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Contro Malthus: se saremo tanti vuol dire che saremo tanto
Parlare di cose demografiche ci espone a un costante rischio di fallacia. La tematica, complessa e in larga parte congetturale, poco si addice alla scarsa pazienza e capacità di attenzione della nostra società istantanea. Quindi è garanzia di sicuri fraintendi- menti, nonché carburante ideale per le tante distopie che popolano la nostra immagi- nazione. Discorrere di demografia, infatti, è uno dei modi che abbiamo trovato per alimentare le ansie del nostro tempo, dandogli persino un fondamento scientifico. L’andamento della popolazione, in particolare, è divenuto un ingrediente di quella curiosa forma di distopia che Zygmunt Bauman ha battezzato, nel saggio omonimo, “retrotopia”.
Come si manifesta la retrotopia in demografia? Con la paura della sovrappopolazione. Siamo troppi; quindi stavamo meglio quando eravamo meno. Ossia in passato. Chi non l’ha mai pensato, scagli la prima pietra. Questa paura mescola il declino delle nascite nell’Occidente, ormai senescente, con l’esuberanza proletaria africana. Un mix micidiale che, opportunamente agitato da sapienti scienziati dell’infelicità, genera il cocktail perfetto dei nostri aperitivi: la crisi ambientale.
Siamo sempre più numerosi, il che significa sempre più bocche da sfamare o, che è lo stesso, più merci da produrre. Se preferite, consumiamo troppo perché siamo troppi. In aggiunta, la parte più ricca della popolazione mondiale dissipa le risorse ambientali e minaccia gli ecosistemi con i suoi SUV. Tanti poveri consumatori insieme a pochi consumatori ricchi – i super-consumatori – ci condurranno fatalmente alla fine dei tempi.
La retrotopia genera perciò una sorta di parusia, nella quale la previsione ambientalista, sottoprodotto dell’era scientifica, gioca il ruolo che ebbe, nell’era cristiana, la profezia religiosa. Scienza e religione tendono sempre più a somigliarsi ai giorni nostri, come hanno notato gli osservatori più acuti1.
Alla fine dei tempi, però, non ci aspetta il regno dei cieli. La promessa della triste novella pseudo-ambientalista è quella di un regno della terra finalmente liberato dal suo peccato originale. Ossia l’uomo.
Sviluppare una visione alternativa, tuttavia, è possibile. Basta capovolgere il punto di vista. Invece di convincerci che siamo troppi e quindi che consumiamo troppo, iniziamo a pensare e dire che se siamo tanti, vuol dire che siamo tanto.
Significa che siamo in grado di fare molto più di quello che faremmo se fossimo meno. Significa che a una quantità crescente della popolazione corrisponde una qualità crescente dell’umanità. Non siamo come topi, che si moltiplicano rimanendo topi.
Aumentando di numero, abbiamo costantemente accresciuto anche la nostra capacità di stare al mondo. Quella dell’uomo è una storia di espansione: non solo del consumo e della distruzione, ma anche della produzione e della creazione.
Il fatto che compiamo questo miracolo rischiando costantemente il disastro o addirittura l’estinzione, è l’aspetto poetico – e tragico – del nostro procedere. Ci siamo evoluti correndo sempre rischi mortali. Abbiamo appreso la posizione eretta, a rischio di cadere; imparato a usare il fuoco, a rischio di bruciarci; sviluppato il linguaggio, al rischio di continui fraintendimenti. Ci siamo moltiplicati, migliorandoci, perché non abbiamo mai smesso di provarci. Abbiamo sempre subìto l’attrazione del progresso.
