La Fed alla ricerca di un “atterraggio morbido”
Non è certo un caso che il governatore della Fed Jerome Powell abbia ricordato di recente che fra il 1983-84 e il 1994-95 la Fed sia riuscita a fare atterrare senza troppi danni l’economia americana, alle prese con una delle sue consuete turbolenze che avevano indotto la banca centrale a effettuare una politica di restrizione monetaria. E non è neanche un caso che questa dichiarazione sia ricordata in un’analisi pubblicata dalla Fed di S. Louis, dedicata proprio all’ultima “campagna” di restrizioni monetaria annunciata dalla Fed, che dovrebbe portare i tassi obbiettivo (federal funds target rate, FFTR) al 2,8% entro fine 2023, dopo un lungo periodo in cui sono rimasti fermi intorno a zero.
Tutto si tiene, ovviamente. L’inflazione innanzitutto, ma anche una certa crescente consapevolezza circa l’insostenibilità di lungo termine di una politica monetaria che sembra contraddire ogni logica economica – la scomparsa dei rendimenti porta con sé diverse, profonde conseguenze sociali – hanno indotto la banca centrale americana a rompere gli indugi e fare quello che ha già fatto molte volte in passato. Almeno sette, con quest’ultima, secondo il conteggio fatto dalla Fed, negli ultimi quarant’anni, durante i quali si è passati dalla grande inflazione dei Settanta, alla Grande Moderazione dei Novanta, cui è seguita la strisciante deflazione degli anni Dieci del XXI secolo, rumorosamente archiviata negli anni Venti.
In questo turbinare, la Fed ha agito aumentando in media i tassi obiettivo di circa 300 punti, con picchi più o meno elevati, ossia in linea con quanto ha promesso di fare adesso. E il problema, ogni volta, è stato quello di dover fare i conti con la reazione dell’economia. Tirare il freno monetario senza generare testa-coda, insomma. O fare atterraggi morbidi, come ha detto Powell. La tabella sotto è un ottimo promemoria che ci consente anche di provare ad immaginare cosa succederà questa volta.

La variabile da sempre osservata (e temuta) per la sua capacità di essere in qualche modo associata a una recessione è la famosa “inversione dei rendimenti”, ossia la circostanza che i titoli a breve costino più cari di quelli a lungo. Nel 1983 e nel 1994 questo evento, giudicato funesto, non si è verificato, e questo spiega perché Powell parli di “atterraggi ben riusciti”. Ma domani: chi può dirlo?
Al momento, sottolinea la Fed, ci sono poche prove in tal senso. Al 12 aprile lo spread fra i titoli del Tesoro Usa decennali e quelli trimestrali era di 198 punti base, in aumento di 23 punti rispetto al 16 marzo e ben 25 punti base sopra la media di lungo periodo di 173 punti base osservata da gennaio 1983. Ma oggi, a differenza di ieri, siamo alle prese con un movimento inflazionistico che ha sorpreso gli osservatori sia per la rapidità che per la profondità delle ragioni che lo hanno espresso e che sono ancora in corso di svolgimento. A cominciare da guerra e pandemia, per finire con una enorme quantità di liquidità annidata nei bilanci delle banche centrali.
Le ragioni di ottimismo, insomma, non mancano. Ma anche quelle per rimanere vigili. E toccare ferro.