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Il girotondo del commercio estero italiano
A caccia di buone notizia capaci di dissipare la fosca coltre di presentimenti di quest’inizio d’anno, m’imbatto nella stima flash sul commercio estero di novembre che Istat ha diffuso pochi giorni fa.
Sorvolo sui dati congiunturali, che dicono tanto ma non abbastanza, e mi concentro su un dato tendenziale aggregato, ossia quello relativo ai primi 11 mesi dell’anno, durante i quali il saldo commerciale ha raggiunto un attivo di 37,1 miliardi, quasi dodici in più rispetto ai primi undici mesi del 2013 (25,8 miliardi), che vuol dire quasi il 50% in più.
Siamo forti, mi dico. E per un attimo smetto di preoccuparmi.
Dura poco però. Osservo il grafico con le curve di import ed export nel periodo considerato e mi accorgo che, con l’eccezione di settembre, quando le importazioni sono calate di qualche punto percentuale, il trend è in ascesa, mentre relativamente all’export, con l’eccezione di agosto, il trend è in discesa.
Mi ricordo poi che nell’autunno 2014 è successo di tutto: l’euro si è indebolito del 6%, secondo le stime del Fmi, e il petrolio è crollato del 55%, sempre secondo le stime del Fmi. Perciò i dati del nostro commercio estero vanno presi con le pinze. Quantomeno pesati.
Purtroppo l’Istat si limita a raccogliere dati, misurati in valore o volumi. Perciò decido di accontentarmi e me li vado a leggere.
Scopro che i valori medi unitari, ossia il rapporto tra valore delle merci scambiate e la loro quantità, sono in crescita dalla primavera, sia per l’export che per l’import, salvo un’eccezione per le importazioni di agosto. Al contrario i dati sui volumi, ossia relativi alle quantità, divergono sostanzialmente a partire da ottobre 2014: il volume delle importazioni aumenta, quello delle esportazioni diminuisce. A tal proposito l’Istat sottolinea che “la diminuzione dei volumi esportati interessa tutti i principali raggruppamenti di beni, a eccezione dei beni strumentali (+2,2%) e dei beni di consumo durevoli (+1,8%)”.
Su guardiamo al dato tendenziale gennaio-novembre 2014 sullo stesso periodo del 2013, osserviamo che il volume delle esportazioni è aumentato di un risicato 0,1%, mentre quello delle importazioni del 2,4%, mentre il valore medio dell’export è cresciuto dell’1,5% e quello dell’import è calato del 2,6%.
Mi viene da pensare che non è che vendiamo più cose, semplicemente le vendiamo a miglior prezzo. Così come non è che compriamo meno cose dall’estero, anzi, ne compriamo di più: le paghiamo di meno.
Quindi il nostro super saldo commerciale ha molto a che fare con il prezzo delle commodity e gli andamenti monetari, che sono fattori esterni, ossia fuori dal nostro controllo, più che fattori interni. All’interno anzi abbiamo richiesto più beni dall’estero. Sarà merito degli 80 euro, forse.
Noto ammirato che il grosso delle nostre importazioni in volume, sempre nel periodo considerato, si colloca fra i beni di consumi durevoli (+5,8%) cui corrisponde un incremento in valore dello 0,6%. E chissà perché mi ricordo che il 2014 è stato un anno record per le vendite di Bmw, Mercedes, Audi eccetera.
Non è che sono prevenuto. Osservo solo che nel mese di novembre, il maggiore contributo all’import italiano, 0,39 punti percentuali, è arrivato dagli autoveicoli dalla Germania.
Per un attimo ho la sensazione di fare un girotondo. Alla fine comunque si cade giù per terra.
Assai utile, per immaginare per quanto possibile il futuro, si rivela tuttavia una grafico che sommarizza i saldi, attivi e passivi, con i principali partner del nostro commercio.
Scopro così che i nostri migliori clienti sono stati gli americani, che hanno importato merci per oltre 16 miliardi dall’Italia nei primi undici mesi del 2014. Segue il Regno Unito, che ha speso da noi circa nove miliardi, un po’ meno della Francia. Poi i paesi EDA (Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Malesia e Thailandia), intorno agli otto miliardi e dulcis in fundo la Svizzera con poco meno.
Quanto alle nostre spese all’estero, la Cina batte tutti, con importazioni italiane per circa 15 miliardi, più o meno al livello dell’export in Usa. Poi ci sono i Paesi Bassi, con una decina, la Russia, con poco più di sei, la Germania con poco meno, e l’India con circa due miliardi.
Da questa esposizione sommaria possiamo dedurre alcune considerazioni. Intanto che il nostro export è molto più sensibile al cambio del nostro import.
Voglio dire che la rivalutazione del dollaro e del franco svizzero sarà di sicuro uno stimolo per l’export in quei paesi che, guardacaso, sono fra i nostri migliori clienti.
Il calo dei prezzi energetici, inoltre, farà dimagrire il valore unitario medio dell’import dalla Russia, che mostra già grandi segnali negativi. Mentre l’import che facciamo da Germania e Paesi Bassi, da un punto di vista della bilancia commerciale sarà neutro rispetto alla moneta. Salvo ovviamente l’andamento dei cambi reali e dei prezzi relativi.
Tutto ciò per dire che dovremmo tifare per la buona salute economica dell’America e della Svizzera se vogliamo continuare a macinare saldi attivi sulle merci.
Questo non vuol dire che basterà.
