Lo shale oil Usa è qui per durare, anche dopo il picco
Una recente analisi pubblicata da S&P Global/Platts ci ricorda una circostanza che è utile sottolineare in un momento in cui le fibrillazioni sul mercato petrolifero, indotte dal raffreddarsi della domanda cinese, tornano ad orientare i prezzi al ribasso. Il fatto, vale a dire, che il panorama dell’offerta di petrolio è cambiato per sempre, o per lo meno per il lungo periodo, da quando gli Stati Uniti sono diventati, grazie alla tecnologia shale, dei grandi produttori. Ciò significa che non solo aggiungono una quantità significativa di produzione all’offerta globale, ma che, nelle previsioni Eia, ne offriranno quantità crescenti almeno per il prossimo decennio.
Il punto si può osservare agevolmente nel grafico sotto, che illustra come, pure dopo il raggiungimento del picco di produzione, previsto fra un decennio, il declino dell’offerta Usa tornerà ai livelli attuali, quindi oltre i 12 milioni di barili al giorno, entro il 2050.
Molta di questa nuova produzione arriverà dall’Alaska. Altre produzioni sono il frutto delle esplorazioni condotte quando il greggio stava a 100 dollari il barile e sono state sviluppate in conseguenza.
Il calo successivo delle quotazioni non ha impedito che queste produzioni proseguissero le attività. Tanto è vero che l’Eia prevede che già fra due anni la produzione Usa raggiungerà i 14 milioni di barili: un incremento di 7,6 milioni rispetto solo a dieci anni fa. Un decennio durante il quale si è consumata la rivoluzione shale degli Usa. E questo spiega perché faccia così paura al mercato il freddarsi della domanda cinese. Rischia di annegare nell’oro nero.
io rimango dell’opinione che lo shale sia solo l’ennesima bolla. I principali giacimenti sono già in depletion, e non ne possono trovare nuovi all’infinito. SIamo davvero al fondo del barile
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