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Il ruggito del sukuk
All’ombra delle cronache, lontano dai riflettori dell’attualità, la tigre malese sta pazientemente tessendo la sua tela che prevede un lungo appostamento e uno studio approfondito del territorio prima di lanciare il suo attacco. La preda è ambita e prevista all’ingrasso. E la tigre sa bene d’esser fornita di artigli robusti e denti affilati, ma soprattutto d’esser la meglio attrezzata, in virtù del suo lungo attendere, per sfoderare l’arma segreta che pazientemente ha costruito e ora si prepara a brandire.
Il nome esotico – sukuk – dice poco all’occidentale, distratto da Bund, Btp, Treasury e quant’altro. Ed è un peccato perché i sukuk bond, come ci ricorda opportunamente Zeti Akhtar Aziz, governatore della banca centrale malese, è il prodotto di punta di quella finanza islamica che piano piano, proprio come una tigre, si prepara a dare l’assalto al mercato internazionale dei bond.
Anche se il sukuk è ancora un cucciolo del mercato globale, la sua crescita repentina dal lontano 1990, quando fece la sua comparsa ufficiale nel mercato, oggi quota un volume globale di emissioni di 270 miliardi di dollari. La Malesia, dove il cucciolo è stato allevato e nutrito, è attualmente uno dei mercati più attivi e liquidi, per questo tipo di obbligazioni. Ed è proprio da qui che il cucciolo si appresta a muovere i suoi primi passi, forte anche dell’ampio consenso ottenuto a livello internazionale. Ormai le emissioni di sukuk vengono denominati non più o non solo in valuta malese, ma anche i dollari, euro, pound e, soprattutto, renmimbi. E non solo in Malesia, ma anche nei paesi europei, con Londra in prima fila e come sempre all’avanguardia.
Per gli investitori, spiega Aziz, il sukuk offre diverse opportunità. Innanzitutto quella di poter diversificare, affidandosi a uno strumento che, basandosi sulle norme della Sharia, è assai meno turbocapitalista di quelli che siamo abituati a conoscere. La logica che sta dietro la finanza islamica, che com’è noto vieta il prestito a interesse ma non il guadagno sugli investimenti, rende il sukuk assai meno capace di esprimere leva finanziaria, rendendosi quindi assai più coerente con le esigenze di stabilità finanziaria che il turbocapitalismo occidentale tende a trascurare finché non è troppo tardi.
Il sukuk, infatti, ha sempre asset fisici come sottostanti, quindi scoraggia la sovraesposizione, in quanto il valore dell’obbligazione difficilmente può superare quella dei collaterali sulla base dei quali è espressa. E diventa perciò uno strumento molto maneggevole per quei paesi, a cominciare da quelli in via di sviluppo, che magari sono ricchi di materie prime ma hanno un rating finanziario basso che li tiene lontani dai grandi flussi del capitale internazionale.
Inoltre la logica del sukuk prevede che l’investitore possa direttamente partecipare ai progetti che i sukuk sponsorizzano. Ciò vuol dire che gli investitori partecipano al reddito del sottostante e condividono con l’emittente i rischi della sua gestione. La logica, insomma, è quella del venture capital, che consente a chi investe di ricavare un profitto senza collegarlo direttamente al pagamento di un interesse che, nel mondo islamico è formalmente bandito.
Per capire quanto siano rilevanti tali caratteristiche, basta ricordare alcuni numeri che Aziz non si perita di snocciolare. Il mercato dei sukuk funziona già in una ventina di paesi dislocati fra l’Asia, il Medio Oriente e, come dicevo, in Europa. Ma negli ultimi anni molti altri paesi, a cominciare da quelli africani, hanno lavorato per rendere compatibili le loro pratiche regolatorie con tale strumento, in modo da rendere più semplice la sua emissione.
Ma soprattutto, ciò che fa sorridere Aziz è la consapevolezza che Asia, Medio Oriente e Africa, nei prossimi anni, dovranno colmare un importante deficit di infrastrutture ai fini del quale il sukuk si connota come lo strumento ideale. Non solo per la sua connotazione religiosa – molto di questi paesi sono islamici o vicini all’Islam – ma soprattutto per le sue caratteristiche tecniche. La logica della compartecipazione agli utili nei progetti sembra quella più adatta per ottenere finanziamenti per progetti di sviluppo che, in teoria, dovrebbero ripagarsi con gli utili.
Infatti Azizi ci ricorda che nell’ultimo decennio 95 miliardi di emissioni di sukuk sono serviti a finanziare progetti infrastrutturali in dieci diversi paesi e si stima che da qui al 2020 serviranno 8,3 trilioni di dollari di finanziamenti per progetti di infrastruttura in Asia e altri due trilioni per progetti dello stasso tipo nel Medio Oriente.
