La globalizzazione della guerra
Sono bastati un pugno di giorni perché il nuovo virus, quello della guerra, per il quale non esiste vaccino che non sia la pace, contagiasse tutti, in tutto il mondo. Se paragoniamo i tempi di contagio fra la guerra e la pandemia, rimaniamo stupefatti: la nostra reazione al Covid sembra lenta, persino tardiva, rispetto a quella che stiamo osservando in queste ore, nella quali risuonano parole che sembravano per sempre consegnate alla storia. Una per tutte: allarme nucleare.
Chi è cresciuto negli anni ’70 ricorderà l’ossessione pervasiva della bomba sovietica. Era dovunque: nei discorsi, nei film, nei fumetti e quindi negli incubi. E chi era bambino allora oggi si ritrova incanutito a temere la stessa cosa, come in un infinito déjà vu. Perché in fondo la guerra stessa è un déjà vu: l’Europa pensava di essersela lasciata alle spalle, mentre invece sonnecchiava appena addormentata.
Siamo in guerra perciò, tutti. E chi ne dubitasse dovrebbe ricordare che in poche ore sono stati chiusi gli spazi aerei ai russi, che ancora una qualche forma di pudore ci impedisce di chiamare nemici, forse perché non sono i russi i nostri nemici, ma coloro che hanno risvegliato la guerra per far valere le proprie ragioni. Quelli che propagandano un ideale di società dove ancora la guerra ha diritto di cittadinanza e dove la cifra del potere è quella dell’oppressione.
Siamo in guerra perché stiamo muovendo le armi, mentre approviamo sanzioni che devasteranno l’economia di un intero paese senza curarci delle conseguenze che avranno anche per noi. Perché ne avranno. Siamo in guerra perché abbiamo accettato l’idea di pagare ogni prezzo per vincere questa guerra, che per noi rappresenta nientemeno che il diritto di abitare il mondo secondo le nostre regole, quelle che ci siamo dati.
Soprattutto, siamo in guerra perché siamo infuriati. Questa furia si è accesa d’improvviso e ha cominciato ad infuriare, diffondendosi come un’infezione nello spazio di un telegiornale. A dimostrazione del fatto che ci ammaliamo molto più facilmente col pensiero che col corpo. E questo spiega perché, nei lunghi secoli della nostra storia, tutti i poteri costituiti hanno prestato così tanta attenzione alle idee. I pensieri sono merce volatile e terribilmente esplosiva.
Occorre perciò fermarsi un attimo e provare a osservare questo nuovo contagio globale mentre accade. Non per aggiungere combustibile all’incendio, che già sta divampando benissimo da solo. Ma per i nostri pensieri di domani, quando saremo guariti da quest’altra malattia. Quando le ferite che stiamo infliggendo a noi stessi, mentre combattiamo una guerra che siamo costretti a combattere, saranno sanate. Quando torneremo a guardare con riprovazione alle parole che oggi dobbiamo pronunciare, perché se non lo facessimo defezioneremmo nel momento più importante della nostra storia recente. Quando dobbiamo combattere per ciò che giusto, pure se ogni guerra è una sconfitta di ciò che è giusto.
Insieme possiamo anche lasciare una testimonianza a chi scriverà la storia di questi giorni. Quello che abbiamo visto, in queste poche ore, conferma quello che tanti hanno teorizzato ma che ancora fatichiamo a comprendere: la storia è una cosa unica, come scriveva qualcuno. E’ un’onda che solo la nostra attitudine alla semplificazione può pensare di trasformare in un’insieme di causazioni fra le diverse modalità del nostro vivere sociale. Politica, economia, cultura: tutto si manifesta contemporaneamente in un respiro sinestetico della nostra mente. In poche ore l’onda della storia, nella sua straordinaria complessità, si è abbattuta su di noi cambiando radicalmente il paesaggio. Chi domani scriverà questa storia farà bene a ricordarlo, anziché limitarsi ad osservare i frammenti della risacca e a catalogarli nelle sue teche intellettuali.
Infine, questa ennesima dimostrazione di quanto sia profonda la globalizzazione che ci avvolge tutti dovrebbe renderci chiaro quanto il destino di ognuno di noi riguardi l’altro, e viceversa. Non c’è nessuno oggi che non sia spaventato, incerto, infuriato. Non c’è nessuno, oggi, che non sia in guerra. Proprio come non c’era nessuno, ieri (ma ancora oggi) che possa sfuggire alla pandemia.
Questa circostanza dovrebbe convincerci una volta per tutte, e in barba a quelli che predicano il contrario e innalzano muri, che siamo tutti nella stessa barca. E dovrebbe essere un ottimo viatico per le nostre future convivenze, se riuscissimo a trasformare questa consapevolezza in un’assunzione di responsabilità.
Domani, però. Perché oggi c’è la guerra.
Gent. Dott. Sgroi,
Il pensiero e poi la parola sono i soli mezzi che abbiamo per esprimere il nostro stato d’animo ed anche per condividere con gli altri le nostre idee su quello che ci circonda in questa fase della storia.
Una cosa appare certa, nessuno può rimanere neutrale di fronte ad un evento che ha turbato intimamente la nostra serenità insieme alla nostra sicurezza. Questa volta non si tratta di un virus, della cui causa poco si sa ma che, pur con tutte le varianti, può essere affrontato e combattuto senza per questo subire ritorsioni o minacce più gravi.
Occorre solidarizzare con la gran parte del popolo russo (no, non sto sbagliando !) , che certamente sta subendo come tutti noi, ma sempre meno degli Ukraini, una guerra inconcepibile, cercando al tempo stesso di far notare loro in tutti i modi possibili la differenza che c’è tra popoli e governi che liberamente chiedono di schierarsi con una certa parte e popoli che invece vengono costretti con le armi a schierarsi dall’altra parte. Occorre poi rendere chiari a tutti i forti dubbi sull’equilibrio psichico dell’artefice primo di questo disastro.
Preoccupati saluti.
Francesco Barone
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salve,
personalmente penso che il popolo russo sia un’altra vittima di questa tragedia scatenata da chi ha perso il senno e ci ha riportato indietro nella storia. Quindi concordo con lei sulla necessità di solidarizzare, specie con coloro che in questi giorni, in Russia, sono stati arrestati perché manifestavano contro questa atrocità.
C’è poco altro da aggiungere. Solo sperare che il buon senso prevalga, magari con l’aiuto della buona sorte. Una volta ci saremmo affidati a Dio. Oggi dobbiamo accontentarci di noi.
Grazie per il commento
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