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Il trionfo dei super ricchi
Così a un certo punto leggo stupito che la governatrice della Fed Janet Yellen è preoccupata per “la continua crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti”. E tuttavia non trovo nessun riferimento, nel suo lungo intervento (“Perspectives on inequality and opportunity from the Survey of Consumer Finances”) del 17 ottobre scorso circa la possibilità, financo remota, che tale peggioramento sia da addebitarsi proprio all’azione della Fed, magari per una di quelle maligne eterogenesi dei fini che fanno la gioia dei cacciatori di paradossi.
Forse sarebbe chieder troppo, mi dico. Così mi limito a focalizzare i dati, questi sì eloquenti, che rievocano suggestioni tardo XIX secolo, quando i super ricchi trionfavano alla faccia del resto della popolazione.
Ieri come oggi, viene da dire.
“Gli ultimi decenni – osserva la Yellen – hanno visto la più rilevante crescita nell’inegualità dal XIX secolo, dopo più di 40 anni in cui queste diseguaglianza si erano ridotto a partire dalla Grande depressione. Secondo alcune stime, la disuguaglianza di reddito e ricchezza è vicina al suo livello più alto degli ultimi secoli”. Non è un segreto, aggiunge, che gli ultimi decenni possono essere riassunti come un significativo guadagno per redditi e patrimoni per quelli che stanno al “very top” della distribuzione a una stagnazione per la maggioranza. “Mi chiedo – aggiunge – se questo trend sia compatibile con i valori alla radice della nostra nazione, fra i quali l’alto valore che gli americani riconoscono all’eguaglianza delle opportunità”.
Per quanto una certa disuguaglianza sia un beneficio, osserva ancora, in quanto potente stimolo a lavorare di più e migliorare la propria condizione, un eccesso di inegualità può esacerbare la disuguaglianza delle opportunità, creando un circolo vizioso destinato ad alimentare le differenze. Il problema, insomma, da economico diventa politico.
Tale visione ingenua, che mal si concilia con la sagacia che pure dovremmo riconoscere a una banchiera che interpreta un ruolo così importante mi lascia basito. Eppure dovrei essere abituato all’ipocrisia.
Ma poi mi dico che non dovrei occuparmi della Yellen, che in fondo fa il suo lavoro, e limitarmi a rilevare l’ennesima tappa del processo di Grande Redistribuzione, in atto ormai da un trentennio almeno, che con l’occasione della crisi del 2008 ha impresso una rapida accelerazione al movimento “naturale” della storia.
Già, perché come la stessa Yellen ci ricorda, la Grande recessione post 2008 ha duramente colpito i super ricchi. Ma poi (grazie anche alla Fed?) costoro non solo si sono ripresi, ma sono diventati anche più ricchi, come ci ricordano i dati della Survey che la stessa Fed realizza per capire meglio il mondo dove vive e dove opera.
Tale survey è iniziata nel 1989 e da allora ha osservato una costante concentrazione di ricchezza nella fascia alta delle famiglie più ricche, cui ha logicamente corrisposto un analogo detrimento per le le altre. Aggiustati per l’inflazione, i dati mostrano che i redditi medi del 5% delle famiglie al top sono cresciuti del 38% fra il 1989 e il 2013. Per il restante 95% di famiglie tale crescita è stata di appena il 10%.
La distribuzione della ricchezza è possibilmente anche più ineguale di quella dei redditi. Il 5% più ricco, nel 1989, deteneva il 54% della ricchezza nazionale. Nel 2010, quindi dopo la crisi del 2008, tale quota era arrivata al 61% e nel 2013 è ulteriormente cresciuta al 63%.
E’ interessante notare che tale aumento di ricchezza ha riguardato esclusivamente i super ricchi. I ricchi normali, quelli nella fascia di ricchezza collocata fra 81mila e 1,9 milioni di dollari, sono al contrario diventati più poveri: avevano il 43% della ricchezza nazionale nel 1989, e ora, nel 2013, sono scesi al 36%.
Figuratevi cosa è successo ai poveri. Costoro, che detenevano appena il 3% della ricchezza nazionale nel 1989, ora sono avidamente attaccati al misero 1% che è rimasto loro. Parliamo di 62 milioni di famiglie che hanno una ricchezza media di 11mila dollari, un quarto delle quali dichiarano una ricchezza pari a zero. Interessante notare altresì come la loro situazione, che pure era in lento miglioramento dall’89 in poi, sia drasticamente peggiorata a far data dal 2007.