Anche le economie in via di sviluppo dell’Africa sembrano fatte apposta per usare i sukuk come strumento per finanziarsi. Per questi paesi la circostanza che abbiano un rating basso sembra fatta apposta per incoraggiarli a rivolgersi al mercato dei sukuk, che non guarda al voto delle agenzie, ma bada al sodo: ossia a cosa metti sotto le obbligazioni che cerchi di vendere. E l’Africa, per quanto povera, è assai ricca di risorse naturali, che possono essere un ottimo collaterale per i i sukuk.
Comprensibile che Aziz sponsorizzi la sua Malesia come proxy ideale per queste operazioni. Il mercato malese dei sukuk vale già 158 miliardi di dollari e già dal lontano 2002 il governo malese ha lanciato il primo sukuk sovrano, raccogliendo 600 milioni di dollari dagli investitori internazionali. Da allora molta strada è stata fatta. Le emissioni sono state liberalizzate per consentire anche ad altre istituzioni finanziarie di emettere sukuk denominati anche con valute diverse da quella malese.
La conseguenza è che oggi il mercato malese dei sukuk è ampio e liquido. “Per completare il nostro mercato dei sukuk – spiega Aziz . stiamo anche esplorando altri canali di finanziamento per assistere le piccole e medie imprese”. La piattaforma finanziaria multicanale malese, di conseguenza, è diventata un punto di riferimento anche per le istituzioni finanziarie di altri paesi. Tanto più da quando la Islamic liquidity management corporation, un’entità fondata nel 2010 da Indonesia, Kuwait, Lussemburgo, Malesia, Mauritius, Nigeria, Qatar, Emirati Arabi e l’Islamic development bank, ha iniziato a facilitare l’emissioni di obbligazioni tipo sukuk a breve termine, che completano quindi l’offerta di prodotti finanziari.
Insomma, i sukuk possono andar molto bene per i paesi emergenti e in via di sviluppo, ma anche per quelli avanzati, che grazie ai sukuk possono diversificare efficacemente i loro portafogli. Di fronte alla domanda crescente di finanziamenti nei paesi bisognosi di infrastrutture, il sukuk si candida a fare la parte del leone. Anzi della tigre.
La tigre malese, ancora acquattata in attesa che si completino le condizioni del mercato, si prepara perciò al grande balzo. Il sukuk, conclude Aziz, potrebbe contribuire a rendere i mercati più stabili e a generare nuovi flussi finanziari capaci di migliorare la globalizzazione dei capitali.
La tigre malese sarà una grande protagonista di questa rivoluzione.
Si prepara la rivincita di Sandokan.
La finanza alternativa c’è già. In Islam
Quelli che auspicano una finanza alternativa dovrebbero impiegare un po’ di tempo a leggere qualcosina sulla finanza islamica. Io ogni tanto mi ci avventuro perché noto la crescente attenzione nei confronti di questo modello di organizzazione che, al di là del sostrato religioso che sussume, si differenzia in maniera determinante dal nostro.
Nella finanza islamica, infatti, l’attenzione è concentrata sulla relazione fra debitore e creditore. La sottolinea in ogni passaggio e la mette in rilevo, collegando ad essa, ad esempio, il principio della condivisione del rischio, e quindi dei profitti o delle perdite, degli investimenti.
Al contrario, noi abbiamo lavorato nel corso degli anni per allentare sempre più, fino ad annullarla, questa relazione. Cos’altro è il modello originate-to-distribute?
Noi occidentali abbiamo cercato in tutti i modi di eliminare il rischio insito nella relazione debitore-creditore, impacchettandolo in strumenti derivati smerciati all’ingrosso, per provare a dimenticare quella che è la realtà: ossia che il credito è rischioso.
Un tenue travestimento, peraltro molto remunerativo per chi lo mette in opera, della paura che tale rischio comporta.
Al contrario, i finanzieri islamici tengono talmente presente la realtà della relazione fra debitore e creditore che ne hanno fatto il pilastro portante dei loro strumenti finanziari.
Vi sembrerà filosofia. Ma il pensiero sta a monte della tecnica economica e la determina.
Per rendersene conto basta leggere il discorso di Zeti Akhtar Aziz, governatore della Banca centrale malese, tenuto a Jedda lo scorso 27 novembre, intitolato“Islamic finance –financial stability, economic growth and development”.
Capirete, leggendolo, che la filosofia intrinseca nella finanza islamica ha condotto questi paesi a costruire un sistema che, di anno in anno, si propone sempre più come interlocutore del sistema finanziario globale, arrivando persino a delineare una soluzione al dilemma fra squilibrio e depressione che affligge le nostre economie.
E’ proprio questo dilemma che il banchiere malese affronta all’inizio del suo intervento. “Cinque anni dopo la crisi – osserva – la sfida più pressante dell’economia globale è su come assicurare la stabilità finanziaria e insieme generare crescita e sviluppo”. Sono state fatti progressi sul versante della regolazione, spiega, ma la crescita stenta ancora a ripartire.
Ma ci sono alcune lezioni che la crisi dovrebbe avere insegnato.
