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Cartolina. L’imprevedibile

E’ interessante osservare che nel 1994 gli esperti, quindi si presume persone intelligenti, bene informate e dotate di mezzi, prevedevano che l’indice di fertilità dei paesi Ocse sarebbe rimasto stabilmente sopra il tasso di sostituzione, ossia il numero di figli necessario per mantenere l’equilibrio demografico fra nascite e morti. Ancora più interessante notare che ci credevano ancora nel 1996, e che hanno continuato a sbagliare previsioni per tutto il ventennio successivo. Non sono abbastanza intelligenti, bene informati o dotati di mezzi? Al contrario: sono sempre più intelligenti, bene informati e dotati di mezzi. Solo che non sono capaci di fare previsioni. Perché la vita è imprevedibile. Specie quando decide di non rinnovarsi.

Cartolina. Il petrolio emergente

Le previsioni dell’ultimo World energy outlook, relative alla domanda di energia per il trasporto, ci dicono una cosa tutto sommato banale: i paese avanzati, nel prossimo quarto di secolo, esprimeranno una domanda piatta, in parte crescente ma non preponderante alimentata da fonti alternative al petrolio, mentre quelli emergenti faranno esattamente il contrario. Quindi chiederanno sempre più energia e pure se crescerà il contributo delle fonti alternative, la domanda di petrolio rimarrà sostenuta e in crescita. Questo non è un semplice frutto della maggiore sensibilità ecologica dei paesi avanzati. Semmai della loro crescente denatalità. Il petrolio, in mancanza d’altro egualmente efficiente e a basso costo, si consuma dove nascono i bambini e l’economia cammina. Chi invecchia si muove meno. E l’economia si adegua.

L’import Usa dalla Cina torna al livello del 2001

Nel mondo che cerca di tornare indietro anziché provare ad andare avanti è sicuramente considerata una buona notizia che la quota di importazioni statunitensi dalla Cina sia ormai al 9%, lo stesso livello del 2001. Ossia prima che la Cina entrasse nel Wto e cominciasse la Grande Globalizzazione dei primi anni Dieci terminata con il crollo finanziario provocato dalla crisi subprime.

Il dato è contenuto in un bel paper pubblicato dal NBER che farà la gioia dei teorici del decoupling – il disaccoppiamento – fra Usa e Cina. Ma questo dato ci dice molto poco circa la possibile direzione futura degli Usa, che di questo risultato sono stati artefici molto volenterosi. “Gli Stati Uniti non si sono ancora disaccoppiati o deglobalizzati dal resto del mondo, nonostante abbiano ridotto i loro legami commerciali diretti con la Cina”, scrivono gli autori.

Inoltre, “i 20 principali partner commerciali degli Stati Uniti rappresentano ancora una quota simile delle importazioni totali degli Stati Uniti a luglio 2025, come prima della guerra commerciale del 2017”. In sostanza c’è stata una riorganizzazione, ma nessuna rivoluzione. La globalizzazione prosegue, ma per altre vie.

Questa “Grande riallocazione”, inizia nel 2018-2019 quando la prima amministrazione Trump introduce dazi unilaterali contro la Cina, alzando le tariffe medie di circa 20 punti percentuali. Nel 2020-2021 la pandemia di Covid-19 amplifica la percezione di vulnerabilità delle supply chain globali, alimentando discorsi su reshoring, nearshoring e friendshoring.

Tra il 2021 e il 2024 l’amministrazione Biden mantiene gran parte delle misure protezionistiche, consolidando il nuovo assetto. Infine, nell’aprile 2025, la seconda amministrazione Trump annuncia un nuovo pacchetto di dazi, accelerando ulteriormente il processo di decoupling. Il risultato è un progressivo spostamento delle importazioni USA dalla Cina verso altri partner, in particolare Vietnam, Messico, Taiwan e Corea del Sud, con un incremento di circa 2 punti percentuali. Questa riallocazione non ha comportato una riduzione complessiva delle importazioni Usa. Anzi: sono cresciute in media del 5,7% annuo tra il 2017 e il 2024. Si tratta quindi di una diversificazione, non di una ritirata dall’economia globale.

Un aspetto interessante del paper riguarda la natura dei beni coinvolti. I prodotti ad alta intensità di capitale e competenze provenienti dalla Cina sono calati costantemente. A partire dal 2021 la riallocazione ha coinvolto anche beni che richiedono input specializzati e relazioni di lungo periodo con i fornitori. Inoltre, si è estesa ai prodotti caratterizzati da rapporti durevoli tra acquirente e fornitore. Nonostante i costi di cambiamento, molte aziende hanno deciso di riorientare le catene di fornitura.

Rimane il fatto saliente: gli Stati Uniti non si stanno isolando dal mondo. Le importazioni complessive sono cresciute e la rete di partner commerciali rimane ampia. Ciò che è cambiato è la dipendenza dalla Cina, ridotta drasticamente. La diversificazione, tuttavia, è rimasta confinata ai principali partner già consolidati. Non si osserva un’espansione significativa verso paesi nuovi o fuori dai cluster industriali esistenti. In altre parole, la globalizzazione continua, ma con nuovi equilibri geopolitici.

Gli autori sottolineano che la riallocazione è un fenomeno strutturale, non ciclico. Tuttavia, restano diverse incognite. La politica commerciale Usa rimane incerta e rende difficile pianificare investimenti di lungo periodo. Spostare produzioni non elimina i rischi, ma li redistribuisce: Vietnam e Messico potrebbero trovarsi sotto pressione in caso di shock futuri. I dazi hanno aumentato i prezzi di molti beni importati, con effetti sul potere d’acquisto dei consumatori. Infine, la riallocazione riflette un allineamento lungo linee geopolitiche, con blocchi commerciali sempre più definiti.