Se guardiamo alla crescita della popolazione adottando questo punto di vista, comprendiamo subito che se fossimo la metà di quelli che siamo perderemmo un patrimonio di intelligenza e creatività. E non vale neanche l’argomento secondo cui sono le popolazioni più disagiate quelle più prolifiche, basato del resto sulla convinzione che siano le più problematiche. Questo per la semplice ragione che non sappiamo in quale parte del mondo si accenderà la prossima scintilla capace di illuminare il futuro. Prima dell’anno mille nessuno avrebbe scommesso sulla fredda e miserabile Europa. Ciò per dire che il futuro non è un cassetto chiuso del quale dobbiamo indovinare il contenuto, magari con l’aiuto di un qualche algoritmo: è un cassetto aperto che attende di essere riempito col frutto delle nostre scelte.
Per compiere scelte consapevoli, però, dobbiamo avere una visione chiara del presente. Oggi abitiamo in un mondo popolato da circa otto miliardi di persone che nel 2022 ha generato oltre 100.000 miliardi di dollari di prodotto interno lordo, ed esprime un volume di passività, ossia debiti pubblici e privati, che vale circa il doppio. A questa cifra corrisponde – cosa che tendiamo a dimenticare – un volume analogo di attività, ossia di ricchezza.
Questa montagna vale quindi oltre 200.000 miliardi, ma non è ovviamente distribuita in modo uniforme fra diverse zone economiche e neanche all’interno delle stesse zone economiche. Per dare un’idea molto generale: gli attivi sono il triplo del PIL nei paesi avanzati e circa la metà in quelli emergenti. Ciò implica che i paesi avanzati abbiano ampie riserve di ricchezza e siano capaci di investire enormi risorse nel futuro che scelgono di costruire, generandone molte altre.
È anche giusto ricordare che “l’incidenza globale delle persone in condizioni di malnutrizione si è ridotta dal 34 al 13% nell’ultimo mezzo secolo”5 e che oltre un miliardo di persone è uscito da condizioni di povertà assoluta fra il 1990 e il 2015. La durata della vita è cresciuta costantemente, associandosi a una crescita della popola- zione che molto le è debitrice. La popolazione, infatti, non aumenta solo perché nasco- no tanti bambini, ma anche perché ne muoiono di meno. Si muore di meno in generale: la vita infatti dura in media di più.
Tutto questo è accaduto mentre la popolazione raddoppiava, non mentre si dimezzava. Quale altra prova della nostra capacità di creare prosperità dovremmo ricercare?
Di fronte a questi fatti si obietta di solito che questa straordinaria crescita è squilibrata, diseguale e conduce a esiti esiziali per la salute dell’ambiente e quindi, in definitiva, per il futuro di tutti noi. A sostegno di questa tesi vengono addotti svariati argomenti, forniti da una legione di scienziati. Sono tutte uguali, queste analisi. Hanno in comune la caratteristica di sottolineare i problemi – che ci sono – e non le opportunità, che sono altresì evidenti. I nostri debiti, ad esempio, non i crediti. Il consumo di risorse, non la loro produzione. La diseguaglianza, non il calo della povertà.
Nel rapporto dell’iniziativa Earth4All, si osserva che allo scenario sull’andamento della popolazione (Prospettive ONU), peraltro costantemente rivisto al ribasso, se ne affiancano altri, elaborati a valle di alcune ipotesi, che possono spingere la popolazione a diminuire fino a circa 6 miliardi nel 2100 dal picco di 10 miliardi ipotizzato più o meno a metà di questo secolo. Uno scenario è definito “Balzo da gigante”, con tono vagamente compiaciuto. E un altro si chiama “Troppo poco troppo tardi”.
Per compiere questi “passi da gigante” sarebbero necessari “investimenti senza precedenti nella riduzione della povertà, in particolare nell’istruzione e nella sanità, insieme a straordinari cambiamenti politici in materia di sicurezza alimentare ed energetica, disuguaglianza ed equità di genere. In questo scenario la povertà estrema viene eliminata in una generazione (entro il 2060)con un forte impatto sui trend della popolazione mondiale”. Nel senso, appunto, che diminuisce a “passo da gigante”.
