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Il reddito medio delle famiglie italiane è inferiore a quello del 2006

Sia che si guardi al reddito medio familiare, sia che si prenda come misura il reddito medio equivalente, ciò che si osserva è che stiamo sotto il livello del 2006, che già non è che fosse eccelso, e neanche di poco. Le tante crisi scoppiate da allora, con quella inflazionistica a dare il colpo di grazia, hanno determinato una situazione molto difficile, che l’ultima indagine di Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane (riferita all’anno 2022) illustra chiaramente.

Basterà riportare solo un dato molto eloquente: nel 2022 più della metà delle famiglie osservate ha avuto un risparmio nullo. Si arriva al 70 per cento se si restringe il campione limitando la rilevazione alle famiglie appartenenti al quintile più basso, mentre se guardiamo al quintile più alto abbiamo comunque un 28 per cento di famiglie a risparmio nullo.

Parliamo di un anno, il 2022, nel quale si usciva con fatica e molta voglia di spendere dal buio della pandemia, e questo sicuramente ha contribuito a dar fondo ai risparmi. La spesa media familiare infatti, in termini reali, è aumentata del 5,7% quell’anno, sostenuta soprattutto dall’acquisto di beni durevoli. Ma non per tutti. Mentre quella delle famiglie più abbienti è cresciuta dell’11 per cento, le famiglie meno dotate hanno visto scendere la spesa meda del 2 per cento. Esiste insomma, una chiara differenza di opportunità economiche, che si osserva anche nell’aumento dell’indice di Gini, passato dal 32,8 al 33,6 fra il 2020 e il 2022.

La crisi Covid, insomma, ha agito come ogni crisi: allargando le differenze fra ricchi e poveri. Mentre infatti la ricchezza media è aumentata dell’1,8 per cento rispetto al 2020, quella mediana è diminuita del 2 per cento. Ciò si spiega con la circostanza che la quota di ricchezza detenuta dal 10 per cento più benestante è aumentata del 2 per cento, portando al 52 per cento del totale.

Ricchezza in lieve aumento, ma più concentrata, a fronte di redditi che ancora faticano a tornare a un livello sufficiente a sostenere i consumi, e per giunta indeboliti ulteriormente dall’inflazione.

Di recente, a tal proposito, il Presidente dell’Inps Gabriele Fava, audito in commissione Enti previdenziali, ha detto che nel 2023 la retribuzione media annua pro capite è risultata pari a 25.789 euro, in crescita del 6,8 per cento rispetto al 2019, che si confronta però con una variazione media dei prezzi al consumo, sempre dal 2019 e fino al 2023, che oscilla fra il 15 e il 17%. Ciò significa che nei quattro anni considerati i redditi reali hanno perso circa il 10 per cento, in un contesto di debolezza già conclamata.

Questa debolezza reddituale non ha pesato per tutti alle stesso modo. Sempre l’indagine di Bankitalia osserva che fra il 2020 e il 2022 i redditi degli indipendenti sono cresciuti quasi il triplo rispetto a quelli dei dipendenti, mentre quelli di pensionati e non occupati sono decresciuti.

Sempre Fava, a proposito di pensionati, ha ricordato in commissione che la spesa pensionistica, per l’effetto del recupero dell’inflazione, è aumentata del 19 per cento negli ultimi cinque anni. Solo nel 2023, rispetto al 2022, l’aumento è stato del 7,4 per cento, col risultato che la spesa pensionistica è arrivata al 15,3 per cento del pil, in cima alla classifica europea. Alla fine di quest’anno dovremmo superare il 16 per cento.

Quindi abbiamo una pressione crescente della spesa pensionistica, milioni di lavoratori che aspettano di avere rinnovati i contratti, e redditi che crescono al rallentatore anche quando questo succede. Non si capisce come le famiglie dovrebbero rilanciare i propri consumi. Però si capisce benissimo perché l’economia ristagna.