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Cronicario: I predatori del trilione perduto (senza patrimoniale)

Proverbio del 12 giugno L’uomo morale si adatta alle circostanze della vita

Numero del giorno: 0,069 Tasso interesse Bot annuale venduti oggi in asta

La migliore del giorno, ma che dico del giorno, della settimana, ma che dico della settimana, del 2019, non la sento dai soliti VicePremier, che uno se l’aspetta, ma dal capo di una grossa banca col cognome che fa provincia che argomenta così: “Serve un progetto per valorizzare la massa da 1 trilione di euro degli asset pubblici attraverso l’utilizzo in maniera intelligente del risparmio privato, una delle forze dell’Italia, altrimenti sarà inevitabile che questo nei prossimi anni sarà utilizzato per fare la patrimoniale”.

E’ una dichiarazione meravigliosa, ne converrete. Ci dice due cose insieme. La prima è rischiamo una patrimoniale, ma lo sapevamo già. La seconda, che lo stato ha beni per un trilione di euro, che nel caso vi sfugga sono circa 1.000 miliardi. Lo sapevate?

M’inerpico curioso in un mostruoso documento di 1.120 pagine della Ragioneria dello Stato, ma per fortuna mi fermo alle prime decine e poi lo trovo. Il Trilione perduto, dico. E non solo quello.

Incontro pure il gemello diverso del Trilione di attivi: il bisTrilione (ormai quasi tris) ritrovato delle passività, che nel caso il grande banchiere l’abbia dimenticato è l’altra parte del bilancio dello stato. Che dite abbiamo un problema? Vi do un indizio. Il saldo peggiora col passare del tempo.

Ora siccome sono una persona semplice, vorrei che qualche esperto di birignao bilancistico mi spieghi come si fa dire che bisogna fare un’operazione per attrarre il risparmio degli italiani, utilizzando come collaterale – di questo dovrebbe trattarsi, o no? – degli attivi che sono già pesantemente esposti a un passivo di quasi il triplo. Un po’ come chiedere un mutuo sulla casa che ha già tre ipoteche sopra. Così, a naso, lo Stato, per attrarre questo risparmio “che sennò finisce inevitabilmente in una patrimoniale”, dovrà offrire tassi di interesse succulenti, che poi comunque dovranno essere ripagati con le tasse dei sottoscrittori.

Quindi usare i risparmi degli italiani per ripagare i debiti degli italiani, ma senza fare la patrimoniale anzi convincendo pure gli italiani, con la volenterosa collaborazione di banche, gazzettieri, nani e ballerine, che è un affare. Anzi: la cosa giusta da fare. Non è meraviglioso? Se fossi un VicePremier ci farei un pensierino.

A domani.

I pensionati pubblici italiani e i tormenti della previdenza

La rappresentazione migliore della tormentata gestione statale della previdenza dei suoi dipendenti è in una cifra: la differenza fra le entrate ordinarie da contributi che arrivano dai lavoratori e la spesa per prestazioni che ho tratto da un recente analisi della Ragioneria dello Stato.

Qui leggo che nel 2014 il totale netto della spesa per le prestazioni pensionistiche degli ex dipendenti pubblici è stato di 65,45 miliardi di euro. Ciò a fronte di entrate ordinarie per soli 37,9 miliardi, un po’ più della metà. Ciò vuol dire che i contributi di chi lavora nel pubblico bastano appena a pagare la pensione a poco più della metà dei pensionati pubblici.

I contributi dei lavoratori vengono integrati da ulteriori entrate. Quelle derivanti dall’applicazione della legge 335 del ’95, ossia la cosiddetta riforma Dini, che nel 2014 valevano 10,8 miliardi, poi i trasferimenti dello Stato e di altri enti del settore pubblico, ossia la quota di contributi a carico del datore di lavoro, ossia lo Stato, degli altri enti e dei contributi capitali, che, sempre nel 2014, pesava circa 11 miliardi. Al lordo dei riscatti e delle ricongiunzioni, che pesano un paio di centinaia di milioni, il totale delle entrate è di circa 60 miliardi. Ciò vuol dire che la previdenza del pubblico impiego è in perdita di per oltre cinque miliardi, che devono essere pescati nella fiscalità generale.

Per scoprire l’origine del buco, dobbiamo andare a vedere le singole gestioni. Qui si nota che il grosso del deficit, pari a 5,357 miliardi, deriva dalla gestione della CPDEL, ossia la cassa dei dipendenti degli enti locali, e poi, per 225 milioni, dalla CPS, ossia la cassa dei sanitari. La gestione degli statali, la CTPS, chiude in pareggio.

Tale circostanza si deve al fatto che con la finanziaria 2012, dopo che l’Inpdad è confluito nell’Inps, sono cambiate le regole contabili. Tale effetto è visibile nella quota di trasferimenti garantiti dallo Stato a integrazione delle entrate ordinarie. Fino al 2011, infatti, ammontavano a poche centinaia di milioni. A partire dal 2012, però, crescono sensibilmente: dai 6,9 miliardi (a valore corrente) del 2012, agli 8,5 del 2013 e agli 11,235 del 2014. Il grosso di queste cifre è stato conferito alla gestione CTPS, che, di conseguenza, chiude in pareggio.

Se guardiamo ai dati di tendenza, osserviamo che in relazione al Pil la spesa per la previdenza dei dipendenti pubblici è cresciuta pressoché costantemente dal 1999, quando pesava il 3,14% del prodotto, per arrivare dopo 15 anni al 4,06%. Segno evidente di un andamento crescente nel tempo della spesa pensionistica pubblica. Lo dimostra il fatto che nel 1999 il deficit fra spesa totale e entrate totali era di poco superiore al miliardo. Nel 2014 è quintuplicato.

Un altro effetto della nostra imprevidenza pubblica.