Etichettato: rischi per il settore assicurativo europeo
Dopo le banche, anche le assicurazioni entrano nell’ombra
All’ombra della regolazione non fiorisce solo lo shadow banking.
Meno noto alle cronache, ma non per questo meno fiorente, è lo spostamento di una montagna di debiti delle compagnie di assicurazione verso soggetti che sfuggono alle maglie della regolazione finanziaria. Gli studiosi chiamano questo fenomeno shadow reinsurer.
Il fenomeno è finito sotto la lente di alcuni economisti del Nber, che qualche giorno fa hanno rilasciato un paper intitolato “Shadow insurance” che da una misura chiara della posta in gioco negli Stati Uniti e solleva notevoli interrogativi circa la capacità dei regolatori di far fronte alla straordinaria fantasia elusiva della finanza globale.
Un primo dato serve a dare l’idea della dimenzione del fenomeno.
Le passività cedute dagli assicuratori sulla vita al sistema-ombra dei riassicuratori è cresciuto dagli 11 miliardi di dollari nel 2002 ai 363 miliardi nel 2012: in pratica si è moltiplicato per 33. Le compagni assicurative che usano tali pratiche pesano il 50% del mercato e cedono 28 centesimi per ogni dollaro incassato alle assicurazioni ombra, a fronte dei 2 centesimi nel 2002.
Perché le assicurazioni abbiano preso questa deriva è facile capirlo. Secondo gli autori, infatti, “in assenza di assicuratori-ombra i costi marginali aumenterebbero dell’1,8%”.
La ricerca dell’efficienza nei costi, così come quella dei ricavi, genera il rischio sistemico.
Lo shadow reinsurer si compone di entità speciali, per lo più veicoli finanziari, allocati in alcuni stati americani o in paradisi fiscali che sono soggetti a una regolazione meno stringente o a normative fiscali più favorevoli. E vista la quantità di risorse in gioco, è pure agevole capire perché tale pratica abbia finito col diventare di moda.
Nel 2012, infatti, le passività delle assicurazioni americane, quindi gli obblighi accumulati nei confronti dei loro sottoscrittori, avevano raggiunto la somma di 4.069 miliardi di dollari. Un ammontare di tutto rispetto, se confrontato con un’altra montagna di passività, ossia quella accumulata nei depositi di rispamio, che, sempre nel 2012, valeva 6.979 miliardi.
Fino a pochi anni fa le passività delle compagnie assicurative non suscitavano l’attenzione degli osservatori, visto che venivano considerate più prevedibili e quindi stabili rispetto alle passività bancarie.
Ma i grandi cambiamenti nella regolazione hanno cambiato questo scenario.
Le compagnie di assicurazione, per garantirsi una gestione più efficiente (leggi meno costosa) delle propri passività hanno iniziato a spostare masse di debiti sul circuito ombra dei riassicuratori.
Così arriviamo ai 363 miliardi di passività censiti dagli autori che hanno trovato casa in questo circuito ombra.
Per capire quanto sia rilevante questo spostamento di passività, basti considerare che nel 2004, quindi in pieno boom della finanza e prima del collasso, il mercato delle asset-backed commercial paper emesse dal circuito bancario ombra delle banche americane quotava 650 miliardi.
Ad aggravare i rischi contribuisce anche la circostanza che la pratica di dislocare passività nel circuito ombra sia appannaggio delle più grandi compagnia assicurative americane, che pesano circa il 50% del mercato.
“Abbiamo riscontrato – scrivono gli autori – che lo shadow insurance aggiunge un tremendo ammontare di rischi finanziari per le compagnie coinvolte che non viene considerato nel rating attuale di cui dispongono”.
Nelle loro stime, se le agenzie di rating tenessero conto di tale pratica, i coefficienti patrimoniale delle compagnie assicurative sarebbero abbattuti del 49% (risk-based capital) con un impatto sul rating di tre notches (per le compagnie medie). Quindi un rating A diventerebbe B+.
L’aggiustamento proposto dagli autori causerebbe perdite per l’industria di oltre 15 miliardi di dollari che “attraverso le garanzie di stato finirebbero in carico ai taxpayers e alle altre compagnie che non usano il circuito ombra”.
