Etichettato: cosa è il target 2

L’ultima trovata per far salire l’inflazione: alzare il target

Il 9 giugno scorso 22 economisti Usa hanno firmato una lettera indirizza a Janet Yellen con la richiesta di alzare il target di inflazione della banca centrale. L’appello esibisce un parterre con dentro star dell’economia come il nobel Joseph Stiglitz, Jared Bernstein, economista in servizio permanente presso l’amministrazione Obama, Jason Furman, del Peterson Institute, Brad De Long, dell’Università della California. Insomma: accademia, politica e pensatoi. Tutti convinti che l’età del target di inflazione al 2% sia superata e che la banca centrale Usa dovrebbe alzarlo per non trovarsi a corto di strumenti qualora la crisi tornasse a mordere. Il target di inflazione, è lo strumento principe che guida le policy di moltissime banche centrali che perseguono la stabilità monetaria, fondando le loro politiche sulla credibilità che deriva dall’essere indipendenti dal governo. Le persone meno avvezze agli ossimori dell’economia, potranno stupirsi osservando che si considera stabile una moneta che perde il 2% di valore ogni anno. Serve quindi aprire una breve parentesi che spieghi la logica dell’inflation targeting e perché questa strategia risulti così seducente per i governatori delle banche centrali e per moltissimi economisti.

Una buona introduzione si può trovare in un recente libro di Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra titolato argutamente La fine dell’alchimia. La pratica del target di inflazione data oltre un ventennio. Per prima fu introdotta dalla banca centrale della Nuova Zelanda nel 1990, e poi piano piano fu imitata in tutto il mondo. Nel 1991 arrivò in Canada. In Europa la prima ad adottarlo fu la Banca d’Inghilterra, nel 1992. Ma solo cinque anni dopo la BoE ottenne l’indipendenza, che è uno dei pre requisiti per il buon funzionamento dell’inflation targeting, lo stesso anno di quella del Giappone. Nel 1999 anche la Riksbank svedese divenne indipendente, anche se l’adozione del target di inflazione era già operativa nel 1995. Sempre nel ’99 la seduzione investì anche la Bce, che pure se non fa riferimento espressamente a un target di inflazione, ha come obiettivo un tasso inferiore ma vicino al 2%.  Con la Bce si compie la perfetta incarnazione della banca centrale del XXI secolo. Talmente indipendente da non avere un governo alle spalle, e libera – anzi obbligata – a seguire i suoi target. In sostanza la stabilità della moneta, ossia il controllo dell’inflazione. Le altre grandi banche centrali arriveranno anni dopo. La Fed ha adottato il target di inflazione al 2% nel 2012. La Banca del Giappone nel 2013. Al momento si contano oltre trenta banche centrali che perseguono l’inflation targeting e tutte le grandi in qualche modo hanno un obbiettivo di inflazione.

La logica di questa euristica- King la chiama una tecnica di coping, ossia di adattamento – è quella di fissare le aspettative degli operatori economici. Se la banca è credibile, e quindi il mercato le riconosce capacità di perseguire con autonomia i propri obiettivi, tutte le aspettative degli operatori si orienteranno sul target programmato. Un governo, ad esempio, potrà ancorare i suoi rinnovi contrattuali al tasso di inflazione atteso, oppure un’impresa potrà contabilizzare le sue scorte sapendo che perderanno il 2% ogni anno del loro valore monetario, per non parlare di chi investe in azioni o obbligazioni, che impara a depurare dal rendimento nominale il suo tasso di inflazione atteso e calcolare il rendimento reale, che perciò è una pura congettura. In sostanza, in un mondo di incertezza radicale, come la chiama King, sapere che ogni anno l’inflazione aumenta del 2% sembra un oasi di tranquillità. Ci si potrebbe chiedere perché allora non perseguire un’inflazione zero. Ma qui il discorso si allungherebbe troppo. Basti sapere che in un mondo indebitato come il nostro è meglio avere un’inflazione del 2% l’anno, che aiuta parecchio i debitori ad abbattere i propri debiti nell’arco di un ventennio. Provate a calcolare quanto varrebbero 100 euro dopo trent’anni di inflazione al 2%. Ne sarete sorpresi. Figuratevi se l’inflazione fosse al 3%. Inoltre molta teoria legge l’esuberanza moderata dei prezzi – il 2% a qualcuno sembra di fatto un’inflazione zero – come un indice di salute economica.