La stessa sorte, peraltro, toccata a quelli che stanno in mezzo, il mitico ceto medio-alto che aveva visto crescere la sua ricchezza da una media di 323mila dollari, nel 1989, ai 516mila del 2007, e adesso si trova, a prezzi correnti, intorno ai 424mila.
Tutto ciò mentre i super ricchi, sempre il 5% al top, hanno visto la loro ricchezza media raddoppiare dai 3,6 milioni di dollari del 1989 ai 6,8 milioni del 2013, sempre a prezzi correnti.
Questo trionfo dei super ricchi made in Usa può anche essere osservato scrutando la composizione del loro portafoglio. Mentre per i più poveri o i meno ricchi la casa pesa fra i tre quinti e i due quinti della ricchezza, per il top 5%, il valore dell’immobile pesa appena un quinto, esattamente come accadeva fin da 1989. Ciò significa che i più ricchi sono meno sensibili al variare dei corsi immobiliari, al contrario delle altre fasce di reddito, per le quali una correzione del mattone ha effetti assai più dolorosi. Ciò spiega perché la Yellen noti con piacere che la ripresa del mattone in America abbia contribuito a migliorare le condizioni della popolazione. Quella più povera o meno ricca, almeno.
Se guardiamo agli asset finanziari, scopriamo che il 5% al top detiene circa i due terzi di tutto e la fascia centrale, i meno ricchi, il restante terzo. Qualche briciola, circa il 2%, sta nella disponibilità dei più poveri. E poiché gli studi della Fed mostrano che “l’ineguaglianza tende a persistere da una generazione alla successiva”, e che la mobilità economica negli ultimi decenni è cambiata assai poco, possiamo tranquillamente dedurne che il sogno americano, nella sua variante contemporanea, è un incubo di diseguaglianza, che peraltro penalizza moltissimo i figli delle famiglie più povere rispetto a quelli dei ricchi.
Un solo dato basterà a capire perché: la ricchezza mediana delle famiglie con figli più povere è diminuita dai 13mila dollari del 2007 agli 8mila del 2013: un calo del 40% dopo l’aggiustamento per l’inflazione. Per il 5% al top, tale ricchezza mediana è diminuita solo del 9%, passando da 3,5 milioni a 3,2.
Decido di glissare, ormai annoiato, sull’effetto ulteriormente squilibrante, delle eredità che per il 5% al top valgono in media 1,1 milioni e per i più poveri raggiunge appena i 68mila. Senza ombra di ironia la Yellen osserva che le eredità dei poveracci hanno un valore relativo, stante il loro livello di ricchezza, assai maggiore rispetto a quelle dei più ricchi.
Dice un vecchio proverbio delle mie parti che i soldi fanno soldi e i pidocchi fanno pidocchi.
Ma non dite che è colpa della Fed.
Usa al bivio: la ripresa inconcludente
Negli anni ’30 del secolo scorso gli Usa inventarono il New Deal per uscire dalla Grande Depressione. Negli anni ’10 del nostro secolo, quale sarà la risposta degli Usa alla Grande Recessione iniziata nel 2008? La risposta a questa domanda, attesa da tutto il mondo, servirà a comprendere sul quali strade si incamminerà la resa dei conti ormai imminente fra i grandi creditori e i grandi debitori, appartenendo gi Usa a quest’ultimi.
Finora l’unica voce che ha parlato chiaro è stata quella della Fed, che ha quadruplicato il suo bilancio comprando titoli pubblici Usa e obbligazioni basate su mutui immobiliari per abbassare il tasso di interesse, da un lato, e tornare a dare ossigeno al mercato della finanza immobiliare, che poi è stato quello che ha provocato la crisi, dall’altro. Il governo, di suo, ha contribuito mettendo sul piatto una quantità inusitata di fondi per salvare le banche e il sistema finanziario, oltre ad offrire una generosa garanzia pubblica su parte sostanziosa dei mutui concessi e poi sostanzialmente ha lasciato alla Fed il compito di riparare i danni. La speranza era che l’economia, drogata dal credito facile, si rimettesse in piedi da sola.
Sei anni dopo, tuttavia, il risultato è peggio che deludente: è non conclusivo. Inconcludente. Gli Stati Uniti, e con loro l’Occidente, si trovano davanti a un bivio e si mostrano ancora indecisi sulla strada da prendere, dove l’alternativa è fra una sostanziale correzione, inevitabilmente deflazionaria, e il proseguimento di politiche, innanziatutti fiscali, non più sostenibili.
