La solitudine dei numeri ultimi

Di tanto in tanto i tormenti che promanano dalle nostre società, benestante e malvivente al tempo stesso, riescono ad emergere pure dalle pagine patinate della ricerca economica in una forma diversa dal solito, e quindi più squisitamente umana. Niente equazioni, solo parole, e per giunta molto chiare, come quelle scritte già sul titolo di un paper ospitato dalla Fed di Filadelfia, che prende spunto da un sondaggio svolto nel paese: “Un XXI secolo di solitudine? Tempo passato da soli e insieme negli Stati Uniti”.

Tema affascinante, ne converrete. Si parla di tempo, ossia la risorsa scarsa per eccellenza, che si trascorre da soli – quindi parliamo di tempo libero – o in compagnia. E si osservano le tendenze che si stanno sviluppando in questo primo scorcio di secolo, già funestato da pandemia e guerra, non bastando evidentemente la naturali inclinazioni già generate dal progresso. Che erano già ben orientate, assai prima che le disgrazie degli anni Venti fungessero da acceleratori.

Già dal 2003, infatti, gli americani “hanno sempre più trascorso il loro tempo libero da soli, a casa”, riducendo quello trascorso con individui di altre famiglie. Un atteggiamento che ricorda certe distopie che raccontavano di un’umanità rannicchiata nei suoi uteri artificiali, resi confortevoli dagli ammennicoli di cui ci ha dotato il progresso, privandoci però di tutto il resto. Il famoso contatto umano, per dire.

Ma c’è dell’altro di interessante da sapere. Questa tendenza a rinchiudersi fra le proprie quattro mura non è egualmente suddivisa all’interno della società americana. Il trend è più pronunciato per le persone di colore, specialmente maschi, meno istruiti e quindi collocati nei quintili più bassi della distribuzione del reddito. La solitudine pesa di più sugli ultimi, insomma. E vai a capire se si tratti di una scelta o di una necessità.

Quello che si può dire però è che la diseguaglianza ha tanti modi di esprimersi. Si conosceva quella di reddito e di ricchezza, di consumi e di opportunità. Ma quella che scaturisce dalle relazioni sociali, che ovviamente è in qualche modo interrelata con le altre, ancora è poco nota.

Leggere il paper ci aiuta a saperne qualcosa in più. I trend statunitensi spesso somigliano anche ai nostri. E nell’attesa che qualcuno sviluppi un’osservazione del genere anche da noi, vale la pena vedere cosa succeda laggiù.

Il primo dato che salta all’occhio è che fra il 2003 e il 2019, prima quindi della pandemia, la quantità di tempo passati da soli negli Usa è aumentata dal 43,5% del totale del tempo libero al 48,7%. Nel 2020, quindi in piena pandemia, questa quota è arrivata al 50,7%. Ovviamente, il tempo trascorso con altri fuori dal proprio nucleo familiare si è contratto: era il 21,9% nel 2003, è arrivato al 12,3% nel 2020. Prima del lockdown era il 17,3%, quindi il calo “naturale” osservato nei sedici anni prima della pandemia è stato comunque importante.

Interessante osservare che all’inizio del periodo le persone meno istruite erano mediamente più socievoli, anche se non di troppo, rispetto a quelle che hanno frequentato il college. Queste ultime passavano il 43,9% del loro tempo da sole, a fronte del 42,9% dei meno istruiti. Nel 2021 però la situazione si era rovesciata. I meno istruiti passavano il 4,7% del tempo in più da soli rispetto ai più istruiti. Una conseguenza della minore disponibilità economica? In un mondo dove l’unica causa delle scelte fosse il movente economico si potrebbe rispondere di sì. Ma dovremmo ormai avere imparato che la realtà è un filo più complessa. Però sarebbe poco saggio non mettere sul piatto il peso specifico della disponibilità di denaro. Socializzare, anche solo mangiare una pizza con qualcuno, costa.

Infatti si è osservato che il tempo da soli tende a crescere non solo fra i meno istruiti, ma anche fra la popolazione a basso reddito, e di etnia non bianca.

Il problema è che “la soddisfazione della vita è correlata negativamente con il tempo speso da solo”. Per dirla meglio: a nessuno fa piacere passare il tempo chiuso nel proprio guscio. Rimaniamo animali sociali, anche ai tempi di socialità mediata dalla rete. E questo spiega perché “la felicità di un’attività svolta durante il tempo libero è molto più bassa rispetto a quella che si vive condividendola con altri”.

Bella scoperta. Ma siamo sicuri che lo sia? La scoperta semmai è che queste riflessioni, che una volta sarebbero rimaste confinate nell’educazione morale, oggi campeggino sulle pagine di una ricerca di una banca centrale.

D’altronde perché stupirsi? Il diritto alla felicità ormai è iscritto nel nostro dna sociale. Il pensiero economico, che ha coniato l’idea di benessere, ne prende atto. La banca centrale pure.

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