La prevedibile metamorfosi del mercato del lavoro

Andiamo verso il 2024 ormai, e tuttavia si legge ancora nelle analisi degli osservatori internazionale degli effetti più o meno presunti che la pandemia ha svolto sulla nostra economia, e in particolare sul mercato del lavoro, che ancora risulta molto “tirato” specie nelle economia avanzate.

Gli ultimi a parlare (fra gli altri) di effetto pandemia sono gli economisti della Bis di Basilea, che al “mistero” dei mercati del lavoro globale hanno dedicato un approfondimento allo scopo di giungere almeno ad alcuni punti fermi.

E il primo, di questi punti, è appunto la circostanza che i mercati sono ancora “tirati”, ossia che c’è un profondo squilibrio, misurato in posti di lavoro vacanti o dai tassi di disoccupazione, fra la domanda di lavoro delle imprese e l’offerta di lavoro delle persone. E questo squilibrio (grafico sopra al centro) è maggiormente visibile nelle economie avanzate dove non a caso sono nate autentiche leggende metropolitane come quella della great resignation.

La pandemia perciò, certamente. Come se la gente, scampato il pericolo, avesse riscoperto le gioie della famiglia o di chissà cos’altro decidendo di lesinare il proprio contributo al sistema produttivo. Il che è certamente suggestivo, ma assai poco informativo.

Rimane il fatto: i mercati sono tesi. Perché? Una risposta certamente più convincente i nostri osservatori la ricavano mettendo insieme gli andamenti molto contrastanti fra domanda e offerta che la pandemia ha sicuramente esasperato. Sul lato della domanda, la riapertura delle produzioni dopo il blocco forzato ha strappato al rialzo la curva, mentre sul lato dell’offerta la risposta è stata assai più moderata. E non solo perché come sembra credere qualcuno siano cambiate le priorità della vita – cosa che sicuramente sarà accaduta a molti ma non a tutti – ma perché si inizia a misurare con mano (ossia con le statistiche) la “crescita contenuta della popolazione in età lavorativa”, che sicuramente contribuisce ai “cambiamenti nella partecipazione alla forza lavoro”. Ad esempio, sembra che le preferenze dei lavoratori si siano spostate verso impieghi che richiedano meno tempo di lavoro.

Sul versante della domanda delle imprese, si ipotizza che la scarsità percepita dell’offerta abbia incoraggiato le azienda a ricercare più lavoratori del solito, amplificando quindi le tensioni sui mercati, con relativi effetti sui costi unitari del lavoro, che poi sono l’osservato speciale in quest’epoca di inflazione. Peraltro si è osservato che “l’eccesso di domanda di lavoro si è concentrata nei settori evitati dai lavoratori durante la pandemia”.

L’insieme di questi fattori prova a spiegare l’apparente paradosso che si osserva fra mercati del lavoro tesi e livelli di produzione assai meno entusiasmanti, peraltro gravati da aspettative inflazionistiche ancora poco rassicuranti, anche se gli ultimi dati lasciano credere che, almeno a scenari invariati, il peggio sia alle nostre spalle. Che non vuol dire sia terminato: basta che entrino dei tanti colli di bottiglia della nostra globalizzazione: adesso lo vediamo succedere nel Mar Rosso, ad esempio. In ogni caso, “la forza e la persistenza dei cambiamenti nell’offerta e nella domanda di lavoro sarà un’importante determinante delle dinamiche di inflazione”, conclude la Bis.

Ciò che quindi dobbiamo chiederci è se questo “strappo” del mercato del lavoro sia o no destinato a ricucirsi, ben sapendo che l’invecchiamento della popolazione, che porta con sé la diminuzione della forza lavoro, graverà sempre più sull’offerta di lavoro. Se non facciamo figli e non apriamo i mercati, siamo destinati ad avere sempre meno lavoratori. E poiché non è immaginabile che il progresso tecnico possa sostituire interamente queste carenze, avremo meno produzione, più inflazione. Tutto il resto è noia, come diceva il poeta.

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