La deglobalizzazione ci immiserisce, non la globalizzazione

Bisogna ripetere l’ovvio, che la storia conferma in ogni sua pagina: la globalizzazione ci arricchisce, sotto ogni punto di vista. E se anche ci limitassimo al dato economico, il suo contrario, ossia la frantumazione commerciale “sarebbe notevolmente costosa, in termini di distorsioni consistenti degli scambi, diminuzione del benessere sociale e aumento dei prezzi”. Parola della Bce, che al tema ha dedicato una interessante simulazione nel suo ultimo bollettino.

Nel modello, che ipotizza una sorta di nuova cortina di ferro fra blocchi, che impedisce notevolmente lo scambio di beni intermedi e ostacola i flussi commerciali, le conclusioni lasciano poco spazio all’ottimismo. Chi auspica la deglobalizzazione, pensando così di tornare al piccolo mondo antico di una volta – che peraltro non si capisce bene in quale epoca storica si trovi – sta semplicemente dicendo che vuole prezzi più alti e meno ricchezza diffusa. Per tutti. La deglobalizzazione non troverebbe vincitori e vinti, solo perdenti.

Ovviamente non si tratta di prendere per buone le stime degli economisti, che sono semplici congetture, come è opportunamente segnalato. Ma capire le tendenze che le esprimono. L’idea di chiudersi in recinti è di per sé involutiva, e non dovrebbero servirci gli economisti per capirlo. L’uomo è andato avanti nella storia perché ha deciso di passare alla posizione eretta, con tutti i terribili rischi che ciò deve aver comportato per i nostri progenitori – ce li ricordano vagamente i bambini che imparano a camminare – che però in cambio ne hanno avuto l’intuizione dello spazio, che da lì a quale millennio avrebbe portato con sé quella squisitamente economica, del tempo.

Se torniamo alla nostra simulazione, c’è un altro elemento che vale la pena mettere in rilievo. Anzi, due: l’impatto sui prezzi e sui salari. Si accusa la globalizzazione di avere impoverito le grandi masse a privilegio di pochi, di aver amplificato le diseguaglianze. E si possono portare molti elementi di fatto a conferma di questa convinzione. L’analisi svolta dagli economisti della Bce ci dice altro. Ad esempio che uno degli effetti della frantumazione commerciale è la crescita dei prezzi, guidata dalla carenza di beni intermedi che, dovendo essere riallocati nei “recinti” territoriali creano uno shock di di offerta.

E prezzi più alti, lo stiamo vedendo proprio in questi mesi, pesano innanzitutto sulle persone più fragili. Non esattamente un buon affare.

La seconda evidenza è ancora più interessante. L’aumentata domanda di beni intermedi, quindi a basso valore aggiunto, avrebbe un impatto positivo sulla domanda di lavoro poco qualificato, il cui prezzo, perciò, aumenterebbe. Ciò significa che – sogno proibito di molta politica – i lavoratori meno qualificati vedrebbero aumentare le retribuzioni relativamente di più di quelli più qualificati. Questo nei paesi avanzati: in Asia accadrebbe il contrario.

Anche qui, non si tratta di credere a queste previsioni, che sono ovviamente incerte. Si tratta di chiedersi se davvero vogliamo abitare in un mondo dove i prezzi sono più alti e si premia la poca qualificazione, che significa un capitale umano meno attrattivo e quindi un potenziale immaginativo più basso. La deglobalizzazione, in fondo, chiudendo le frontiere chiude anche la nostra immaginazione.

A qualcuno questa prospettiva potrà piacere. Ma si rassegni. Ci hanno provato in tanti, ma non c’è mai riuscito nessuno. Abbiamo sempre aumentato le connessioni. Per dirla diversamente, saremo globali o non saremo. Semmai dobbiamo capire come farlo meglio.