La ripresa americana si sostanzia in un aumento dei valori di borsa e in una ripresa dei corsi immobiliari, che hanno abbassato il livello dei debito delle famiglie, mentre in compenso è aumentato del doppio quello degli studenti, ormai arrivato a oltre 1,3 trilioni di dollari. Il mercato del lavoro mostra un tasso di disoccupazione di poco più del 6% a fronte però di un tasso di partecipazione ai minimi storici, intorno al 62%. Il deficit di conto corrente è migliorato, ma la posizione netta degli investimenti è peggiorata, passando da un -23,8% nel 2012 a un -28,7 stimato per quest’anno fino a un -32,8% del Pil previsto per il 2019. In pratica il dollaro sta in piedi solo perché è moneta di riserva, tanto è vero che nella stime del Fmi, che agli Usa ha dedicato uno staff report a luglio, la moneta americana appare sopravvalutata nell’ordine di un 8%.
Ma quel che è peggio, è che la ripresa, quella vera, non arriva. Il Pil cresce, ma non quanto servirebbe. Quest’anno, stima il Fmi, dovrebbe attestarsi nell’ordine dell’1,7% dopo il tremendo inizio d’anno, quando la crescita fu negativa per il 2,1%, poi compensato dalla stima preliminare del secondo (+4,2%). E quel che è ancora peggio le condizioni generali del gigante americano esibiscono diverse fragilità: di natura infrastrutturale, demografica, industriale, con la produttività del lavoro ancora in declino, e, soprattutto, sociale. I poveri sono più di 50 milioni. E poi c’è la Fed, che prima o poi dovrà finirla di tenere i tassi a zero.
Quale sarà, perciò, la risposta della politica Usa, finora balbettante, di fronte alla Grande Recessione?
Il Fmi non risparmia il solito peana sulle riforme strutturali, di cui pure gli Usa abbisognano. Ma leggendo l’analisi del Fmi emerge una questione ormai ineludibile: gli Usa dovranno fare i conti con l’eredità del New Deal roosveltiano, che ancora oggi, lo abbiamo visto più volte, è alla base del sistema americano, e dovranno scegliere cosa farne. Che poi significa come finanziarlo.
Uno dei campi privilegiati per l’osservazione delle tendenza politiche americane è senza dubbio la Social security, ossia il complesso costrutto di norme previdenziali, che Roosvelt approvò con una legge omonima nel 1935 fornendo all’America, che prima non l’aveva, un sistema di welfare sul modello di quello tedesco di Bismarck e inglese di Loyd George.
Ebbene, la social security americana è uno dei punti dolenti dell’analisi del Fmi, e non certo a caso. Nel rapporto 2013 dell’organo di gestione si legge che le riserve dei fondi fiduciari che alimentano le risorse della social security inizieranno a declinare dal 2021 arrivando ad azzerarsi per il 2033. A quel punto le risorse in entrata saranno sufficienti a pagare solo il 77% dei benefit erogati dall’ente.
Per chi non lo sapesse, la Social security amministra sostanzialmente due gestioni, la Old-Age survivors insurance (OASI) e la Disability Insurance (DI), ognuna delle quali fa riferimento a un trust fund, un po’ come succede nelle gestioni del nostro Inps. Il dato estrapolato dal Fmi fa riferimento all’Old-age, survivors and disability insurance (OASDI), cioé al combinato delle due gestioni.
Se le guardiamo separatamente, il dato è ancora più drammatico. Il trust fund dedicato alla Disability insurance, infatti, sarebbe a rischio esaurimento già dal 2016. “Affrontare l’esaurimento previsto dei trust fund del Social Security richiederà prime e fondamentali riforme”, avvisa il Fmi. Fra queste vengono suggerite un innalzamento graduale dell’età di pensionamento, la modifica della progressività dei benefici, un aumento della soglia tassabile ai fini della social security, per aumentare la platea di chi versa i contributi, al momento l’aliquota è al 12,4% pagata a metà dai lavoratori e dai datori di lavoro, fino ad arrivare a una diversa indicizzazione dei benefit, sganciandola dalla definizione classica di inflazione (CPI) e agganciandola a quella, assai controversa, di chained CPI, ossia un nuovo indice che, di fatto, abbassa il valore dell’inflazione e quindi quello dell’indicizzazione.
Come si vede, la strada suggerita porta comunque a un calo di benefici per gli assicurati. E proprio questo è il punto. Gli Usa dovranno scegliere, per sostenere la propria previdenza, di favorire il processo di Grande Redistribuzione che sembra essere diventato la panacea dei mali della nostra economia. O sennò condurre una politica fiscalmente irresponsabile, con tutte le conseguenze che ciò può avere a livello globale.
