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Tramonto finlandese

Pure i ricchi finlandesi piangono. Questo mal comune, che di sicuro consolerà gli amanti del mezzo gaudio, dovrebbe preoccupare al contempo non poco chi ha  cuore la stabilità economica. Perché quando un paese che, come ha ricordato di recente Seppo Honkapohja, componente della banca centrale finlandese, “è il solo dell’area euro con un rating sovrano a tripla A e un outolook stabile” suscita preoccupazioni, vuol dire che i rischi ai quali è sottoposta l’economia globale son ben lungi dall’essere superati.

Anche un piccolo paese come la Finlandia, può generare un rischio sistemico.

D’altronde non è una novità. La Commissione europea, nel maggio scorso, ha pubblicato la sua ultima In depth review (IDR) dedicata al piccolo paese nordico che, scrive “sta sperimentando squilibri macroeconomici che meritano di essere monitorati e richiedono azioni politiche”.

Quello che preoccupa, in particolare, è il “sostanziale deterioramento della posizione del conto corrente e la debole performace dell’export, provocata dalla ristrutturazione industriale e dalla perdita di competitività”. Tale situazione “indebolisce la posizione economica del paese compromettendone la futura prosperità, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione”.

La perdità di competitività è stata provocata, fra le altre cose, “dal significativo aumento del costo unitario del lavoro”, mentre, sul versante finanziario, la Commissione registra un preoccupante crescita dell’indebitamento, in particolare quello privato e quello estero.

Qualche numero aiuterà a capire.

Il saldo di conto corrente finlandese, che nel periodo 1992-2008 ha registrato un surplus medio del 4,2% del Pil, con un picco dell’8% nel 2008, dal 2009 in poi ha cominciato a calare trasformandosi in un deficit dell’1,3% nel 2011. Tale deficit si è allargato l’anno successivo all1,6%, ed è previsto in crescita fino all’1,8% nel 2014.

La crisi ha colpito il driver principale del Pil, ossia l’export che pesa circa il 40% sul prodotto del paese, che è peggiorato anche a causa della perdità di competività.

Nell’ultimo decennio, nota la Commissione, la Finlandia ha perso il 23% della sua quota mondiale di export. Ha pesato anche la ristrutturazione del settore industriale. La crisi della Nokia, intanto, ma anche dell’industria della carta, che sta delocalizzandosi in Asia e America Latina.

Come se non bastasse il paese soffre di una notevole dipendenza dalle importazioni di energia, che pesa circa il 20% dell’import.

A ciò si aggiunge l’aumento del livello di indebitamento. Il settore privato, escludendo quello finanziario, ha accumulato debiti fino al 179% del Pil, due terzi dei quali sono in pancia alle imprese. Al contrario il debito pubblico è previsto rimanga sotto la soglia del 60% fino al 2014 (a fronte della media del 46% fra il 1992 e il 2008), anche in virtù di un deficit contenuto. Va detto, tuttavia, che la Finlandia aveva un surplus di bilancio pubblico del 4,4% nel 2008, che è diventato un deficit del 2,5% nel 2010. Il consolidamento fiscale deciso dal governo lo ha ridotto allo 0,6%, ma la Commisione lo prevede nuovamente in crescita, anche se rimarrà sempre al di sotto del 3%.

Ma è l’unica nota positiva di uno spartito stonato.

Il debito delle famiglie, infatti, è un’altra fonte di preoccupazione. Anche se più basso di altri paesi nordici, negli ultimi anni è passato dal 65% del reddito al 118%.

Ma soprattutto è degno di nota che la crescita anno su anno dei debiti non consolidati del settore finanziario, nel 2011, abbia raggiunto il record del 30,8%.

Tale boom si deve per lo più ai movimenti di mercato del portafoglio dei derivati della Nordea bank, ossia la principale banca finlandese (che poi è una succursale di una banca svedese), conseguenza diretta dell’essere la Finlandia un “paradiso sicuro” per gli investitori.

E questo ci riporta al deficit di bilancia dei pagamenti, paradossalmente aggravato proprio dalla tripla A che attira capitali tramite investimenti di portafoglio e quindi, indirettamente, aumenta il debito estero, che era vicino a zero nel 2008 e adesso pesa circa l’1% del Pil.

Sembra poca cosa, ma considerate che nei primi anni del XX secolo la Finlandia era un prestatore netto e aveva crediti (dato 2003) superiori all’8% del Pil.

Tutto ciò si ripercuote sulla posizione degli investimenti esteri (NIIP). Le vicissitudini della Nokia pesano non poco sul flusso degli investimenti di portafoglio, che sono il driver principale dell’andamento della NIIP. “Il 75% delle azioni Nokia sono in mano agli stranieri  – scrive la Commissione – e dato il valore della capitalizzazione ciò ha un effetto rilevante sulla NIIP”. Per la cronaca, la Nokia valeva oltre 100 miliardi in borsa, nel 2007 (a fronte di un Pil di circa 189 miliardi nel 2011, a prezzi correnti), per poi crollare intorno ai 15 miliardi nei tempi recenti. Il calo di questa capitalizzazione ha avuto un effetto positivo sulla NIIP che è diventata leggermente positiva malgrado l’aumento dei investimenti di portafogli esteri in Finlandia e quelle degli investimenti diretti all’estero delle imprese residenti.

