Etichettato: investitori istituzionali

Il Rischiatutto del signor Rossi

Per amore o per forza, il signor Rossi, perfetta epitome dell’italiano medio, è diventato un amante del rischio finanziario, o quantomeno un suo avveduto seguace.

Più per forza che per amore, probabilmente, visto che l’italiano medio ancora rimpiange i bei tempi andati con i Cct al 10 per cento e non tanto per i bei tempi andati, che anzi stigmatizza, ma per il 10%, che gli è rimasto in testa come un pensiero maligno che gli divora il cuore, peraltro monco del contrappeso che quel 10% portava con sé, ossia inflazione e rischio.

Sia come sia, il nostro signor Rossi nel 2014 ha fatto crescere di 110 miliardi la montagna di denaro raccolta dai cosiddetti investitori istituzionali, contribuendo così a superare per crescita di raccolta i mercati degli altri principali paesi, che però, a differenza del nostro, hanno una quota di risparmio gestito assai più imponente.

Per dire, come si mostra un grafico elaborato da Bankitalia, in Italia siamo a meno del 30% di risparmio gestito sul totale degli attivi finanziari, a fronte di una media euro del 40% cui si oppone l’oltre 60% del Regno Unito.

Ciò non vuol dire che i nostri investitori istituzionali siano delle mammolette. Se guardiamo al totale degli attivi che gestiscono, scopriamo che sono seduti su una montagna di denaro che sfiora il 1.250 miliardi, il 15,2% dei quali nei fondi comuni, il 35% in assicurazioni, un piccolo 5% in fondi pensione e un robusto 44,8% in gestioni patrimoniali, ossia laddove i benestanti conferiscono i propri attivi sperando di spuntarci di più, sempre al costo (e non dovremmo dimenticarlo mai) di un maggior rischio.

Nel 2014, anno in cui la raccolta del risparmio gestito è tornata agli altari della cronaca, gli intermediari hanno doppiato il risultato dell’anno precedente, recuperando il calo complessivo registrato fra il 2006 e il 2012, che Bankitalia quota 265 miliardi. “Per ritrovare flussi di analoghe dimensioni – scrive via Nazionale nella sua relazione – occorre risalire alla fine degli anni novanta, quando il settore ha registrato il suo primo significativo sviluppo”.

Sulle ragioni di tale impennata ci sono pochi dubbi: “La prolungata fase di bassi tassi di interesse ha indotto le famiglie a spostare parte delle proprie attività finanziarie verso i prodotti del risparmio gestito. Le banche, a
fronte di esigenze di finanziamento contenute e per sostenere i ricavi da commissioni, hanno favorito questa ricomposizione del risparmio: il 62 per cento dei premi assicurativi del ramo vita e oltre l’80 per cento delle risorse affluite ai fondi comuni sono stati raccolti attraverso gli sportelli bancari e postali (rispettivamente, il 60 e il 70 per cento nel 2013)”.

Il Qe, insomma, ha svolto uno dei suoi principali esiti sul risparmio italiano, favorendo la ricomposizione dei portafogli verso i titoli più rischiosi e incoraggiando la fame di rendimento che ormai connota i mercati internazionali.

Tanto è vero che non solo “la raccolta è stata cospicua in tutti i principali comparti”, ma addirittura “i risparmiatori hanno acquistato prevalentemente quote di fondi specializzati in titoli a medio e a lungo termine, preferendoli a prodotti meno rischiosi ma con rendimenti attesi inferiori”. Ciò malgrado “la parte preponderante della raccolta sia ancora concentrata sui prodotti tradizionali che offrono rendimenti minimi garantiti”.

La conseguenza è stata che “la quota del risparmio gestito sul totale delle attività finanziarie delle famiglie
ha raggiunto il 26 per cento; dal 2008, anno in cui ha toccato il minimo storico, è aumentata di nove punti percentuali, di cui otto dovuti, in pari misura, alla crescita della raccolta di fondi comuni e assicurazioni”.

Al nostro signor Rossi, che ormai ha imparato a giocare al rischiatutto, gioverà forse sapere come questi investitori istituzionali gestiscano i suoi soldi, visto che da ciò dipendono le sue fortune.

A tal proposito Bankitalia osserva che “la quota di portafoglio investita in attività finanziarie del proprio paese è
elevata”, e che “in Italia, a causa del basso numero di imprese quotate e più in generale della scarsa
articolazione del mercato dei capitali privati, gli investimenti in attività nazionali si concentrano soprattutto nel settore pubblico: i titoli di Stato rappresentano circa il 35 per cento delle attività degli investitori istituzionali italiani, mentre costituiscono meno del 10 per cento del portafoglio degli investitori dell’area”.

Al contrario “il finanziamento diretto al settore privato, sotto forma di azioni, obbligazioni e prestiti, è invece relativamente contenuto: la quota di questi strumenti sulle attività finanziarie è pari al 19 per cento in Italia, contro il 25 nel complesso dell’area”.

Gira e rigira, insomma, in un modo o nell’altro, i soldi degli italiani tornano in gran parte da dov’erano venuti: al bilancio dello Stato sotto forma di prestiti intermediati.

Gli amanti dei vecchi tempi dovrebbero essere contenti.

La fusione fredda delle borse cinesi dà una spinta allo Yuan

Zitte zitte quatte quatte, le borse di Hong Kong e di Shanghai sono diventate pressoché un tutt’uno, anche se rimangono assolutamente due. Con meravigliosa cineseria, i regolatori hanno creato le condizioni affinché fra i due mercati si originino e si sviluppino quei flussi di movimenti di capitali, rigorosamente espressi in renmimbi, che segnano il primo passo concreto della Cina verso la liberalizzazione del conto capitale, che così tante gioie promette ai mercanti di capitale di tutto il mondo.