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  1. Enea Bontempi

    Anch’io penso che la formazione del mercato mondiale sia un ‘terminus ad quem’ da cui non è possibile retrocedere. Se però le spinte al protezionismo, che si sviluppano dappertutto con sempre maggior virulenza, dovessero sfociare in un ‘friendshoring’ generalizzato, il pericolo di una crisi tipo anni ´30 diventerebbe una possibilità concreta. Anche perché il meccanismo delle ritorsioni a catena sarebbe micidiale.
    Dal mio angolo di osservazione, poiché sono convinto che siano i rapporti di forza fra le classi a determinare gli assi della politica economica nelle varie fasi dell´ultimo secolo, ritengo ovviamente che solo se cambiano questi rapporti si possa pensare ad una politica che non abbia nel mirino sempre e solo le retribuzioni, i diritti di chi lavora, il welfare state. Fra l´altro, detto di passata, solo rapporti di forza diversi dagli attuali possono indurre i circoli dirigenti dei vari paesi a mettere all´ordine del giorno interessi universali (intendo quelli legati alle questioni ambientali ma non solo) dei quali la ricerca del massimo profitto, per definizione, non può farsi carico. Un’altra domanda cruciale alla quale bisogna rispondere è se sia vero, come viene detto da più parti, che il liberismo, inteso come strumento di gestione dell´economia, sia in crisi. Io non credo che sia in crisi, nel senso che il liberismo con i suoi attacchi continui alle condizioni di lavoro, alle condizioni di vita, al welfare state, in altre parole con i suoi attacchi continui alla classe operaia, resta uno strumento insostituibile della borghesia. Quella che è in crisi, caso mai, è la possibilità di un liberismo temperato, la politica dei due tempi, insomma la “terza via”.
    Per questo le proposte keynesiane hanno, a mio avviso, scarse possibilità non solo di essere attuate ma anche di essere discusse. In realtà, solo un radicale mutamento dei rapporti di forza e, quindi, un ribaltamento radicale del sistema socio-economico esistente potrebbe imporre, oggi, un liberismo temperato.

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    • Maurizio Sgroi

      Salve,
      Io invece credo che siamo agli albori di un nuovo modo di concepire il nostro modo di stare insieme. Il modo marxista, basato sulla contrapposizione dinamica degli opposti, la dialettica insomma, è inevoluto. La nuova evoluzione sarà quella dal pensiero dialettico a quello cooperativo. Non io contro l’altro, ma io e l’altro fino alla comprensione che io sono l’altro.
      Prima che mi accusi di utopismo premetto che la mia non è un’utopia. Ma il tentativo di una eutopia.
      Grazie per il commento.

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  2. Enea Bontempi

    La storia della società umana è parte della storia naturale. Ciò significa, tra l’altro, che il carattere sociale è intrinseco al tipo di animali che noi siamo. La cooperazione sociale è quindi necessaria per la nostra sopravvivenza materiale, ma è anche un elemento costitutivo della nostra realizzazione come specie. Pertanto, nello stesso modo in cui la natura è in un certo senso una categoria sociale, anche la società è una categoria naturale. Marx ed Engels credevano in quella che essi chiamavano “umanizzazione della natura”; tuttavia, a loro avviso, la natura rimarrà sempre, in qualche modo e in qualche misura, indomabile da parte dell’umanità, anche se la sua resistenza nei confronti dei nostri bisogni e la sua avversità nei confronti della vita umana (terremoti, maremoti, mutamenti climatici, malattie) può essere ridotta. È il capitalismo che concepisce la produzione come potenzialmente infinita, salvo esagerare i limiti naturali posti allo sviluppo dell’uomo, come accade per motivi ideologici e sociali nella congiuntura attuale della crisi multipla (economica, pandemica, energetica e ambientale) con il rilancio neomalthusiano e protezionista. Per converso il socialismo concepisce l’espansione quantitativa e qualitativa della produzione, come Marx scrive nel primo libro del “Capitale”, «con una forma appropriata al pieno sviluppo del genere umano», fermo restando che è proprio Marx a considerare come un limite della società borghese moderna il fatto che in essa «la produzione appaia come il fine dell’uomo e la ricchezza come il fine della produzione».
    In conclusione, il riconoscimento dei limiti naturali non è incompatibile con l’emancipazione sociopolitica, ma solo con le versioni (eu-)utopistiche di essa, e il mondo ha le risorse necessarie, non perché tutti possano vivere sempre meglio (“sogno americano” individualistico-elitario), ma per poter vivere tutti bene (prospettiva egualitario-solidaristica del socialismo/comunismo).

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    • Maurizio Sgroi

      Il punto da sottolineare e da chiarire, secondo me, è proprio la differenza fra poter tutti vivere meglio e vivere tutti bene. Penso di aver compreso a cosa si riferisce. In sostanza lei non crede che possiamo migliorare tutti insieme, ma che possiamo, tutto insieme trovare una coabitazione equilibrata. È un pensiero giusto. Ma entropico. La storia peraltro ci dice che è successo altro: ossia che stiamo tutti, è sempre di più, meglio, almeno sul versante economico. Perché questo abbia generato un atteggiamento entropico è un tema di grande interesse. L’entropia è più o meno coeva della stato stazionario al quale lei sembra alludere. Io ci vedo solo una grande stanchezza dell’immaginazione. Ma magari ho torto.
      Grazie per il commento

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  3. Enea Bontempi

    La ringrazio per il Suo commento al mio commento. La questione dell’entropia è, a livello fisico-cosmologico e storico-economico (ma non solo), fondamentale. Terrò, comunque, ben presenti sia le distinzioni concettuali sia il suggerimento che Lei prospetta e, armato del pensiero di Engels (che non era certamente ‘entropico’), rifletterò sul significato di quella tendenza del “marxismo ecologico” che fa riferimento al paradigma dell’entropia…

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