Conclusione: “Al momento – scrive la commissione – il deficit di conto corrente è contenuto e la sostenibilità esterna è ancora forte, ma si sta indebolendo: anziché accumulare riserve se le sta mangiando”. Il contrario di quello che dovrebbe fare un paese con una popolazione che invecchia.

Nota a parte merita l’analisi del settore bancario, che nel 2012 ha accumulato asset per il 308% del Pil.

Le banche hanno reagito bene alla crisi scoppiata nel 2009, quando il Pil crollò dell’8,5%. Non hanno avuto bisogno di supporto statale e hanno avuto l’accortezza di esporsi solo limitatamente ai PIIGS. A oggi le banche hanno una buona profittabilità, con un return on equity (ROE) di circa il 10% e  una buona capitalizzazione.

E tuttavia tanta salute nasconde i germi di una nascente fragilità.

L’esplosione di indebitamente registrato nel 2011 (+30,8% sul 2010) “merita un esame attento”, secondo la Commissione, anche perché insieme agli asset sono praticamente raddoppiati anche i debiti del sistema bancario dalla fine degli anni ’90 in poi.

Poi c’è la questione del mercato immobiliare. I prezzi reali sono aumentati del 92% dal ’97 al 2007, meno di altri paesi. Ciò non esclude che “il mercato immobiliare possa rappresentare un rischio per l’economia finnica, anche perché certe caratteristiche del mercato tendono ad amplificare la volatilità”.  E questo, stante l’alto livello d’indebitamento delle famiglie, ha un effetto indiretto sullastabilità del sistema finanziario, vista la quantità di mutui che le banche hanno in portafoglio.

Un’altra fragilità sta nel fatto che “il settore bancario finlandese è altamente concentrato, con Nordea Bank Finlandia che possiede due terzi del totale degli asset”, un caso eccezionale in Europa. La Nordea finlandese, che è una sussidiaria della Nordea svedese, pesa per circa la metà del totale della crescita dei debiti nel settore finanziario e la crescita dei suo portafoglio di derivati, arrivato a valre 166 miliardi a fine 2011,  pesa circa un terzo del totale della crescita dei debiti del settore finanziario finnico. Una fonte di rischi, spiega la Commissione, peraltro concentrata in una banca che è più che sistemica, nella finanza finnica.

Ancora. Sempre lo stato di “paradiso sicuro” della Finlandia ha attirato parecchio depositi dall’estero, che nel 2011 sono cresciuti di 67 miliardi, arrivando per lo più da altri paesi dell’area del Nord che hanno depositato in Finlandia, unico paese “vichingo” aderente all’euro, le loro eccedenze denominate nella valuta unica.

Il totale di queste fragilità nascenti fa concludere alla Commissione che sia necessario “un attento monitoraggio” per i notevoli rischi di contagio e, soprattutto, sui rischi derivanti da improvvisi richiami di capitali dall’estero.

Un deflusso di capitali esteri sarebbe fortemente destabilizzante per la banche.

Cosa ci dicono questi numeri?

Che la Finlandia sta ancora godendo dei suoi frutti della sua lunga estate economica, ma il sole tramonta e l’inverno ormai è alle porte.

Il terribile inverno del Nord.

Il paese sta consumando le sue riserve e aumentando i suoi debiti, mentre la popolazione invecchia e perde quote di mercato estero, ossia la fonte primaria del suo benessere. Segno evidente che i i tassi di crescita medi del 3% registrati fra il 1992 e il 2008 sono ormai un bel ricordo.

Il bilancio pubblico dovrà farsi carico di tutto ciò, in un modo o in un altro, come ricorda bene anche mister Honkapohja nel suo intervento dell’ottobre scorso, secondo il quale “l’economia finlandese soffrirà più altre economie europee gli effetti dell’invecchiamento della popolazione”, che poi significa welfare, quindi pensioni e sanità. E dovrà fare i conti anche con profonde riforme struttruali, innanzitutto del mercato del lavoro, per contenere la perdità di competitività e l’andamento demografico.

“Dobbiamo evitare che siano le pressioni del mercato a forzare il governo a prendere le decisioni necessarie”, ha esortato il nostro banchiere centrale.

Devono evitare, insomma, che accada a loro quello che accade in Italia da vent’anni e nel resto dell’europa del Sud da cinque.

Auguri.