Il fallimento del riequilibrio globale
I primi tre terribili anni dei tremendi anni Dieci del XXI secolo appaiono, osservati da un grafico del Fmi, la migliore descrizione possibile di un fallimento. Gli squilibri dei conti correnti delle principali aree economiche sono diminuiti, ma quelli globali no. Al contrario: sono andati distribuendosi verso le economie più periferiche, dove sono persino peggiorati, raggiungendo in alcuni casi il livello del 2011, l’anno in cui suonarono tutti i campanelli d’allarme possibili, con l’eurozona preoccupata per le sorti della sua moneta e l’Italia sull’orlo del precipizio dopo la crisi del debito sovrano europeo.
Lo stesso Fondo monetario, nel suo ultimo external report di luglio, osserva sconsolato quest’evoluzione, tanto più notabile in quanto propedeutica al momento in cui le straordinarie facilitazioni monetarie inizieranno a venir meno, con la crescita del prodotto globale ancora sotto il suo livello potenziale. L’output gap previsto per il 2014, ammesso che tale rilevazione statistica abbia un senso, ossia la differenza fra pil potenziale e pil reale, rimane elevato su scala globale, segnando un -1.9%, persino maggiore di quanto non fosse nel 2011 e solo in lieve miglioramento rispetto al 2013 (-2,1%). E poiché la crescita rimane l’unica variabile capace di scardinare la tremenda stagnazione deflazionaria che incombe sulle economie avanzate, il Fmi non può che volgere lo sguardo verso le economie di Usa e Uk, che nel 2013 hanno dato segnali di un certo rinvigorimento, che però prelude alla fine delle politiche monetarie espansive. E questo è un problema collaterale.
Rimane il fatto che, nonostante tutta la fatica compiuta in questi anni, il risultato è che “le economie emergenti rimangono vulnerabili a shock finanziari, compreso un riprezzamento del rischio di credito o un nuovo innalzamento del premio sul rischio sovrano”. I rischi, e con loro gli squilibri, insomma, si sono annidati laddove è più complicato o meno interessante scorgerli. Ma ciò non vuol dire che siano meno pericolosi, visto i legami commerciali e finanziari che esistono fra queste economie e quelle avanzate.
Poi c’è un altro problema che giova sottolineare. Il picco di squilibri, raggiunto nel biennio 2006-7, si è corretto in gran parte, fra il 2008 e il 2009, a causa del crollo dei mercati, che hanno fatto dimagrire gli asset, da un parte, e ridotto gli scambi fra i paesi del mondo, oltre che dal declino del costo delle commodity. Nel 2010 gli squilibri, in coincidenza con i primi segnali di normalizzazione dell’economia, sono tornati a crescere, e da quel momento in poi sono rimasti pressoché costanti diminuendo solo marginalmente e in maniera diseguale. Nell’eurozona, per fare un esempio, sono migliorati grazie soprattutto al crollo della domanda interna dei paesi in deficit. Il che non è esattamente un buon viatico per il futuro.
Fra i paesi in surplus – anche un surplus fuori misura è uno squilibrio – gli asiatici, Cina e Giappone in testa, hanno visto diminuire i loro attivi, salvo la Corea del Sud, che invece ha aumentato l’eccedenza, e altrettanto è accaduto a Germania e Olanda, mentre gli esportatori di petrolio, ossia gli altri grandi creditori, hanno subito andamenti più volatili. Fra i paesi debitori, spiccano gli Usa, che hanno diminuito il deficit esterno del conto corrente dal 6 al 2,3% nel 2013, pure se al costo di un notevole peggioramento della posizione netta degli investimenti esteri, ormai in deficit per il 27% del Pil dal -15% del 2010, e prevista in peggioramento di un ulteriore 5% nei prossimi cinque anni. Ciò vuol dire che il debito estero lordo americano ha raggiunto la non invidiabile quota del 160% del Pil.
Il peggio però è che al “miglioramento” americano e cinese, dei rispettivi deficit e surplus, ha finito col corrispondere il peggioramento della situazione estera di paesi che sono periferici, ma poi neanche tanto. Fra quelli in surplus, oltre alla Corea del sud, hanno visto crescere il surplus, rispetto al 2011, la Germania (malgrado il miglioramento sul 2012), la Svezia e persino l’Euroarea nel suo complesso, il cui surplus, peraltro, non ha mai smesso di crescere dal 2011. Esattamente come è successo alla Svizzera.
Fra i debitori, è molto peggiorata la posizione estera del Messico, dell’Indonesia e della Gran Bretagna, ormai verso un deficiti del 4%. Il Canada è tornato sostanzialmente al deficit del 2011, mentre il Brasile lo ha pressoché raddoppiato. Tutti gli altri Brics, a parte l’India, scontano un sostanziale peggioramento. Il Sudafrica è arrivato a un deficit del 5,8%, la Turchia sfiora ormai l’8%, mentre la Russia, pressata dalle note vicende internazionali, ha visto praticamente dimezzare il suo surplus.
In Europa vale la pena segnalare che la Germania ormai è stabilmente sopra l’8% e la Francia stabilmente in deficit per circa l’1,4%. Migliorata la Spagna e anche l’Italia, unico paese del gruppo considerato a essere passato dal deficit a un piccolo surplus.
Sulla sostanza di tali movimenti, il Fmi ha pochi dubbi: “In generale i movimenti del conto corrente nel 2013 appaiono correlati più a cambiamenti delle domande interne piuttosto che ad evoluzioni della domanda estera, con un contributo della politica fiscale”. Gli stati messi a dieta, insomma, hanno corretto alcuni squilibri, che però – di fatto – sono stati scaricati su altri. “In prospettiva globale – conclude il Fmi – il saldo aggregato delle economie in surplus e delle economie in deficit è rimasto eccessivo nel 2013”. Il riequlibrio, insomma, è stato un sostanziale fallimento.
In questa temperie maturerà la resa dei conti.