La prima è che “l’espansione esponenziale dei sistemi finanziari non è commisurata a quella dell’attività economica. C’è una profonda disconnessione fra il settore finanziario e il suo ruolo di servire all’economia. La deregolamentazione ha aperto nuove opportunità alle istituzioni finanziarie, ma il link con le attività economiche è rimasto debole”. Per giunta “un prolungato periodo di tassi bassi in un ambiente di bassa inflazione può far assumere grandi rischi e contribuire a crescite significative degli squilibri finanziari”.
Insomma: stiamo ricreando le condizioni per il default prossimo venturo.
La seconda constatazione è che il ruolo dell’indebitamento è stato determinante per l’esplosione della crisi. “Alcuni report calcolano nel 300% del Pil il livello di debito delle economie avanzate”. E “le misure eccezionali e straordinarie intraprese dalle banche centrali fanno crescere le distorsioni nei mercati e hanno un costo per i risparmiatori, tanto più elevato quanto più rimarranno in campo”.
A fronte di questa situazione, la finanza islamica si propone innanzitutto di riancorare la finanza all’economia reale, al fine di creare un ambiente finanziario sostenibile e insieme le condizioni per una crescita equilibrata.
Ed ecco che il principio della condivisione del rischio fa capolino. “Uno dei requisiti della finanza islamica è che la transazioni devono supportare una genuina attività economica. Inoltre è un regime finanziario che mette l’enfasi sulla condivisione del rischio e questo rinforza il legame con l’economia reale”.
Il principio della condivisione del rischio non è nuovo, sottolinea, citando il caso del venture capital. Il principio della finanza islamica è lo stesso: l’investitore viene remunerato sulla base dei profitti che riesce a realizzare l’mpresa, o subisce una perdita se tali profitti non arrivano. “Questo principio – sottolinea – riduce il rischio di fare troppo affidamento sul finanziamento del debito, evitando insieme il debito eccessivo e la speculazione”.
“I contratti fra il finanziatore e l’imprenditore – spiega – mettono grande enfasi sulla creazione di valore e la capacità di creare profitto dell’impresa”, in tal modo si crea un link stretto fra finanza ed economia dove la prima non può (e non deve) crescere più della seconda.
Il principio della condivisione del rischio obbiga i prestatori a effetturare al contempo assennate due diligence prima di concedere credito, visto che non è possibile cartolarizzarlo e spedirlo altrove, “in modo da assicurare che i profitti siano commisurati con i rischi”.
Tutto ciò, sottolinea, conduce anche a una più equa distribuzione della ricchezza e alla possibilità di dare credito alle piccole realtà “aumentando il potenziale di una crescita economica bilanciata”.
Se ancora pensate che si tratti di belle teorie, date un’occhiata a questi numeri.
Il mercato dei sukuk, che potremmo definire semplificando i bond islamici, è cresciuto esponenzialmente in questi ultimi anni. Dai circa 33 miliadi di dollari di sukuk presenti nel 2006, si è arrivati a un valore di 292 miliardi a dicembre 2012. E il futuro è quantomai incoraggiante.
Nel 2013, leggo nel Global sukuk report riferito al secondo quarto 2013, le emissioni di bond islamici sono cresciute ancora, spinte – strano ma neanche tanto – dalla paura del tapering americano, portandosi a un totale di 61,2 miliardi.
“Le future prospettive di crescita dei paesi del golfo e di quelli asiatici – osserva – supportano le previsione di uno sviluppo dei mercato dei sukuk, specie in ragione del crescente fabbisogno di investimenti in infrastrutture”, che il nostro banchiere quota il almeno 8.300 miliardi di dollari da qui al 2020.
Sempre a patto, ovviamente, che la finanza islamica continui ad evolversi prendendo il buono che c’è nella nostra finanza, a cominciare dalle istanze regolatorie.
Che il futuro arrida a questi strumenti finanziari alternativi, lo conferma anche un report del 28 novembre scorso di Standard&Poor’s, dal titolo icastico: “Islamic Finance 2014: We expect continued double-digit growth, and a push for regulation and standards”.
S&P calcola che gli asset totali denominati secondo i principi della Sharia siano arrivati a 1.400 miliardi di dollari, malgrado “tale industria sia ancora nella sua fase formativa”. “Ma noi crediamo – sottolineano gli autori – che sia solo una questione di tempo prima che raggiunga una massa critica”. Sempre che, ovviamente, i finanziarieri islamici riescano a definire un ambiente regolatorio di livello.
Il 2014 potrebbe essere proprio l’anno della svolta, nota S&P.
Alfieri di questo sviluppo potrebbero essere paesi come l’Oman, la Nigeria e soprattutto la Turchia e l’Indonesia.
In Turchia, paese islamico moderato, l’Islamic banking è cresciuto notevomente negli ultimi anni, grazie anche alle legislazione favorevole voluta dal governo. E il mese scorso la Turchia ha emesso il suo secondo sukuk sui mercati internazionali.