 

Il Risolutore dell’eurozona

Correva l’anno 1949 quando l’economista francese Jacques Rueff pronunciò una sentenza rimasta memorabile: “L’Europa si farà tramite la moneta o non si farà”. “Dopo 50 anni la visione di Rueff ha preso forma”,  ha detto il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, invitato a parlare ai Rencontres Économiques di Aix-en-Provence. “Ma bisogna ricordare – ha aggiunto – che l’euro è stato un progetto politico fin dall’inizio”.

Fin dall’inizio.

L’unione monetaria, quindi è stato solo il primo passo, ci ricorda il boss della Buba. “Ci si aspettava che l’euro mettesse in azione un processo di reale convergenza – sottolinea – e ci si aspettava che i governi non avrebbero avuto altra scelta che realizzare le riforme strutturali per migliorare la loro offerta, dal momento che le politiche di stimolo della domanda non sarebbero state più un’opzione”.

Senonché l’euro “semplice” moneta legale non è bastato. Adesso, grazie alla crisi, stiamo compiendo il secondo passo di questo progetto politico, ossia l’unione bancaria, finalizzata a mettere in comune a moneta bancaria, in attesa di fare il terzo: il coordinamento delle politiche fiscali.

“Le cose non hanno funzionato come ci si immaginava – dice ancora – e questo pone una domanda fondamentale: dobbiamo spostare le politiche economiche a livello europeo per rendere l’unione monetaria praticabile? O è sufficiente emendare l’attuale contesto normativo?”

Entrambi le strade sono percorribili, dice Weidmann, ma “nell’attuale situazione congiunturale credo che sarebbe più fattibile rinunciare alla sovranità nazionale in tema fiscale ed economica”. “Una vera unione fiscale – sottolinea – sarebbe un passo importante verso la creazione di un contesto che bilancia responsabilità e controllo”. “In questo scenario il diritto di controllo e intervento deve essere spostato a un livello europeo (dai paesi nazionali, ndr)”.

Senonché finora gli stati resistono. Weidmann ricorda la dura reazione di Hollande alle esortazioni rivolte alla Francia dalla Commissione. Perciò, dice il nostro banchiere, “per il momento l’unico modo possibile di procedere è quello di rafforzare il quadro previsto nei trattati, irrigidendo le regole fiscali che troppo spesso in passato sono stati ignorati, anche dalla Germania, che è uno dei colpevoli“.

Weidmann non è certo un nazionalista.

Ma irrigidire i trattati, nella visione del nostro banchiere, non basta. Serve anche un sistema stringente di controlli e responsabilità. E questo significa una cosa molto semplice: rendere possibili i fallimenti. Delle banche innanzitutto, facendo pagare il conto ai privati e non più agli stati. Poi degli stati stessi, se necessario. Quello che ho chiamato Berliner consensus.

Per arrivare a questi risultati è necessario spezzare il legame “ancora troppo forte” fra banche nazionali e stati sovrani. Le prime hanno in pancia troppo debito dei secondi e questo crea nel mercato la sensazione di quella “garanzia implicita” che nella visione del governatore della Buba è stato il fardello che ha minato la costruzione europea. Questo è l’obiettivo che si pone l’Unione bancaria.

Proprio in queste ore la Commissione europea ha presentato la sua proposta per creare il cosiddetto “meccanismo di risoluzione“, il secondo pilastro dell’Unione bancaria che segue a quello della supervisione, affidato alla Banca centrale europea. Il contenuto della proposta è molto semplice. La decisione sulla risoluzione di una banca, termine tecnico che cela timidamente il significato di “fallimento ordinato”, viene affidata a un’autorità sovranazionale, così come richiesto dai banchieri centrali della Buba, e imposta il fondo di risoluzione, dove si andranno a pescare le risorse per garantire l’atterraggio il meno possibile indolore per le banche oggetto di risoluzione.

Quello che è interessante notare è la fisionomia del Risolutore. Si tratta di un board formato da rappresentanti della Bce (ossia dal supervisore che fa scattare l’allarme su una banca), della commissione Ue e da rappresentati dello stato in cui risiede la banca. Sulla base delle raccomandazioni del board la commissione (che sta nel board) deciderà come e quando far scattare la risoluzione (fallimento), affidando alle autorità nazionali (rappresentate nel board) di darvi seguito. Il board supervisionerà il processo e nel caso dovesse trovare l’attuazione poco soddisfacente potrà intervenire direttamente. Tanto per far capire chi comanda.

Tutto ciò, ovviamente, ha un nobile fine: “L’Unione monetaria è stata sin dall’inizio un progetto politico e una promessa di prosperità”. “Le riforme strutturali  – sottolinea Weidmann – possono intaccare alcuni interessi particolari, ma possono chiaramente rafforzare l’efficacia, la competitività e anche la correttezza delle nostre economie. E questo non sono parole mie – conclude – ma di Mario Draghi”.

Per adesso il Risolutore non ha un nome.

Ma sospettiamo inizi con la B.