Come sempre accade, sono sempre i buoni a pagare il conto dei cattivi.
Peraltro, sottolineano, “mentre lo shadow insurance ha chiaramente questi costi, i benefici sono difficili da quantificare”.
Capite bene perché i regolatori americani si siano allarmati. Anche perché, sottolineano gli autori, la stima di 363 miliardi di valori di passività finite nell’ombra, “potrebbe essere solo la punta di un iceberg” qualora la pratica dello shadow reinsurer sia diffusa anche nel resto del mondo.
Peraltro, ricordano, la crisi ha mostrato che “anche un piccolo shock può essere amplificato dall’interconnessione che esiste nel mercato finanziario” e uno shock nei mercati assicurativi può avere ripercussioni sull’economia reale “attraverso il mercato dei corporate bond”.
Di recente le autorità hanno chiesto una moratoria di tali pratiche. Un appello pressoché ignorato anche in considerazione del fatto che “il settore assicurativo è regolato a livello nazionale” negli Usa e questo “rende il coordinamento nazionale difficoltoso”.
Anche gli americani, insomma, hanno i loro trilemmi.
Prima o poi dovremmo farci i conti pure noi.
Salvare banche o assicurazioni? Questo è il problema (della Bce)
Poiché non esistono pasti gratis, come insegna un vecchio proverbio americano degli anni ’30 reso celebre da un libro di Milton Friedman, è bene sottolineare che tale regola non funziona solo per la spesa pubblica, come vorrebbero i seguaci del maestro di Chicago. Tutt’altro. Il concetto sottinteso nella massima, ossia che qualcuno pagherà sempre per i vantaggi ricevuti da qualcun altro, ha valore universale in un ambito economico competitivo e non cooperativo.
Si possono fare decine di esempi. Ma quello più interessante che mi è venuto in mente riguarda la partita sempre più difficile che sta giocando la Bce per salvare la magnifiche sorti progressive della finanza europea.
E’ chiaro a tutti che la Bce ha svolto politiche eccezionali, meno di quelle americane e giapponesi ma comunque fuori dall’ordinario, per salvare le banche dell’eurozona. Si può discutere dell’efficacia di tali misure, ma la circostanza che siamo ancora qui a parlarne dimostra che finora hanno funzionato. O che perlomeno hanno evitato marosi peggiori di quelli che ci troviamo ad affrontare.
Ciò non vuole dire che in futuro delle banche sia roseo, visto che il quadro generale dei mercati finanziari è alquanto “segmentato”, come dicono i nostri algidi banchieri, e che non pare che i finanzieri abbiano imparato la lezione. E poi, come se non bastasse, ci si è messa pure la Fed, che ha minacciato di far cessare fra pochi mesi la bonanza del denaro a costo negativo. E infatti il povero Draghi ha dovuto affrettarsi a rassicurare i mercati: le politiche monetarie allentate della Bce dureranno finché sarà necessario e non termineranno tanto presto.
Belle parole. Borse contente, banche pure.
Senonché, come dicevo, non esistono pasti gratis. Tenere bassi i tassi per via monetaria o per il tramite di acquisti sul secondario ha un effetto potenzialmente distruttivo su un’altra categoria di operatori finanziari, che sono altrettanto sistemici, e per di più coinvolgono le aspettative di lungo termine dei cittadini: le assicurazioni e i fondi pensione.
“L’esperienza giapponese degli anni ’90 – scrive Ania nel suo ultimo rapporto annuale – ha dimostrato quale possa essere l’impatto di un periodo prolungato di bassi tassi d’interesse sulle compagnie assicuratrici, in particolare per il segmento vita”. Nel 2011, non a caso, l’Eiopa (European Insurance and Occupational Pensions Authority), ossia il supervisore della stabilità del settore in Europa, ha pubblicato alcuni stress test sul sistema assicurativo europeo, dal quale è emerso che una percentuale fra il 5 e il 10% del campione avrebbe avuto un requisito di capitale (MCR) inferiore al 100% e una gran parte di poco superiore al 100%.
