Etichettato: mercato immobiliare inglese
L’inquietante (in)stabilità del mattone: crollano i proprietari
A inizio d’anno è sempre buona prassi far due conti per chiudere l’anno passato e provare a immaginare cosa ci riservi il futuro. Approfitto perciò di un recente outlook elaborato da Fitch e pubblicato pochi giorni fa per fare il punto sul mercato immobiliare globale che, come sappiamo, è una delle più importanti cartine tornasole per comprendere gli andamenti presenti, e immaginare quelli futuri, dell’economia.
Volendo sintetizzare, l’opinione prevalente degli osservatori sul futuro è che si vada verso una sostanziale stabilità, almeno nei paesi visti come un insieme. Ma alcune situazioni particolari, tuttavia, illuminano di una luce inquietante lo sviluppo del mercato, mentre i dati, riferiti al passato, mostrano che la crisi lo ha mutato profondamente. In alcuni paesi più che in altri. Un grafico offre una vista d’insieme abbastanza eloquente. Come si può osservare prevale la stabilità, che sarebbe una cosa bella se lo stato di salute dei singoli mercati fosse buono. I dati, e le cronache, raccontano invece che così non è. Il sonno del mercato immobiliare, infatti, è popolato da incubi e favorito da massicce dosi di tranquillanti monetari.
Un dato, in particolare, mi fa riflettere: la percentuale di proprietari di casa diminuisce costantemente, a vantaggio quindi del mercato delle locazioni. Fra i paesi considerati, anzi, il dato irlandese è quello più significativo. In pratica, dal 2005, quando era vicino all’80% nella stima 2015 si è arrivati sotto il 70%.
Non c’è da stupirsi: la casa è costosa, sia che la si compri sia che la si affitti. Lo è stata nel 2014 e anche nel 2015, e per almeno dieci dei paesi considerati l’agenzia stima che lo sarà ancor di più quest’anno.
Poi c’è un’altra informazione che mi lascia pensare. Negli Stati Uniti il livello di proprietari di casa è sceso dal 69% al 64% fra il 2006 e il 2015, il livello più basso degli ultimi 25 anni. In pratica il sogno di una casa per tutti, che ha animato la bolla speculativa dei subprime e il disastro del 2008 ha avuto come esito che un sacco di americani ha perduto la casa e ora, nel complesso, ci sono meno proprietari di prima.
A guidare il calo, spiega Fitch, i pignoramenti, ma anche le restrizione creditizie seguite alla crisi e, soprattutto, l’aumento della disoccupazione. E le prospettive secondo l’agenzia, sono di un ulteriore indebolimento.
Un’altra interessante evoluzione è quella del mercato inglese. Qui nel 2005 i proprietari erano il 70% e toccarono il picco due anni dopo, aumentando di circa il 3%. Nel 2009, quindi a crisi esplosa, il livello era già tornato al 2005 e da lì in poi non ha smesso di scendere. Oggi siamo intorno al 63%. Questa evoluzione è in parte dovuta alla continua crescita dei prezzi guidati dagli acquirenti internazionali che ha convinto i regolatori a frenare, imponendo requisiti più stringenti per la concessione di credito. Una misura prudenziale, ma di fatto tardiva: l’aumento dei prezzi, ben al di sopra delle medie storiche, rende l’acquisto di una casa molto più difficile di prima. Noto infine che in Germania, dopo i prezzi sono previsti in aumento anche quest’anno dopo il cospicuo aumento del 2015, la curva dei proprietari è rimasta sostanzialmente piatta fino al 2012, per poi regredire leggermente fra il 2013-14 e tornare al livello del 2005 l’anno scorso. Non riesco a immaginare una rappresentazione più chiara di stabilità.
E l’Italia? Fitch non riporta il dato sui proprietari, anche se i dati Istat li mostrano sostanzialmente stabili. Ma ci dice altre informazioni interessanti. La prima è che i prezzi nominali sono scesi ancora nel 2015 dell’1%, portando il calo complessivo dal picco del 2008 al 17%. Fitch si aspetta che i prezzi salgano lievemente quest’anno e si aspetta che le politiche fiscali e bancarie aiutino a mitigare l’eccesso di offerta di abitazioni prevenendo ulteriori declini, con la previsione che quest’anno verranno concessi mutui per 105 miliardi a fronte dei 145 stimati nel 2015. E’ vero altresì che, fatto 100 il livello del 2007, il livelli dei nuovi importi pordi di mutui concessi sta ancora molto sotto 80.
In conclusione, anche il nostro paese viene considerato fra quelli dove prevale la stabilità. Un modo elegante per dire che siamo fermi.