La Great Reallocation segna un punto di svolta nella storia del commercio internazionale. In meno di otto anni, gli Stati Uniti hanno ridotto la loro dipendenza dalla Cina riportandola ai livelli di inizio secolo. Tuttavia, il paese rimane profondamente integrato nelle catene globali, con una rete di partner diversificata. Le domande aperte riguardano il futuro della globalizzazione. Si assisterà a una frammentazione in blocchi regionali, con supply chain più corte e geopoliticamente allineate? I paesi emergenti come Vietnam e India riusciranno a consolidare il loro ruolo senza dipendere eccessivamente dalla Cina? Gli Stati Uniti manterranno una politica commerciale aggressiva o cercheranno nuove forme di cooperazione? La risposta a queste domande definirà il prossimo capitolo della globalizzazione.

Cartolina. Made in China

L’export cinese continua a crescere, nonostante i dazi, nonostante tutto. O forse anche grazie ai dazi e a tutto il resto. Al fatto che la Cina ha lentamente concentrato al suo interno le catene del valore. Al fatto che l’estero dipende sempre più dai beni cinesi e chissà cosa ne sarà dei servizi. E anche al fatto che i cinesi usano sempre meno risorse dall’estero, un po’ perché consumano poco, un po’ perché hanno imparato a far tutto da soli. Sicché l’attivo commerciale si allarga. Il Made in China non è più solo un prodotto. E’ uno stile di vita. Chissà se farà scuola.

Cartolina. Debito emergente

Le imprese dei paesi emergenti, al netto della Cina, si indebitano assai meno dei loro governi a quanto pare. Addirittura c’è stato un calo significativo delle emissioni corporate, fra il 2024 e il 2023. Ma in compenso usano sempre più la valuta locale anziché quelle internazionali – sostanzialmente il dollaro – per le loro emissioni. Ormai quasi la metà dei bond corporate usano la moneta di casa, specialmente in Asia. Queste obbligazioni trovano volenterosi acquirenti fra i residenti, che evidentemente apprezzano. E questa una buona notizia per le imprese locali, che si trovano meno esposti ai capricci della congiuntura valutaria internazionale. Il debito emergente piace assai più in casa che all’estero. Chissà se questa preferenza, in tempi di crescente tentazioni autarchiche, non diventerà una tendenza. Magari gli emergenti sono un’avanguardia.

Cartolina. Dal Warfare al Welfare

Se la storia si ripetesse davvero dovremmo inquietarci nello scoprire che negli anni Sessanta del secolo scorso gli Usa spendevano più del 10 per cento del pil per la difesa e quasi niente per la Sanità. Oggi la spesa sanitaria si è mangiata buona parte di quella per la Difesa, che rimane elevata, ma assai meno rilevante di prima. Dal warfare al welfare dovrebbe essere un progresso virtuoso, ma chissà. Le sirene del conflitto echeggiano sempre più rumorosamente nelle nostre orecchie. E il progresso potrebbe rivelarsi un circolo. Neanche virtuoso: solo vizioso.

Cartolina. La crescita italiana

Cartolina. Il contagio

Il Fmi ha calcolato che l’esposizione del sistema bancario alle Non-Bank Financial institutions, fra Europa e Usa ammonta a 4,5 trilioni di dollari, 2,6 dei quali già erogati, mentre il resto risulta impegnato. In media questo corrisponde a circa il 9 per cento del portafoglio prestiti delle banche osservate. Ma la casistica è assai più fantasiosa. Non serve qui riepilogare, ne riparleremo. Limitiamoci a ricordare che stiamo nutrendo, nel profondo del nostro sistema finanziario e per puro amore del rendimento, degli organismi potenzialmente rischiosi. Questi soggetti, inoltre, si replicano furiosamente: l’esposizione verso alcune categorie di NBFIs è cresciuta del 59 per cento fra la fine del 2024 e la metà del 2025. Sono virali, in tutti i sensi. Quindi contagiosi. Ma non esiste alcun vaccino.

Cartolina. Mediocrità

L’Europa sta convergendo “verso una mediocre traiettoria di crescita”, scrive il Fmi nel suo ultimo outlook sulla nostra regione. Mediocre è una parola dai molti significati. La medietà, nel passato, è stata persino associata alla virtù. Ma poiché il Fmi non fa letteratura ma produce numeri è probabile si riferisca al fatto che i nostri tassi di crescita si appiattiscono insieme al nostro entusiasmo per la costruzione europea, che ormai segnala pericolosamente la sua esaustione, purtroppo contrastata con molte parole e pochi fatti concreti. La “mediocre traiettoria di crescita”, non è affare che riguardi solo il pil. Riguarda tutti noi.

Cartolina. La spesa che pesa

Salute e protezione sociale assorbono sempre più risorse pubbliche nei paesi ad economia avanzata, e si capisce bene la ragione. Meno si comprende come mai i paesi a basso reddito spendano così tanto per la difesa, circa quattro volte quello che impiegano le economie più affluenti. Questioni di mezzi e di priorità, evidentemente. I paesi ricchi badano alle loro popolazioni, tramite un uso sempre più espansivo della spesa pubblica. Quelli meno abbienti hanno bisogno delle armi. Forse per tenerli a bada. Oppure per difenderli da vicini riottosi. Ma quanto a questo, ormai anche noi abbiamo qualche problema di vicinato. E infatti i governi promettono di spendere sempre più in armamenti. Oggi la spesa che pesa è il welfare. Domani chissà.