Più avanti si legge che “contrariamente ai miti popolari, il team ha scoperto che la dimensione della popolazione non è il motore principale di eventi come il cambiamento climatico. Piuttosto, sono i livelli estremamente elevati di impatto ambientale del 10% più ricco del mondo a destabilizzare il pianeta”. Lo stesso 10% che “dovrebbe possedere meno del 40% dei redditi nazionali”. Insomma: i ricchi fanno male al pianeta, quindi sarebbe cosa buona e giusta renderli meno ricchi, usando la tassazione. Corollario del teorema: il mondo sarebbe un posto migliore se fossimo pochi (non troppo ricchi) ma buoni. Vivremmo felici e contenti.
Queste fantasie trascurano la circostanza che non esiste una manopola della prosperità attraverso la quale se ne possano regolare i livelli: la ricchezza è un processo sociale e culturale che richiede secoli e un ambiente idoneo per attivarsi e consolidarsi. Gli apprendisti stregoni vorrebbero stabilire, chissà come poi, un livello “giusto” e fermarsi. Sognano lo stato stazionario ipotizzato dagli economisti ottocenteschi. Ma se si interferisce nel modo sbagliato e si spegne il meccanismo della crescita – la storia è testimone di molti di questi esperimenti – possiamo solo planare verso il basso e l’unico limite in basso è la miseria.
Si potrebbe ragionare a lungo sul fondamento di queste analisi, ma è più interessante osservare come diano voce a un sentimento molto diffuso nel nostro presente. Un altro esempio: nell’edizione 2022 di Geodemografia, rivista redatta da esperti demografi, uno degli articoli è titolato “Otto miliardi sull’Arca di Noè e altri due attendono di salirci”. L’umanità, insomma, è stretta dentro un vascello che naviga lungo il disastro e ha la prospettiva di stare ancora peggio, visto che altri naviganti dovranno salire a bordo. Due miliardi di persone, addirittura, “il cui impatto sulle forze che determinano la produzione di gas serra e il riscaldamento globale sarà, indubbiamente, assai forte”. Indubbiamente.
Più avanti l’autore scrive che, se la natalità delle donne dell’Africa subsahariana diminuisse prima del previsto dagli attuali 4,5 figli a 2, “la popolazione della regione si alleggerirebbe di parecchie centinaia di milioni di persone prima della fine del secolo, con vantaggi sociali, economici e ambientali indiscutibili”. Indiscutibili.
“Non essere nato”, d’altronde, era la risposta, indubbia e indiscutibile anch’essa, di Sileno, mentore di Dioniso, alla celebre domanda del re Mida su cosa fosse la cosa più desiderabile per l’uomo. Pensiero antico, dunque, che troviamo anche nell’Edipo a Colono di Sofocle. Di Sileno raccontò pure Nietzsche, scrivendo della Nascita della tragedia, ultimo di una lunghissima tradizione, religiosa e filosofica, che ancora ai giorni nostri vanta pallidi emuli.
Ciò per dire che forse la nostra ansia10 demografica ha ragioni e radici assai più profonde del nostro affettato buon senso ambientalista, che traveste di scientismo un’angoscia antica, di cui abbiamo dimenticato il nome, che evidentemente covava sotto le ceneri del progresso.
Ed ecco perché cercare demographic bomb su un motore di ricerca produce oltre 11 milioni di risultati, pieni di titoli spaventosi. Si dirà che dipende dalla chiave di ricerca. Ma se ne facciamo un’altra, usando demography and climate change, ad esempio, le voci sono addirittura oltre i 16 milioni. E l’ansia primeggia. “La popolazione ha accelerato in modo straordinario la sua crescita e aumentato la sua voracità di risorse, e gli effetti negativi sull’ambiente sono diventati percepibili”, leggiamo ancora su Geodemografia.
