Etichettato: bollettino bce febbraio 2015
L’eurocaduta sostanziale del saggio di profitto
Mi risuonano echi di lontane memorie ricardian-marxiste mentre leggo nell’ultimo bollettino della Bce della caduta del margine di profitto delle imprese non finanziarie nell’eurozona e mi viene voglia di appoggiarmi alle seduzioni della teoria della stagnazione secolare, ormai in gran voga fra gli addetti ai lavori, visto che non riesco a capire perché le imprese dovrebbero tornare a credere nel mercato se il mercato non crede più a loro, ossia ai loro prodotti.
Forse davvero dobbiamo rassegnarci a un’epoca in cui i tassi di crescita, gravati dagli andamenti demografici, saranno appena sufficienti a rendere i debiti sostenibili, e persino al prezzo di grandi costrizioni dei bilanci pubblici – leggi del welfare – e di quelli privati, atteso che gran parte della correzione dovrebbe indirizzarsi verso la produttività, nella quale come sappiamo gioca parte importante il livello dei salari.
Ma decido di rifuggire dalla tentazione di semplificare. In fondo non sono qui per lanciare slogan, ma per offrire, per quanto nelle mie capacità, spunti di riflessione, informazioni e analisi che traggo dalle astruse elaborazioni di quelli che ne sanno più di me.
Perciò mi rassegno e leggo tutta la manfrina prodotta dalla nostra Banca centrale per scoprire come “i margini di profitto delle società non finanziarie (SNF) siano drasticamente calati durante la recessione del 2008/2009 e si sono ridotti anche durante gli ultimi due anni”:
Vale la pena sottolineare che tale margine viene misurato in termini di profitti unitari lordi, calcolati osservando l’andamento di un indice che ha al numeratore il risultato lordo di gestione e al denominatore il valore aggiunto reale che misura in sostanza il prodotto.
Poiché la questione si fa tecnica, credo sia meglio fermarsi un attimo per approfondire.
In particolare la definizione di risultato lordo di gestione merita di essere illustrata per evitare fraintendimenti.
In contabilità nazionale, secondo le definizioni Istat aggiornate al vecchio Sec95, il reddito lordo di gestione “corrisponde al Pil, diminuito delle imposte indirette sulla produzione e sulle importazioni, al netto dei contributi alla produzione e dei redditi da lavoro dipendente versati dai datori di lavoro residenti. Comprende tutti gli altri redditi generati dal processo produttivo oltre gli ammortamenti”.
Provo a tradurre: il risultato lordo di gestione equivale a quella parte dell’utile del’impresa derivante dalla gestione caratteristica od operativa che dir si voglia, ossia alla differenza fra il valore della produzione e i costi.
In pratica tale indicatore misura il reddito espresso dall’impresa in quanto tale. E’ chiaro che all’aumentare dei costi il risultato lordo di gestione peggiora.
Se noi utilizziamo il rapporto fra risultato lordo di gestione delle imprese e il valore aggiunto reale della produzione di queste imprese otteniamo un indicatore che misura l’incidenza del reddito aziendale, chiamiamolo così per semplificare, sul prodotto nazionale. Se il risultato di gestione è 10 e il valore aggiunto della produzione industriale è 100, il mio margine di profitto, misurato come profitto unitario lordo, è del 10%. Più aumenta il numeratore, a denominatore fermo, più aumentano i margini di profitto e viceversa.
Quindi quando parliamo di caduta dei margini di profitto, così come la Bce l’ha definito, intendiamo l’andamento declinante di quest’indice.
Scusate la premessa, però almeno adesso sappiamo di cosa stiamo parlando.
Bene. Il grafico elaborato dalla Bce illustra che il margine del profitto, ossia l’incidenza dei profitti per unità di prodotto, ha subito una brusca caduta nel 2009, quando la decrescita arrivò a sfiorare il -5% a metà dell’anno rispetto all’anno precedente.
