La difficile riemersione cinese dal lockdown

Si fa presto a dire e ripetere che bisogna attrezzarsi per una fase 2, successiva alla chiusura imposta a buona parte del tessuto economico. Se guardiamo al caso cinese, come ha fatto di recente la Bofit, scopriamo che mentre è relativamente “semplice” far cessare i contagi imponendo le restrizioni, senza però che ciò serva a garantire che l’epidemia non riprenda perché la gran parte della popolazione non è ancora immune, è molto più complicato riportare la macchina economica a funzionare a pieno regime. Persino nelle economie fortemente pianificate come quella cinese.

La prima considerazione da farsi è che le misure di contenimento militari imposte dalla Cina hanno raggiunto lo scopo per le quali erano state disegnate: i contagi nella provincia colpita dall’epidemia si sono praticamente azzerati.

Questo risultato, ottenuto mentre il resto del mondo iniziava a sperimentare il disastro sociale del contagio, ha consentito alle autorità cinesi di iniziare a riaprire le fabbriche, provando a far ripartire le attività economiche. Abbiamo già osservato come questo abbia impattato sull’attività portuale, fondamentale per le catene del valore che coinvolgono la Cina, e dal mese di marzo i progressi si sono osservati anche sulla filiera produttiva, che lentamente si è risvegliata.

“Mentre gli indici dei responsabili degli acquisti di marzo mostrano solo una ripresa silenziosa della produzione, – scrivono gli analisti – gli indicatori ad alta frequenza come i flussi di viaggio e i dati sulla congestione del traffico indicano che l’attività economica sta rapidamente aumentando, anche se in modo non uniforme, in molte città cinesi. Mentre negozi, ristoranti e scuole hanno riaperto anche nelle regioni più colpite, c’è ancora molta strada da fare per raggiungere la piena normalizzazione”.

La ragione è evidente. A parte il fatto che serve un tempo fisiologico per riportare il volume delle attività alla fase pre crisi, la Cina deve fare i conti con lo shock che arriva dall’esterno, quindi con il calo di domanda degli altri paesi colpiti dalla pandemia. A ciò si aggiungano i danni provocati al tessuto produttivo interno dai due mesi o poco più di chiusura forzata delle attività. Il governo sta provando a porre rimedio, ma la sensazione degli osservatori è che l’attenzione dei policymaker sia concentrata ancora sulla necessità del contenimento, piuttosto che su quelle della ripresa economica. E se questo accade in Cina, figurarsi nel resto del mondo.

La banca centrale ha adottato una serie di misure per allentare la pressione finanziaria, liberando liquidità e diminuendone il costo, ben consapevole che “la salute del sistema bancario fosse un problema già prima dell’epidemia”. Ne abbiamo parlato a lungo, quindi inutile soffermarci. Mentre il governo deve fare i conti con una situazione fiscale complicata che in qualche modo sottrae spazio alle politiche espansive. “Ulteriori stimoli fiscali necessari per gestire la ricaduta della crisi potrebbero probabilmente esacerbare le importanti questioni strutturali legate all’economia cinese”, sottolineano gli economisti.

Ciò per dire che il paese si trova davanti a uno scenario complicato capace di questionare il modello di sviluppo seguito finora. Le compagnie legate al governo hanno potuto in qualche modo avere una corsia preferenziale nell’assegnazione delle risorse. Sarà possibile seguire questa strada anche adesso che la coperta andrà accorciandosi notevolmente? “I vasti disavanzi pubblici della Cina anche prima della crisi suggeriscono che il modello non funzionava come previsto. La gestione simultanea di queste crescenti tensioni e nuove serie di pandemie rappresentano sfide significative per la leadership cinese”, conclude la ricerca. E questa conclusione non vale solo per i cinesi. Faremmo bene a ricordarcelo.

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