Di fronte a questa storia c’è l’attualità. Alcuni banchieri della Fed hanno animato un dibattito che l’accademia promuove da diverso tempo ma che solo di recente ha iniziato a far capolino nei saloni delle banche centrali. Il presidente della Fed di San Francisco, John Williams, ha fatto notare  la necessità di “adattare le policy al cambiamento delle circostanze” che può voler significare tutto e niente, ma che viene interpretato come una chiara presa di posizione a favore della messa in discussione del target. Un altro presidente della Fed, quello della filiale di Boston, Eric Rosengren, ha fatto esplicito riferimento  al contesto, assai diverso oggi da quello che originò il target attuale, sottolineando l’impellenza di un dibattito sul tema. Questo mentre, nel maggio scorso, Stanley Fischer, vice presidente della Fed, ha ricordato la prassi del sistema canadese che ridiscute i target di inflazione ogni cinque anni. E dal 2012, quando la Fed adottò il suo target,  a oggi sono giusto cinque anni. Fuori dagli Usa, vale la pena ricordare che la Banca del Giappone ha già annunciato che continuerà col suo allentamento monetario finché l’inflazione non sarà superiore per un lungo periodo al target del 2%. Che, di fatto, significa alzare il target di inflazione senza dirlo. Mentre lato Bce, si segnalano le recenti dichiarazioni di  Ewald Nowotny, governatore della banca centrale austriaca, secondo cui sarebbe ragionevole se il target d’inflazione fosse interpretato come “banda” di oscillazione per i tassi. Ossia con ampi margini di manovra.

Ma se torniamo negli Usa, le opinioni dei banchieri, scrivono gli economisti alla Yellen, sono la prova che supporta l’ampia evidenza che i tassi a lungo termine sono caduti e che perciò pure se il 2% di target era ragionevole anni fa ora non lo è più. Bisogna far cadere i tassi reali assai più di adesso per stimolare l’economia e “assicurare l’efficacia della politica monetaria nella sua opera di stabilizzazione dell’economia dopo uno shock”. Puntare a più inflazione significa volere un tasso di interesse più basso allo scopo di stimolare la domanda aggregata, che viene individuata come la causa della crescita pigra di questo decennio. In fondo, questo è il pensiero che anima questa narrazione e che, come si vede, inizia a far breccia anche laddove avvengono le decisioni monetarie. Il pensiero che manovrare il tasso di interesse ulteriormente al ribasso per stimolare il credito, possa essere sostanzialmente sbagliato, inutile o addirittura dannoso non sfiora i nostri firmatari. D’altronde a dire ad alta voce una cosa del genere si rischia di finire fuori dal giro che conta e che alimenta quelle certezze indimostrabili che reggono la filigrana del nostro sistema economico. King, sempre nel suo libro, definisce la trovata di affossare ancor di più i tassi reali  come “un’idea incredibile che suona come una mossa disperata”. “Tanto varrebbe – scrive – abolire l’indipendenza delle banche centrali e tornare al punto in cui i tassi di interesse erano decisi dai governi. Allora sì che i mercati si attenderebbero un aumento dell’inflazione”. Ma lui ormai è un banchiere centrale in pensione che può permettersi di dar lezioni. Per chi è ancora in servizio sarà meglio far finta di credere alle idee incredibili.