Non si tratta solo dell’ambiente. L’invecchiamento della popolazione, una delle cause del suo aumento, è in cima alle preoccupazioni dei governi di tutto il mondo per le straordinarie ricadute macroeconomiche e sociali – si pensi al costo del welfare, ma anche agli andamenti della crescita potenziale in un mondo dove la popolazione in età lavorativa declina – per tacere di quelle politiche. Che tipo di società può essere quella dove vive una maggioranza relativa di ultrasessantacinquenni? Quali bisogni esprime? E, soprattutto, quali sogni?
Come dato di fatto può essere utile ricordare, con la Banca mondiale, che “a livello globale il numero di over 65 è già maggiore del numero dei bambini sotto i cinque anni. Entro il 2050 sarà il doppio e superiore al numero dei giovani compreso fra i 15 e 24 anni”.
Secondo le stime ONU12, i 605 milioni di over 60 nel mondo all’anno 2000, sempre nel 2050, saranno due miliardi. Per quello stesso anno Istat stima che in Italia ci sarà un lavoratore per ogni pensionato, mentre secondo la Banca mondiale, in tutti i paesi OCSE ci saranno meno di due lavoratori per ogni pensionato. Di fatto, significa la fine del sistema pensionistico, a meno di non mettere a carico della fiscalità generale enormi quantità di risorse per compensare il calo dei contributi che sostengono un sistema a ripartizione. Da qui al pensiero che saremo troppi, e per giunta molto anziani, con tutte le complicazioni che ciò comporta, il passo è brevissimo.
Questo pensiero viene costantemente alimentato da persone molto qualificate, e altrettanto visibili nel dibattito pubblico, delle quali è del tutto naturale fidarsi. Così l’opinione di pochi diventa una credenza di molti, che è difficile contrastare perché è raro trovare qualcuno che sostenga il pensiero contrario. Ciò malgrado i fatti, a differenza di queste sedicenti previsioni, mostrino chiaramente che abbiamo ragioni più che sufficienti per sostenere la credenza opposta. Ossia che se saremo tanti, vorrà dire che saremo tanto.
La storia racconta infatti, che ci sono voluti 50.000 anni per arrivare a essere un miliardo di persone, durante i quali abbiamo (incidentalmente?) costruito la civiltà. Dal 1960 in poi abbiamo fatto un grande salto. Eravamo 3 miliardi nel 1960, siamo arrivati a 6 miliardi nel 2000. In questi quattro decenni, durante i quali la popolazione è raddoppiata, il reddito pro capite è più che raddoppiato, e l’aspettativa di vita è aumentata in media di 16 anni, con la scuola primaria divenuta praticamente universale.
Adesso l’ONU prevede che la popolazione, entro il 2040, arrivi a 9 miliardi: non più un raddoppio, visto che il tasso di incremento della popolazione ha rallentato, ma comunque una crescita importante. Cosa ci impedisce di pensare che a questa crescita della popolazione non possa corrispondere un incremento altrettanto significativo del reddito, della longevità, della scolarizzazione come accaduto nei quattro decenni precedenti? Strano davvero, semmai, è il fatto che ci siamo convinti del contrario. Ossia che nel futuro ci aspettino solo catastrofi.
Diventa perciò interessante chiedersi perché crediamo quasi ciecamente al peggio, per quanto possa sembrare probabile, anziché volgere lo sguardo verso il meglio, che è altresì possibile. Perché l’attrazione del progresso è diventata repulsione?
Il motivo è lo stesso per il quale guardiamo il debito crescente e ignoriamo il credito equivalente: un vizio dell’immaginazione. Ossia della nostra capacità di immaginare il mondo che, come ci ricorda Pierre Francastel, “è traccia e incontro al tempo stesso di un fenomeno e di una coscienza”.
Ricercare le cause di questo vizio è un esercizio tutto sommato sterile. Forse questa coscienza è una conseguenza della nostra senescenza. D’altronde, non abbiamo esperienze pregresse di società anziane come la nostra. Quindi non sappiamo che tipo di psicologia possa generare. Ma si potrebbero trovare milioni di spiegazioni.