Che urgano decisioni si capisce leggendo anche la versione aggiornata del documento del Fmi, che il board della Social Security ha rilasciato alla fine del luglio scorso. Leggerlo è anche utile per avere un’idea di quanto sia sfidante il contesto nel quale si trova ad operare il welfare targato Usa.
E di conseguenza il nostro
(1/segue)
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Il lavoro flessibile? Frena l’occupazione
Nell’epoca dei luoghi comuni, vale la pena appassionarsi ad analisi come quella che ha pubblicato il Nber che si propone di rispondere a una domanda annosa quanto controversa: il lavoro flessibile di tipo americano fa davvero crescere il mercato del lavoro?
Il paper (Failing the Test? The Flexible U.S. Job Market in the Great Recession) firmato da Richard B.Freeman prende in esame il periodo della grande recessione provocata dalla crisi iniziata nel 2007, ed è concentrata sul mercato del lavoro americano, che certo non può essere sospettato di rigidità.
“La grande recessione – scrive – ha testato l’abilità della grande ‘macchina americana del lavoro’ a limitare la severità della disoccupazione nelle maggiori economie e a recuperare la piena occupazione”. Ma purtroppo, “nella crisi il mercato americano del lavoro ha deluso le aspettative”.
Il livello e la durata della disoccupazione, infatti, “sono aumentati sensibilmente durante la crisi e la crescita dei posti di lavoro è stata lenta e anemica nel momento della ripresa”.
Vi ricorda qualcosa?
La conclusione è alquanto impietosa: “La performance americana nella grande recessione contraddice l’opinione convenzionale della virtù della flessibilità rispetto all’approccio istituzionale per l’aggiustamento del mercato del lavoro e contraddice anche la nozione che istituzioni del lavoro deboli e una maggiore flessibilità del mercato offrano la strada migliore per il successo economico in una moderna economia capitalista”.
Potremmo concludere qui, ma vale la pena leggere la trentina di pagine dello studio perché scopriamo altre chicche utili a sviluppare la nostra capacità di comprensione di questi fenomeni.
Prima della grande recessione, gli economisti e i politici americani magnificavano la “US jobs machine”, ossia la macchina fabbrica-lavoro americana, come il segno più evidente della capacità di un mercato del lavoro flessibile a creare occupazione. Punti di forza di questa “macchina” erano (e sono) la facilità di licenziamento, la flessibilità delle retribuzioni e la mobilità dei lavoratori, che possono muoversi facilmente da un lavoro all’altro senza particolari problemi.
Questo almeno dice la vulgata.
Vulgata peraltro fondata empiricamente sul grande incremento di occupazione che l’economia americana ha visto fra il 1980 e il 1990, quando i tassi di disoccupazione Usa surclassarono quelli di altri paesi occidentali. “Poiché i lavoratori americani lavorano più ore e prendono meno vacanze, il gap fra gli Usa e le altre economie avanzate divenne sempre più grande relativamente al numero di ore lavorate”.
La famosa produttività crescente.
Qualcuno si accorse che tale miracolo portava con sé un crescente tasso di ineguaglianza, tassi di povertà stagnanti e decadenza delle rappresentanze sindacali, senza contare gli effetti che tali politiche avevano sul welfare (pensioni e sanità).
Ma che volete che sia.
Di fronte all’imperio dei numeri positivi gli economisti celebrarono il modello americano indicandolo come la strada maestra per i paesi europei che da quel momento in poi furono invitati a “riformare il mercato del lavoro”.
Il Fmi profetizzò, nel 2003, che tali riforme avrebbero potuto condurre a un guadagno di prodotto del 5% e a un calo di disoccupazione del 3%. “Tali benefici. aggiunse – possono anche raddoppiare se si verificano sforzi simultanei per aumentare la competitività nel mercato dei prodotti”.
Più o meno quello che si dice oggi.
Senonché, intanto, l’America, spinta dalla crisi, ha iniziato a mettere in discussione l’ennesimo dogma della flessibilità/mobilità.
La visione del miracolo del mercato del lavoro americano è stata messa in discussione da diverso tempo negli Usa.
Una ricerca svolta dall’autore su Google sulla key “great american jobs machine” mostra risultati tipo: “Chi ha rotto la macchina amerciana crea-lavoro?”, oppure “Finalmente si è rotta la grande macchina americana crea-lavoro?”, mentre a gennaio 2013 l’American economic association apriva una sessione sul tema domandandosi “Cos’è successo al miracolo dell’occupazione americana?”.
Per contrasto, nota malignamente l’autore, se si fa una ricerca su Google col termine “mercato del lavoro tedesco e grande recessione”, vengono fuori titoli come “Cosa spiega il miracolo del mercato del lavoro tedesco?”, oppure “Un altro miracolo economico: il mercato del lavoro tedesco durante la grande recessione”.
