’andamento delle esportazioni “attraverso il canale della competitività commerciale”.
Secondo questa congettura “un forte dollaro Usa aumenta le esportazioni delle economie non statunitensi” visto che i consumatori Usa avrebbero un maggior poter d’acquisto comparato. E invece “paradossalmente, un dollaro forte può effettivamente servire a smorzare i volumi commerciali, anziché stimolarli”. Una conclusione visibile dal grafico sotto.
Non si tratta, ovviamente, di sostituire una congettura con un’altra. Ma semplicemente di un’occasione per sbirciare più a fondo nei meccanismi che governano la nostra globalizzazione che, come in questo caso, possono risultare sorprendenti e quindi meritevoli di approfondimento.
L’origine di questa singolarità è di tipo finanziario. L’apprezzamento del dollaro, che di solito si associa a una restrizione della disponibilità di credito, genera problemi alle imprese che attingono al sistema bancario per finanziare le loro esportazioni. A seguito di un apprezzamento del dollaro, infatti, le banche che si finanziano all’ingrosso acquistando valuta americana riducono l’offerta di credito assai più di quelle che ne fanno meno uso. A loro volta, le imprese che attingono alle banche del primo tipo per le proprie esigenze di finanziamento subiscono una calo delle esportazioni. Vengono inoltre penalizzate le imprese che “hanno esigenze di capitale circolante più elevate e fanno parte di catene produttive più lunghe”.
Questi in estrema sintesi gli esiti dell’indagine svolta dai due economisti che ha il pregio di condurci all’interno dei micro accadimenti che finiscono col determinare i macro eventi. La nostra globalizzazione, fra le sue varie caratteristiche, ha anche quella di essere articolata lungo catene del valore sempre più lunghe e complesse, che per questa ragione dipendono sostanzialmente dalla loro connotazione finanziaria. E poiché il dollaro denomina gran parte degli scambi internazionali, ossia gli anelli di queste lunga catena del valore, ecco che improvvisamente gli andamenti della valuta diventano non solo una caratteristica di questa globalizzazione, ma anche un determinante del suo andamento.
Chi conosce la storia non si stupirà. E basta ricordare cosa fu del commercio internazionale dopo la fine del sistema di Bretton Woods. Ma senza bisogno di andare troppo lontano, è sufficiente rileggere, alla luce delle conclusioni del paper, le intemerate di Trump sul commercio estero. Gli Usa – e quindi la “loro” globalizzazione – rischiano di essere vittima del loro stesso successo.