Più utile, invece, osservare una delle conseguenze. Ossia l’emersione di una élite intellettuale che, in larga maggioranza, ha sviluppato ipertroficamente il pessimismo della ragione al contrario dei loro colleghi del XIX secolo, che furono altrettanto esagerati con l’ottimismo della volontà. All’epoca esisteva una vera “religione del progresso”, che ispirò il titolo di uno scritto molto polemico nei confronti della modernità di Tolstoj negli anni Sessanta dell’Ottocento.
Né gli uni né gli altri fanno un buon servizio alla nostra comprensione della realtà. Oggi tendiamo a credere – e sperare persino – nel regresso tanto intensamente quanto all’epoca si credeva nel progresso. Sappiamo come finì la “religione” ottocentesca. Dovremmo diffidare anche della nostra smania regressiva. Le profezie che si autoavverano sono una conseguenza di certe ossessioni.
Peraltro, osservare l’incremento della popolazione, che è ancora in corso, ci comunica l’informazione che il processo di espansione, iniziato dopo l’anno mille in Europa – non a caso associato a una crescita straordinaria della popolazione – non si è mai fermato. Questa è una buona notizia. L’aumento della popolazione, infatti, si è sempre associato a una crescita globale.
Nel XIX secolo, per esempio, il boom demografico europeo fece la fortuna degli Stati Uniti, che con grande lungimiranza e anche un po’ di incoscienza accolsero mi- lioni di europei nullatenenti e disperati – irlandesi, scandinavi, tedeschi e italiani – che li arricchirono di braccia e buone idee. Perché dunque oggi associamo al progres- so demografico un’idea di crisi?
Non solo oggi, in effetti. Nel pensiero economico questa idea era alla base del Saggio sul principio della popolazione di Thomas Malthus, che scriveva agli inizi del XIX secolo, il cui retaggio, spesso frainteso, è ancora molto presente fra gli studiosi d’economia. Di recente, per citare un esempio fra i tanti possibili, è stato pubblicato un libro che già dal titolo (Scarcity) paga pegno a questa visione che minaccia di “rimpicciolire” il mondo e noi stessi.
La tesi di fondo del libro è che gli esseri umani siano “posseduti da desideri infiniti” che spingono la società ad alimentare l’idea di una crescita e di un consumo infiniti, senza tenere conto dei limiti della natura. L’ideologia del progresso economico diffusa da alcuni pensatori dell’Ottocento (quelli che credevano nella “religione” del progresso sociale), secondo gli autori del libro ha stravolto “le tradizioni che cercavano di vivere entro i limiti della natura”. Da qui la necessità di elaborare “modelli sostenibili di pensiero economico per affrontare la crisi climatica”. Di nuovo. Torniamo, insomma, da dove siamo partiti: retrotopia, decrescita felice, sostanziale paura del futuro. Perché?
Porsi questa domanda è più importante che provare a rispondere. E quindi farsi quella successiva: come possiamo riconquistare la fiducia in noi stessi? In fondo avere fiducia nel futuro non vuol dire altro. Di questo abbiamo bisogno, più che di cercare costantemente nuovi pretesti per spiegare la nostra paradossale infelicità, sulla quale è stata già scritta un’autentica biblioteca di Babele.
Sarebbe ingenuo pensare di cavarsela con una cura a base di pensiero positivo. La tentazione alla quale bisogna sfuggire è proprio quella di opporre l’ottimismo della volontà al pessimismo della ragione. Perché si tratta invece di metabolizzare l’idea che queste due tendenze del nostro spirito debbano collaborare. L’ottimismo, che incarna la volontà di promuovere un uso ben congegnato della ragione, e il pessimismo, che, forte dell’esperienza del passato, la valuta criticamente, sono le ruote del veicolo che ci conduce verso il futuro. Noi siamo i piloti. Alla guida servono capacità di analisi e di prospettiva. E soprattutto tempo.