Il boom del mattone spaventa gli inglesi
Nelle cronache da eterno ritorno che caratterizzano le nostra economia contemporanea, vale la pena leggere l’ultimo Financial stability review della Banca d’Inghilterra che dedica un ampio capitolo ai rischi domestici provocati dall’impennata dei corsi immobiliari nel paese.
Lo dedichiamo a tutti quelli che, ancora oggi, applaudono ogni volta che si registra una crescita dei valori immobiliari. Che è di sicuro una bella cosa, ma contiene in sé i germi del disastro. E basterebbe ricordare quello che è successo nel mondo, a partire dal 2007, proprio a causa del booom immobiliare pompato a credito degli anni precedenti.
Ma poiché tali lezioni finiscono nel dimenticatoio, seppellite dai sedicenti successi dell’economia, ecco che vale la pena tornarci sopra, notando però che la BoE non si occupa del passato, ormai morto e sepolto, ma del presente.
“La media nazionale dei prezzi, nei dodici mesi conclusi a ottobre 2013 – scrive la BoE – segna un aumento del 6,8% e una serie di indicatori indicano che ci sarà un’accelerazione nel breve termine. Le previsioni suggeriscono un ulteriore aumento fino al 10% nel 2014”.
Tale trend viene da lontano. “Nel passato i prezzi delle case sono cresciuti in molte regioni dell’UK e, sin dal 2009, la crescita è stata più rapida in alcune aree, come Londra, dove la crescita dei prezzi medi è stata relativamente alta”.
Questa situazione è stata favorita dall’aumento dell’occupazione e della domanda estera di mattone, per lo più concentrata nell’area centrale di Londra, malgrado il suo peso relativamente contenuto (corca il 3%) sul mercato londinese.
La prima conseguenza è stata che anche il mercato del commercial real estate si è ripreso. Gli investimenti esteri nel CRE inglese, infatti sono praticamente raddoppiati dal 2011 in poi, superando persino il picco del 2007.
“Finora – scrive la Banca – i compratori hanno acquistato senza un leverage significativo e gli standard di prestito sono rimasti a livello conservativo, con un loan-to-value più basso del livello pre crisi. Ma l’esperienza suggerisce che i prestatori possano essere esposti a un rischio di rifinanziamento dei propri prestiti quando il mercato dei tassi si normalizzerà”.
Traduco: chi ha preso a prestito finanzia a breve il mutuo a lungo, contando sulla politica dei tassi bassi. Quindi quando i tassi aumenteranno, e di conseguenza anche il costo dei debiti a breve, questi soggetti potrebbero subire uno stress da rifinanziamento.
Anche qui: nulla di nuovo sotto il sole.
Ma il tema è generale. “La ripresa dei prezzi dell’immobiliare in UK – scrive – si è verificata sullo sfondo di un prolungato periodo di tassi bassi globali. La teoria e l’evidenza suggeriscono che bassi interessi a lungo termine e forti afflussi di capitali dall’estero alle economie avanzate possono provocare importanti cambiamenti nelle dinamiche dei prezzi nel breve periodo”.
In aggiunta, “bassi tassi possono incoraggiare le famiglie a caricarsi di più debito”. E “c’è qualche evidenza che questo si stia verificando nel corrente trend di mercato, con famiglie che prendono mutui di lunga durata che gli consentono di avere prestiti più alti”.
Sapere quanto sia sostenibile tale situazione “dipende da quanto sia probabile che i tassi a lungo termine rimangano al livello corrente”.
Un’altra simpatica controindicazione dell’exit strategy che verrà.
Tutto ciò si inserisce in un contesto, quello inglese, in cui “i bilanci delle famiglie e delle imprese sono altamente sensibili alle fluttuazioni dei prezzi delle proprietà immobiliari e alla capacità di questi soggetti di servire il proprio debito”.
Per le famiglie il valore delle case pesa circa la metà della ricchezza patrimoniale e il mutuo circa tre quarti del loro debito lordo. Ciò implica che basta molto poco, come d’altronde è successo nel 2007, a vedere dimagrire il valore della prima e aumentare il valore reale del secondo. Che è il miglior viatico per avere un debito insostenibile.
Nel settore corporate, il 40% di tutti i debiti sono verso il mattone commerciale e in totale il mattone pesa il 70% del valore complessivo degli asset non finanziari in UK.
Insomma: il settore è estremamente sensibile alle bufere finanziarie.
Queste dinamiche sono sostanzialmente simili a quelle pre-2007.