Prima di rispondere a queste domande, vale la pena evidenziare alcuni dati.
La perdita di occupazione sofferta dagli Usa fra il 2007 e il 2009 è stata la peggiore registrata dal dopoguerra in poi. La perdita di posti di lavoro è arrivata al 6,3%, un’enormità paragonata al range 1,2-5,2% (media 3%) di perdita di posti di lavoro sofferta dall’economia Usa negli ultimi sessant’anni.
Ad aggravare la situazione, la circostanza che quattro anni dopo il 2009 la recessione è ufficialmente terminata, ma “l’occupazione rimane sotto il suo livello di picco e sembra improbabile che recuperi tale livello prima di tre-quattro anni”. In pratica, si è allungato anche il tempo necessario al mercato del lavoro a riprendersi.
Nel 1981 bastarono due trimestri per vedere gli effetti positivi sul lavoro dalla fine della recessione.
Dopo la recessione del 1990 ce ne vollero quattro.
Nel 2001, addirittura, malgrado una crisi molto breve, la perdita di posti di lavoro proseguì anche nei trimestri positivi.
Quello che emerge, quindi è un indebolimento del legame fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione.
Lo confermano anche i dati dell’ultima crisi. Dalla fine della recessione a fine 2012 il Pil americano è cresciuto del 7,5%. L’occupazione di uno striminzito 1,2%.
Ce n’è abbastanza per dubitare del “miracolo” americano.
Che peraltro tale miracolo non sia poi così miracolo lo dimostra anche uno sguardo sulla storia.
Dopo la crisi del ’29, l’occupazione crollò fino al 1933 e non recuperò il suo livello pre-crisi prima del 1940 (mentre infuriava la guerra in Europa). E tuttavia, a fronte di un calo del Pil reale del 31%, fra il 1929-33, l’occupazione cadde “solo” del 18%. In pratica il contrario di quanto è accaduto ai giorni nostri.
Per il lavoro la crisi attuale è stata peggiore di quella degli anni ’30.
Lo dimostra anche come andarono le cose dal ’33 in poi. Il Pil reale crebbe del 44%, l’occupazione del 21%, un rapporto di elasticità pari a 0,48, che è il triplo di quello registrato ai giorni nostri (0,16).
Da cosa dipende questo cambiamento “storico”?
L’autore nota che, a differenza della grande depressione degli anni ’30, la grande recessione del XXI secolo si è basata escluviamente su stimoli macroeconomici, il salvataggio delle grandi banche e la politica monetaria della FEd, mentre altri paesi Ocse hanno aggiunto a queste politiche altre politiche capaci di incoraggiare le imprese a mantenere l’occupazione malgrado il calo di prodotto.
Il confronto con la Germania, ad esempio, mostra che nell’ultimo trimestre del 2010 sia la Germania che gli Usa avevano raggiunto il livello di Pil pre-crisi, ma mentre il mercato del lavoro americano era ancora sotto del 5,9% rispetto a prima, quello tedesco era aumentato dell’1,6%. Persino il Giappone è andato meglio.
Perché?
Secondo l’autore quello che ha funzionato di più è stato il modello tedesco basato sulla contrattazione sindacale, la flessibilità interna e la valorizzazione del lavoro suportata dall’intervento pubblico.
Al contrario ha fallito l”US-style”.
L’autore esamina una serie di questioni legate al modello di sviluppo americano, compresa la relazione fra salari e produttività, nell’ipotesi che le due variabili si siano sfasate (come si dice per gran parte dell’Europa). Senonché i dati mostrano che il mercato americano “è stato flessibile, sul lato dei salari”.
Allora forse c’è una terza questione, scrive, Vale a dire che responsabilità vadano cercate nella politica del licenziamento facile, riassumibile col detto “prima licenzia, poi chiedi”.
Forse – spiega – la facilità di licenziamento ha spinto i manager a focalizzare l’attenzione più sui loro bonus e sui profitti a breve, piuttosto che sulla ripresa. “Forse – aggiunge – tale lentezza nella ripresa del mercato del lavoro riflette la debolezza dei sindacati e la scarsa volontà del governo di fare politiche per l’impiego”.
Insomma: è il contesto che è diventato avverso al lavoro, malgrado i denari non manchino.
Il lavoro flessibile, conclude, può funzionare in un contesto in situazione di equilibrio, ma un contesto più istituzionalizzato (leggi meno affidato a pure logiche di mercato) può funzionare meglio in caso di crisi profonde.
E se lo dice lo zio Sam…