I soldi delle famiglie italiane emigrano all’estero

Un bel grafico contenuto nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato da Bankitalia ci racconta meglio di mille parole cosa sia accaduto fra il 2011 e il 2016 ai flussi finanziari che entrano ed escono dal nostro paese e che vengono fotografati da Target 2, ossia il sistema contabile dell’eurozona che registra i movimenti di fondi fra le banche centrali dell’Eurosistema, a loro volta riflesso delle decisioni di consumo e di investimento degli operatori nazionali rispetto all’estero. Per farvela semplice, se comprate un titolo estero Bankitalia regola con moneta di banca centrale il pagamento sull’estero, che diventa per lei una passività mentre viene iscritta come attività dalla banca centrale che lo riceve.

Il saldo Target, raccogliendo l’insieme degli afflussi e dei deflussi fra le banche centrali dell’Eurosistema, ci racconta come si stia evolvendo la nostra posizione estera, quindi se siano entrati più soldi di quanti ne siano usciti o il contrario. E’ opportuno sottolineare che avere un saldo negativo non vuol dire necessariamente che qualcosa stia andando storto. Molto dipende dalle singole componenti che determinano il saldo.

Veniamo al nostro grafico.Da inizio del 2016 il saldo Target 2 relativo a Bankitalia, quindi in sostanza al nostro Paese, è peggiorato di 100 miliardi, raggiungendo a fine ottobre un deficit di 355 miliardi, persino più elevato rispetto a quello di quasi 300 miliardi raggiunto nel picco della crisi dell’euro fra il 2011 e il 2012. Ma, come dicevo prima, il fatto che il saldo sia peggiorato non vuol dire automaticamente che il paese stia peggio di come stava a fine 2011. Oggi anzi stiamo decisamente meglio. E tuttavia l’informazione è rilevante se si osservano le componenti del saldo.

A differenza del 2011 – differenza non da poco – l’Italia oggi ha un attivo crescente di conto corrente (l’istogramma viola del grafico) che all’epoca era un deficit, che compensa anche il graduale calo di investimenti esteri in titoli italiani (istogramma rosso) iniziato a metà del 2015. Questi attivi di conto corrente uniti agli investimenti esteri stanno sopra la linea dello zero, rappresentando afflussi di denaro in Italia e quindi crediti di Bankitalia verso le consorelle dell’eurosistema. E’ interessante osservare che fra il 2011 e la fine del 2014, sopra la linea dello zero ci stavano anche gli investimenti italiani in titoli esteri. Ossia, i nostri compatrioti vendevano titoli esteri e quindi generavano afflussi di fondi in Italia.

Ed è proprio questa componente che segna l’evoluzione più interessante. L’avevamo già osservato in passato, ma adesso il trend è più che consolidato: le famiglie italiane stanno portando una quota crescente dei propri fondi all’estero (istogramma azzurro). A ottobre del 2016 tale quota sfiora i 200 miliardi. “L’ampliamento del saldo – sottolinea Bankitalia – ha riflesso soprattutto il ribilanciamento di portafoglio delle famiglie italiane verso fondi comuni e titoli esteri – sia direttamente sia indirettamente attraverso prodotti di risparmio gestito – nonché la diminuzione della raccolta sull’estero delle banche italiane”. Si potrebbe discorrere a lungo sulla curiosa circostanza per la quale durante una crisi i soldi rientrano per riuscire quando la crisi si ritiene superata. Ma è più utile sottolineare altre informazioni.

La prima è che insieme agli investimenti su titoli esteri, gli italiani hanno aumentato anche gli investimenti diretti (istogramma arancione). Poi che ci sono stati moderati deflussi originati dalla vendita di titoli di stato dall’estero (istogramma blu), e soprattutto è crollata la raccolta estera delle banche italiane (istogramma verde), che pesa poco meno degli investimenti di portafoglio delle famiglie e che è rimasta all’incirca stabile dal 2012, ossia da quando le banche hanno iniziato a soffrire.

L’analisi del saldo, insomma, ci comunica diverse cose, la più rilevante delle quali è che l’Italia creditrice è all’origine dello sbilancio del nostro saldo target. Se gli italiani investissero in Italia, un paese che ha un deficit di investimenti del 30% rispetto al 2007, non avremmo sbilanci Target e magari avremmo un po’ più di crescita. Questo almeno suggerisce la teoria. In pratica però nessuno può saperlo.