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L’incertezza commerciale può attivare un cambiamento di paradigma economico

Bankitalia, nel suo ultimo Bollettino economico, ci ricorda che l’incertezza commerciale ha raggiunto il picco degli ultimi dieci anni, sostanzialmente in concomitanza dell’avvento di Trump alla presidenza americana. E sarebbe strano il contrario. Il nuovo presidente usa i dazi come premessa di qualunque discorso economico e politico, convinto evidentemente che minacciare i partner li renda più malleabili. Forse ha ragione, forse no: staremo a vedere.

Intanto il risultato che si ottiene è, appunto, quello di far crescere l’incertezza, che per un paese come il nostro, che deve molto del suo equilibrio economico al suo settore esportatore, può diventare un veleno letale. Ma anche no. Dipende, come al solito, da come l’ecosistema socio-politico reagisce alle sollecitazioni ambientali, che al momento si preannunciano avverse.

Le difficoltà sono evidenti. Bankitalia ci ricorda che “il nostro paese è significativamente esposto alle ripercussioni di incrementi dei dazi da parte degli Stati Uniti, che rappresentano la seconda destinazione, dopo la Germania, delle vendite estere di beni dell’Italia”. Gli Usa ormai valgono l’11% delle nostre esportazioni – parliamo di 63 miliardi nel 2023 – e chiunque abbia buon senso sa benissimo cosa implichino dei dazi su un export di queste dimensioni.

Anche perché il nostro partner commerciale, ossia gli Usa, sono solo settimi nella classifica che censisce la provenienza delle nostre importazioni, pari al 4% del totale per un valore che arriva a 20 miliardi di euro. Ciò determina il nostro avanzo commerciale bilaterale (terzo in classifica dopo Irlanda e Finlandia) che sicuramente il nuovo presidente Usa vedrà come fumo negli occhi.

Se guardiamo ai settori (grafico sopra) si intuisce l’importanza alquanto diffusa che gli Usa rappresenta per la nostra economia. I settori più esposti sono la cantieristica navale e quella aerospaziale, che insieme pesano un quarto delle vendite verso gli Usa. Un altro 10-16% raggruppa le vendite di farmaceutica, gioielli, occhialeria, mobili e comparto automobilistico. Questo mentre dal lato delle importazioni, gli Usa primeggiano soprattutto per l’energia (petrolio e gas liquefatto, pari al 10%) e della farmaceutica (12%).

Complessivamente, “gli Stati Uniti costituiscono un mercato di destinazione per quasi un terzo delle aziende esportatrici italiane. Poco più della metà delle vendite verso questo paese è realizzata da grandi imprese (con almeno 250 addetti), con un’esposizione media pari al 5 per cento del fatturato e al 15 per cento delle proprie esportazioni. Per le imprese piccole e medie il mercato americano risulta relativamente più rilevante (in media, circa il 7 per cento del fatturato e il 27 per cento delle esportazioni). A questa classe dimensionale appartiene inoltre la quasi totalità degli esportatori caratterizzati da un’esposizione particolarmente elevata verso gli Stati Uniti”.

La sintesi è facile da fare. Siamo esposti verso un partner commerciale divenuto più difficile, e rischiamo grosso. Senonché, ogni rischio contiene un’opportunità. E quella di ripensare la nostra economia, pianificando azioni di lungo termine capaci di costruire nuovi percorsi di crescita dovrebbe essere a questo punto un percorso obbligato.

L’andamento della nostra crescita, a dir poco contenuto, dimostra abbondantemente che non basta un buon settore esportatore a trainare un paese. Serve una robusta domanda interna. Serve all’Italia. Serve all’Europa. Un’economia che cammini sulle gambe di una robusta domanda interna non deve temere l’incertezza commerciale. Può gestirla senza troppe ansie. Il problema è come arrivarci. Si accettano suggerimenti.