Diventare 10 miliardi non è solo un problema. Può essere una straordinaria opportunità se si coopera a una visione di lungo periodo. Quando magari saremo tutti morti, come diceva qualcuno, ma i nostri nipoti no. A patto che siano nati, ovviamente.
L’ultima buona notizia è che abbiamo tutti gli strumenti per riuscire. Dobbiamo solo scegliere di usarli. E provarci. Senza paura.
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Aspenia, numero 2 del 2023. A seguire le principali fonti che ho utilizzato.
P.K Feyerabend in “La scienza in una società libera”, Feltrinelli, 1981.
Maurizio Sgroi, La Storia della Ricchezza, Diarkos, 2023.
Il Sole 24 Ore, “La mappa mondiale del PIL”, 31 dicembre 2022.
“The global dollar cycle”, di Maurice Obstfeld e Haonan Zhou, pubbli- cato dal National Bureau of Economic Research, a marzo 2023.
Luigi Signorini, “Globalizzazione e frammentazione”, intervento all’incontro “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani”, Polo universitario delle Scienze sociali, Firenze, 5 aprile 2023.
Earth4All, “People and the planet. 21st-century sustainable population. Scenarios and possible living standards with- in planetary boundaries”, marzo 2023.
Nell’edizione 2022 di Geodemografia, pubblicazione redatta da Neodemos, un articolo è dedicato all’andamento della popolazione fino al 2100 e si osserva che le previsioni pubblicate dall’ONU nel 2022, vedono livelli di popolazione assai più bassi di quelle che si pensava avremmo raggiunto con le previsioni 2017. Parliamo perciò di scenari estremamente volatili. Per dare un’idea, nel 2022 la previsione di popolazione per il 2100 è di circa 10,8 miliardi di persone. Nel 2017 era di 11,184. Oggi siamo a circa 8 miliardi.
Umberto Curi, Meglio non esser nati, Bollati Boringhieri, 2008.
David Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, Carbonio editore, 2018.
Così, nel testo di Nietzsche, la risposta di Sileno a re Mida: “Stirpe misera e caduca, figlia del caso e dell’ansia, perché mi costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa impossibile, la cosa migliore per te, ecco, è morir subito”. La nascita della tragedia, Laterza, 1919, pag. 36.
Banca mondiale, “Migrants, refugees, societies”, aprile 2023.
Barry Mirkin e Mary Beth Weinberger, The demography of population ageing, ONU, 2001.
David E. Bloom, “The long, good life: demographics and economic well-being”, IMF, marzo 2020.
Pierre Francastel, Studi di sociologia dell’arte. Lo spazio figurativo da Piero della Francesca a Picasso, Bur, 1976.
Lev Tolstoj, La religione del progresso e i falsi fondamenti dell’istruzione, Pungitopo edizioni, 2010. Fredrik Albritton Jonsson, Carl Wennerlind, Scarcity: A history from the origins of capitalism to the climate crisis, Harvard University Press, 2023.
Sei milioni di salari inglesi sono sotto la soglia di sussistenza
Mi fa un certo effetto che si parli di living wage nel Regno Unito, che traduco come salari di sussistenza, traviato come sono da studi giovanili maldigeriti di economia politica, che subito mi riportano ai padri di questa disciplina: Smith, Ricardo Malthus. Ripesco nella mia memoria e ricordo di come questi illustri pensatori discettavano, pur con le dovute differenze, sull’opportunità che i salari dei lavoratori di una società capitalistica, quindi perfettamente concorrenziale e perciò idilliaca, è opportuno si tenessero a livello di sussistenza, ossia sufficienti a consentir loro di vivere, per le più svariate ragioni che non sto a riepilogarvi perché adesso ci interessano poco.
