Cartolina. Whatever it takes, reloaded

Se il nostro Mario Draghi verrà ricordato per il suo “Whatever it takes”, pronunciato nel momento peggiore della nostra crisi europea per rassicurare il mondo che la Bce avrebbe salvato l’euro, è assai probabile che sarà in buona compagnia. Tutti i banchieri centrali hanno promosso con notevole pervicacia la strategia di fornire denaro di banca centrale a un mondo sempre più a corto di fiducia, nella convinzione che l’uno avrebbe potuto sostituire l’altra. Una convinzione figlia del nostro tempo, che una certa meccanica finanziaria ha comunque ampiamente confermato quanto agli esiti, ma della quale adesso iniziamo a intravedere le conseguenze. Quel denaro non era gratis, anche se i tassi erano negativi. Aveva un costo differito. L’inflazione, che ha provocato una veloce ritirata delle banche centrali, è stata la prima avvisaglia. La seconda la vedremo adesso, quando si tratterà di convincere il mercato a ricomprare la montagna di debito del quale le banche centrali sono state generose (e volenterose) acquirenti e che adesso non comprano più. Anche stavolta bisognerà riuscire a qualunque costo. Con la differenza che stavolta lo pagheremo noi.

Un Commento

  1. Avatar di Eros Barone
    Eros Barone

    Da tempo un fantasma si aggira nel dibattito economico e politico internazionale. Si tratta del declino (assoluto o relativo) del dominio economico degli Usa a livello globale: tema che è, da più di un ventennio, al centro delle analisi condotte da vari autori di orientamento marxista; dilemma che è fedelmente rispecchiato, con diverse accentuazioni, nei titoli dei loro libri. Fra questi meritano di essere citati: M. Silvers, “Gli Stati Uniti tra dominio e declino”, Editori Riuniti, 1999; E. Todd, “Dopo l’impero”, Tropea, 2005; B. R. Barber, “L’impero della paura”, Einaudi, 2004; G. Palermo, “L’imperialismo Usa alla conquista dell’Europa”, L’Antidiplomatico, 2022. È interessante osservare che l’autore dell’ultimo, e più recente, libro fra quelli citati, nel delineare il profilo strettamente economico dell’attuale congiuntura critica, svolge alcune importanti considerazioni sul rapporto debito pubblico/Pil, sottolineando che tale rapporto è un fattore determinante rispetto alla valutazione della solidità di uno Stato e ponendo a confronto l’incidenza di tale fattore nei casi rispettivi della Russia e degli Stati che fanno parte dell’Unione monetaria europea (Ume). In tal senso, esaminando le sanzioni degli Usa e della maggioranza degli Stati europei contro la Russia e le efficaci risposte di quest’ultima all’offensiva sanzionatoria, egli scrive, sulla base dei dati tratti da questa fonte: Trading economics, Country list government debt to Gdp. https://tradingeconomics.com/country-list/government-debt-to-gdp), quanto segue (p. 56): «La Russia è solida: […] i dati di finanza pubblica sono assolutamente invidiabili. Il debito pubblico è pari al 17,7% del Pil, il nono più basso del mondo, contro il 90,0% dell’Ue, il 97,2% della zona euro, il 128% degli Usa, il 93,9% del Regno Unito» (e, aggiungiamo noi, il 140,3% dell’Italia, quinto paese con il debito pubblico più alto del mondo: dato fornito dal Fmi nell’anno in corso). Dopodiché l’autore in parola precisa, in modo quanto mai significativo, che «per anni il problema del debito pubblico è rimasto confinato ai Piigs [Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna], caratterizzati da un alto rapporto debito/Pil. Tuttavia, il rallentamento della crescita e i piani di rilancio, interamente a debito, lo trasformano ora in un problema generale» (p. 102). Non sorprende pertanto che, nella triangolazione tra organizzazioni internazionali, banche e Stati, attraverso cui si organizza e si esprime il capitale finanziario globale, la Fitch Ratings Agency non abbia fatto sconti al capitalismo egemone, declassando impietosamente il rating creditizio a lungo termine degli Stati Uniti.

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