Poi il margine è tornato a salire, raggiungendo il suo picco all’inizio del 2011, quando ha ripreso a cadere. Alla fine del 2013, quando il grafico si chiude, il margine era a crescita sostanzialmente zero.
Secondo gli analisti della Bce, durante la caduta economica del 2008, la sofferenza del margine di profitto è da attribuirsi alla “reattività relativamente scarsa delle retribuzioni degli occupati. Di conseguenza, la quota dei profitti (sul valore aggiunto) è calata decisamente, portandosi su livelli inferiori alla sua media di più lungo periodo, dopo aver seguito una tendenza al rialzo prima della crisi”.
In effetti si vede con chiarezza che la quota del profitto lordo e netto delle imprese non finanziarie in percentuale del valore aggiunto cresceva fino al 2007, quando stava in media sopra il 40% (lordo) e il 25% (netto), per poi inabissarsi in quelli successivi. Tale calo, peraltro, non si è arrestato.
A fine 2013 tale quota lorda risulta più bassa del 1999 e quella netta ancora di più, ormai sotto il 20%.
“La flessione delle quote di profitto – commenta la Bce – potrebbe avere diverse cause. Da un lato, esse riflettono il fatto che, nel contesto di debolezza economica prevalente per gran parte del periodo dal 2008, gli aumenti dei costi dei servizi del lavoro e del capitale non hanno potuto essere trasmessi ai prezzi di vendita. Dall’altro lato, le quote dei profitti erano molto aumentate prima della crisi del 2008 e quindi risulta difficile confrontarne gli andamenti poiché non esiste un parametro affidabile del reale livello di lungo periodo di tali quote”.
Qualunque sia la ragione, che siano cresciuti i costi troppo adesso o che siano cresciuti troppo i profitti prima, rimane il fatto che ormai da più di quindici anni le imprese vedono decrescere sostanzialmente la propria quota di profitti.
Voi al posto loro cosa fareste?
Gli anziani gonfiano il mercato del lavoro europeo
M’inerpico sprovveduto lungo i pendii statistici elaborati dalla Bce nell’ultimo bollettino, dove un riquadro discorre degli andamenti recenti della partecipazione al mercato del lavoro nell’eurozona. E scopro con divertito stupore che “malgrado i periodi di severa recessione che hanno colpito lʼarea dellʼeuro negli ultimi anni, il tasso di partecipazione alla forza lavoro nellʼarea ha evidenziato andamenti (atipicamente) positivi”.
Quell'”atipicamente” mi attrae come una calamita e capisco, leggendo oltre, che come sempre quando si tratta di statistica è tutta una questione di definizioni.
Già, perché la Bce per calcolare il suo tasso di partecipazione fa riferimento alla popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni, quando di solito si usa la classe 15-64 anni per definire la popolazione attiva. E poiché la stessa Bce nota che “lʼaumento del tasso aggregato di partecipazione è stato trainato soprattutto dalla crescita della partecipazione dei gruppi di età più avanzata (55-74), mentre la partecipazione giovanile (15-24) è andata calando”, se ne può dedurre agevolmente che sono gli anziani a trainare l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro.
Che significa?
In pratica ciò evidenzia il crescente aumento del peso relativo dei fattori demografici sul mercato del lavoro rispetto ai fattori ciclici e strutturali.
Faccio un passo indietro.
Ricordo che il tasso di partecipazione misura la percentuale di coloro che sono occupati o cercano attivamente lavoro sul totale della forza lavoro, che, nel caso monitorato dalla Bce, dovremmo definire come il totale della popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni.
Ebbene, il tasso di partecipazione nell’euroarea ha seguito un trend ascendente dal 2000 al 2012, collocandosi intorno al 64% nel 2014.