Il fatto che la Banca centrale, dopo averle incoraggiate con le sue politiche di Quantitative easing, si accorga che oggi costituiscono di nuovo un rischio dice tutto sulla schizofrenia del nostro tempo e sulla sostanziale impotenza “sistemica” dei nostri banchieri centrali, che turano una falla destinata a riaprirsi grazie al loro intervento.
Una situazione paradossale, che mette gli inglesei, ma sostanzialmente tutti noi, di fronte al solito dilemma fra squilibrio e depressione.
La fisionomia del disastro (finora potenziale) ricalca i vecchi schemi.
I prestatori che offrono mutui fino al 95% del valore dell’immobile, scrive la BoE, sono aumentati da 28 a 36 negli ultimi anni. E questa abitudine, ossia quella di erogare mutui per un valore sostanzialmente pari al valore dell’immobile, è unanimamente riconosciuta come una delle più pericolose per la stabilità finanziaria.
Allo stesso tempo, sottolinea il rapporto, chi si indebita ha allungato la durata del mutuo ben oltre i 25 anni, esponendosi così al rischio di rialzo dei tassi d’interesse, in un momento che i tassi sono a zero, e quindi possono solo salire.
I regolatori inglesi hanno provato a correre ai ripari, emanando alcune norme in virtù delle quali le banche dovranno attentamente monitorare i soggetti a cui erogano il mutuo prima di concederglielo. Ma queste regole andrano in vigore solo nell’aprile 2014.
Intanto si balla sul Titanic.
Per il 2014 i regolatori inglesi, spaventati dall’alto livello di indebitamento raggiunto dalle famiglie, vicino ai massimi storici, hanno proposto di svolgere stress test sulle banche simulando scenari di crisi collegati proprio all’adeguatezza del capitale in relazione ai portafogli immobiliari.
Inoltre, poichè i prezzi sono previsti in crescita, “tanto più questa crescita sarà robusta tanto più aumenta il rischio che si arrivi a una correzione”.
Lo dice il buon senso, prima ancora della BoE. Ma il buon senso non ha diritto di cittadinanza quando riparte l’esuberanza irrazionale, come ebbe a definirla l’ex boss della Fed.
A sua volta questo rischio di correzione dei corsi immobiliari “pone diretti rischi al capitale delle banche, aumentando le perdite su crediti”.
Col risultato che per le banche, pur se hanno aumentato il loro capitale dopo la crisi del 2007 (e stendiamo un velo pietoso su dove abbiano trovato i soldi), un downturn dell’immobiliare rischia di propagarsi come una peste anche agli altri asset, non solo a quelli direttamente collegati ai mutui.
Per completare la descrizione dell’effetto contagio, la BoE ricorda che molte banche, ossia quelle che hanno l’abitudine di finanziarsi a breve termine utilizzando particolari strumenti finanziari (wholesale funding market), aumentando la leva finanziaria per poter concedere più credito, possono peggiorare la vulnerabilità dell’intero sistema bancario in caso di crisi sul mercato dei mutui.
E’ vero che dal 2007 in poi le banche hanno diminuito la loro dipendenza dal wholesale funding, spinte dai regolatori, dice la BoE. Ma “se la crescita dell’indebitamento delle famiglie iniziasse a superare quella dei depositi, si potrebbe aprire un gap nella capacità di funding del sistema bancario” che potrebbe indurre le banche a riprendere queste pratiche.
Insomma: un robusto passo indietro, alla faccia dei passi avanti fatti finora.
E se poi le banche, oltre a ricominciare a finanziarsi a breve, cominciassero anche ad attingere ai mercati esteri per trovare le risorse da dare in prestito per inseguire la bolla immobiliare, finirebbe che esploderebbe anche il loro debito estero, “aumentando la loro vulnerabilità ai cambiamenti del sentiment estero”.
Che a quel punto rischierebbe di contagiare l’intero paese.
Per chi non lo ricordasse, il saldo del conto corrente inglese ha segnato un deficit del 4% del Pil nel primo quarto del 2013, peggiorando sensibilmente dall’ultimo quarto del 2011, quando era ancora intorno al 2%, come riporta l’ultimo staff report del Fmi del 28 giugno scorso.
Faccio notare la circostanza che per la prima volta è diventato negativo anche il saldo dei redditi delle partite correnti, che nel 2009 segnava ancora un surplus del 2% del Pil.
Insomma, tutto serve agli inglesi salvo che altro debito estero nel settore privato.
Cosa ci racconta questa storia?
Che tutto cambia per tornare a fare tutto quello che si faceva prima come si faceva prima.
Business, as usual.