Il 28 febbraio del 2013 l’ente ha pubblicato un altro documento, indirizzato alle autorità di vigilanza degli stati membri dell’Ue che rimarca ancora di più i rischi sistemici per le assicurazioni provocati da uno scenario di bassi tassi d’interesse. Le compagnie ” a fronte di impegni contrattuali assunti, tipicamente di lungo termine, corrono maggiormente il rischio, nella scenario di bassi tassi, di vedere deteriorata la propria posizione finanziaria, soprattutto quando la struttura delle garanzie offerte sia rigida e su tassi di interesse elevati rispetto ai rendimenti ottenibili dalle attività investite a copertura delle riserve”.
Detto in parole comprensibili, le assicurazioni, ma anche i fondi pensioni, specie quelli a prestazioni definita, si trovano a dover fare i conti con impegni finanziari che prevedono esborsi remunerati a un tasso più alto rispetto a quello che le compagni possono spuntare investendo le proprie attività. E, a meno che non rischino di più per avere rendimenti più alti (con tutte le controindicazioni del caso), devono rassegnarsi a rimetterci.
“L’attenzione – scrive Ania – è rivolta, particolarmente ma non solo, ai paesi dell’Europa centro-settentrionale, tra cui la Germania, dove a fronte di strutture di garanzia piuttosto rigide i tassi di interesse dei titoli a reddito fisso si mantengono molto bassi”.
L’Eiopa si è concentrata in particolare sulle assicurazioni, ma “uno scenario caratterizzato da bassi tassi di interesse avrebbe senz’altro effetto anche sui fondi pensione, specialmente se a prestazione definita”. L’Eiopa se ne occuperà nel corso dell’anno, quindi staremo a vedere.
Ma intanto il problema rimane, ed è destinato ad aggravarsi se le compagnie inizieranno a valutare i propri asset non più al costo storico, come prevede la disciplina Solvency I, ma sui valori di mercato, come previsto dalle regole di Solvency II. Il corrispondente del mark-to-market previsto per gli asset bancari.
In tal caso i requisiti patrimoniali delle assicurazioni sono destinati a peggiorare. Per questo L’Eiopa ha suggerito alle assicurazioni di aumentare le proprie riserve. Esattamente come è stato suggerito di fare alle banche con il capitale proprio.
Per capire quanto tale allarme non sia teorico, basta dare un’occhiata al patrimonio delle assicurazione nostrane. Nel ramo vita la percentuale di investimenti in titoli di stato è passata dal 55% del 2009 al 66% dell’aprile 2013 nel portafoglio durevole, mentre in quello non durevole si è passato dal 53 al 59%. Le assicurazioni, insomma, hanno replicato quello che hanno fatto le banche: si sono imbottite di titoli di stato, mentre le famiglia, al contrario, se ne liberavano. Sicché nell’aprile 2013 le assicurazioni contabilizzavano 128,7 miliardi di titoli di stato nei portafogli durevoli e al 100,4 in quello non drevole, per un totale di 229,1 miliardi a ffronte dei 153,7 del 2009.
Se i tassi dovessero salire, le minusvalenze sarebbero dolorosissime, senza avere neanche la possibilità, come ce le hanno le banche, di contare sui finanziamenti della Bce per metterci una toppa.
E proprio i finanziamenti della Bce, che tengono bassi i tassi insieme alla manovra sul tasso ufficiale, sono la causa di questa situazione.
Con un aggravante. L’assicurazione di Draghi che la banca centrale non mollerà tanto presto la politica pseudo-espansiva, non fa i conti con quello che l’Eiopa ha scritto con chiarezza. Ossia che i primi a subire i danni di questa politica prolungata di tassi bassi sono i paesi del centronord europeo, Germania in testa, ossia l’azionista di maggioranza della Bce. E proprio la Germania è uno dei paesi dove il peso dei fondi pensione è relativamente fra i più alti dell’eurozona, insieme all’Olanda.
Fino a quando i nostri cugini nordeuropei accetteranno di mettere a rischio la stabilità dei loro sistemi pensionistici e assicurativi per consentire di salvare le banche dei paesi del sud?
Questo è il problema della Bce.