Il fatto che ciò sia accaduto durante un periodo in cui la disoccupazione aumentava non deve stupire, visto che, come ho detto, la partecipazione misura il totale di coloro che lavorano e coloro che cercano lavoro. Quindi in questo senso l’aumento dei disoccupati può far crescere il tasso di partecipazione se costoro continuano attivamente a cercare lavoro.
Ciò non toglie che il tasso di partecipazione avrebbe potuto essere più alto, se non fosse aumentata la disoccupazione, visto che “i cambiamenti nella distribuzione della popolazione hanno esercitato pressioni al ribasso sulla partecipazione al mercato del lavoro. Ciò si deve alla crescita delle fasce di popolazione con i tassi di partecipazione più bassi (quelle di età compresa fra i 55 e i 74 anni) e alla concomitante riduzione delle fasce con i tassi di partecipazione più elevati (principalmente la popolazione di età adulta)”.
Osservando i grafici prodotti nel riquadro appare di tutta evidenza che rispetto al terzo trimestre 2007 è notevolmente diminuito il tasso di partecipazione dei 15-24enni, quello della classe 25.54 è sostanzialmente stabile, mentre è aumentato significativamente quello della classe 55-64enni e risulta in crescita anche quello dei 65-74enni. In pratica, lo coorti più anziane sono quelle che hanno visto aumentare il tasso di partecipazione. E leggo questa indicazione come un chiaro segno del destino che attende le popolazioni europee: lavorare fino a un’età sempre più avanzata.
L’analisi si fa ancora più interessante se il dato viene disaggregato nei quattro paesi principali che compongono l’area, ossia Germania, Italia, Francia e Spagna.
L’incremento più evidente del tasso di partecipazione si è registrato in Germania dove l’indice, fatto 100 il livello del 2008, è arrivato a sfiorare 105 nel 2014. Italia e Spagna convergono verso 101, mentre la Francia è di poco sopra 100, ossia lo stesso livello del 2008.
La performance della Germania, spiega la Bce, “è dipeso in gran parte da variazioni della partecipazione nelle diverse fasce
dʼetà, in particolare quella dei lavoratori più anziani, forse dovute allʼattuazione delle riforme Hartz e alla progressiva eliminazione
delle opzioni di pensionamento anticipato fra il 2006 e il 2010. Dal 2009 i tassi di partecipazione hanno altresì beneficiato di un
aumento dellʼimmigrazione netta verso la Germania”.
In Francia “il modesto aumento del tasso di partecipazione è principalmente attribuibile a un incremento di quello delle fasce
di età più avanzata (dovuto a un aumento dellʼetà pensionabile)”.
In Spagna “la crescita della partecipazione fino al 2012 è imputabile soprattutto a cambiamenti positivi nelle decisioni di partecipazione (principalmente fra le persone di età compresa fra i 40 e i 64 anni)”. C’è da dire che dal 2013 il tasso spagnolo è notevolmente diminuito “in parte per l’uscita dei lavoratori stranieri”.
In Italia, dopo la contrazione registrata a partire dal 2008 per l’aumento dei lavoratori scoraggiati, che hanno di conseguenza ingrossato la classe degli inattivi, ossia coloro che non studiano né lavorano, “a partire dal 2012 a partecipazione ha ripreso a salire, in parte per effetto della riforma pensionistica”.
Come si può notare le modifiche del welfare hanno impatti diretti sulla durata della vita lavorativa e, di conseguenza, sui tassi di partecipazione. Se vado in pensione pià tardi devo cercare lavoro anche a sessant’anni. E se ho una pensione bassa, o sussidi ridotti, pure a settanta.
Tutto ciò si intreccia con l’evoluzione demografica dell’eurozona, dove “la quota delle fasce di età più avanzata (caratterizzate da tassi di partecipazione inferiori) è destinata ad aumentare”.
Insomma, sempre più persone coi capelli bianchi, e sempre alla ricerca di un lavoro per sbarcare il lunario.
Così magari si sentono giovani.