L’innovazione, alla quale la Bis dedica un approfondimento nella sua ultima quaterly review, merita di essere raccontata perché segna un profondo cambiamento dei mercati finanziari cinesi, e, soprattutto, li rende assai più permeabili al capitale straniero.

La storia comincia il 10 aprile scorso, quando la China securities regulatory commission (CSRC) e la Securities and futures commission (SFC) di Hong Kong hanno annunciato la creazione dello Shanghai-Hong Kong Stock Connect, un programma pilota che si propone di rendere accessibili reciprocamente i mercati di borsa della Cina continentale con quello di Hong Kong. L’accordo è stato perfezionato il 17 ottobre, quando i due regolatori hanno firmato il protocollo d’intesa che ha condotto, il 17 novembre, al lancio ufficiale dello Stock connect.

Questo programma di collegamento, chiamato icasticamente “treno diretto”, consentirà la negoziazione di azioni fra le due borse. Il collegamento funziona da nord verso sud, quindi da Shanghai a Hong Kong e viceversa, però con diverse modalità.

Nel collegamento verso sud, gli investitori della Cina continentale possono negoziare fino a 266 azioni ammesse quotate a Hong Kong, fino a un contingente giornaliero di 10,5 miliardi di RMB di acquisti (netti) e a un contingente aggregato di RMB 250 miliardi. Le azioni ammesse alle contrattazioni rappresentano l’82% della capitalizzazione di borsa del SEHK.

Nel “collegamento verso nord”, quindi da Hong Kong a Shanghai, gli investitori internazionali possono negoziare fino a 568 azioni ammesse quotate a Shanghai, fino al raggiungimento di un contingente giornaliero di 13 miliardi RMB di acquisti (netti) e un contingente aggregato di RMB 300 miliardi. Le azioni ammesse alle contrattazioni rappresentano il 90% della capitalizzazione di borsa dell’SSE. I contingenti si applicano ai soli ordini di acquisto, mentre gli ordini di vendita sono sempre consentiti. Sono possibili adeguamenti delle quote in futuro.

L’intensa collaborazione fra le due autorità di regolazione è servita anche a creare un regime fiscale armonizzato per il trattamento delle plusvalenze che, nel caso degli investitori che vanno verso nord, saranno esenti dal prelievo per un periodo non specificato e per tre anni per gli investitori che vanno verso sud.

“Stock Connect rappresenta potenzialmente una pietra miliare nel processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale da parte della Cina”, commenta la Bis. Ed è facile capire perché.

Lo Stock connect “ha la settima maggiore capitalizzazione di borsa al mondo, pari a $2 960 miliardi a fine ottobre 2014, eppure rimane un mercato relativamente chiuso”.

Prima di Stock Connect, infatti, gli investitori istituzionali esteri potevano accedere alla Cina soltanto tramite i programmi Qualified Foreign Institutional Investor (QFII) e RMB QFII (RQFII) sulla base di protocolli di intesa tra il loro paese e la Cina. Programmi assai rigidi sottoposti all’approvazione delle autorità di regolamentazione e a rigidi contingenti di negoziazione concessi su base individuale. Stock Connect invece “rappresenta un’importante integrazione rispetto ai programmi esistenti e comporta un’apertura senza precedenti dei mercati dei capitali cinesi”.

Il programma, infatti, “allenta le restrizioni sui flussi di capitali in entrambe le direzioni”.  Le contrattazioni verso nord sono aperte a tutti gli investitori, quelle verso sud agli investitori istituzionali e agli investitori privati con titoli e disponibilità liquide di almeno 500mila RMB della Cina continentale. Le negoziazioni verso nord saranno quotate in renminbi, ma regolate in renminbi offshore, mentre quelle verso sud saranno quotate in dollari di Hong Kong ma regolate in renminbi onshore. La negoziazione e il regolamento in renminbi incentiveranno un maggiore utilizzo di questa valuta, che perciò sarà la prima a giovarsi dell’internazionalizzazione del mercato azionario che, pur non essendo formalmente integrato, lo è sostanzialmente.

Inoltre la People’s Bank of China ha deciso di abolire, con decorrenza il 17 novembre, il massimale giornaliero di 20mila RMB a persona applicato alle operazioni di cambio valuta effettuate da residenti di Hong Kong. “Tale scelta dovrebbe facilitare la partecipazione di questi ultimi e incoraggiare le istituzioni finanziarie locali a offrire più prodotti di investimento in renminbi”. Il trasferimento di renminbi verso
conti bancari onshore rimane tuttavia soggetto al massimale giornaliero di 80mila RMB a persona, contenendo il probabile impatto sui flussi di capitali tra i due territori.

La Bis ha osservato le reazioni del mercato all’innovazione, che sono state entusiastiche il primo giorno per poi calare, i flussi di scambi, intorno al 25% del contingente previsto. Forse perché, ipotizza la Bis, gli investitori non hanno ancora dimestichezza col nuovo sistema e permangono alcune incertezze in maniera di tutela degli investitori.

Ma aldilà degli esiti più recenti, è evidente che la rotta è segnata. “Nella sua forma attuale – concude la Bis – Stock connect – si applica solo alle azioni scambiate sulle due borse, ma in linea di principio i contingenti di negoziazione potrebbero essere ampliati e il programma
esteso ad altre borse, nonché ad altri strumenti e classi di attività. Stock Connect potrebbe in ultima istanza favorire la convergenza delle regole di mercato e degli standard contabili e di informativa tra SEHK e borse della Cina continentale. Esso dovrebbe inoltre rendere più trasparente il mercato continentale e migliorare il governo societario delle imprese cinesi”.

Piccoli (grandi) mercanti di capitale crescono.