Quello che ci interessa è osservare come la contemporaneità ci abbia condotto a un esito che neanche i papà dell’economia avevano ponderato, pur nella loro immensa fantasia, ossia che il mito della produzione ormai generi corrispettivi per chi lavora nemmeno sufficienti a farli sopravvivere. Persino Malthus sarebbe inorridito.
In questa fase pre-classica, o post capitalista se preferite, il lavoro dell’istituto di statistica britannico è prezioso perché inonda di luce cristallina l’esito della nostra modernità. Ci informa, per cominciare, che volenterosi studiosi hanno elaborato una misura del salario di sussistenza, iniziativa promossa dalla Living Wage Foundation e dal sindaco di Londra. E ci ricordano che anzi tale misura verrà estesa costruendo un nuovo indicatore, il National living wage, che il governo inglese ha annunciato presentando il suo budget estivo, purtroppo ancora non disponibile.
Ma fa nulla. I dati diffusi dell’ONS sono abbastanza eloquenti per capire di cosa si tratti. La prima notizia meritevole di menzione è che la proporzione dei lavoratori che guadagna meno della paga di sussistenza è cambiata notevolmente negli ultimi anni. Chi conosce l’evoluzione del mercato del lavoro britannico certo non si stupirà. E tuttavia leggere che nel 2014 c’erano circa sei milioni di salari che stavano sotto il livello di sussistenza mi sembra rimarchevole. E’ utile ricordare che questo indicatore è stato costruito per calcolare il costo minimo della vita a Londra o fuori Londra.
Un grafico mostra che ormai la percentuali di coloro che hanno una paga inferiore alla sussistenza sfiora a Londra il 20% mentre svetta verso il 25% nel resto del Regno Unito, in decisa accelerazione dal 2010. Ciò vuol dire che un lavoratore su quattro, in media, sta sotto il living wage.
Interessante, poi, notare la divaricazione crescente fra l’andamento del salario di sussistenza, che in termini reali è cresciuto del 3% fra il 2008 e il 2014, e la mediana della paga oraria, che sempre fra il 2008 e il 2014, è diminuita del 10% sempre in termini reali. Una situazione che un grafico mostra in tutta la sua eloquente chiarezza. Significa che mentre aumenta il costo minimo della vita, diminuisce e assai di più la paga. Il che, ne converrete, è alquanto scoraggiante.
Se guardiamo alle popolazioni, scopriamo che nel 2014 in situazione di salario inferiore alla sussistenza si trovavano il 16% delle retribuzioni dei lavoratori maschi a Londra e il 18% fuori, mentre le percentuali per le lavoratrici salgono rispettivamente al 22% e al 29%. Inoltre che il 48% dei lavoratori fra i 18 e i 24 anni londinesi stavano in questa situazione e il 58% fuori Londra. I giovani sono sempre quelli più penalizzati, evidentemente. Ma neanche agli anziani va così bene: nella classe fra i 55 e i 64 si sfiora il 20% fuori Londra mentre per gli ultra sessantacinquenni si supera il 30%.
Se dal chi passiamo al dove, scopriamo che il 60% di questi lavoratori sotto la sussistenza sono impiegati nel settore dei servizi di vendita e customer satisfaction, o nel settore della ristorazione o delle pulizie e che la quantità di lavoratori sottopagati nel settore privato è quasi tripla rispetto a quella del settore pubblico. Il che consente di apprezzare una delle conseguenze finora poco osservata della discussa rivoluzione che ha interessato il lavoro inglese.
Infine, possiamo osservare che la qualificazione gioca un ruolo determinante. Le cosiddette “occupazioni elementari”, quindi low skill, sono quelle dove si concentra questa situazione. A Londra oltre il 70% di chi ha un lavoro del genere ha un salario sotto il livello di sussistenza.
Quindi nella patria di Smith, Ricardo e Malthus, una porzione sempre più ampia di lavoratori non guadagna abbastanza per vivere. Però, dicono tutti, l’economia britannica va bene.
Dimenticano di ricordare per chi.
