Finanza e petrolio alla base del matrimonio fra russi e cinesi

L’aspetto probabilmente più curioso del matrimonio di interessi che Cina e Russia portano avanti ormai da diversi anni è che la quota di investimenti diretti che i due paesi condividono è pressoché ininfluente. La banca centrale russa riporta che gli investimenti diretti cinesi nel totale dei flussi ricevuti dalla Russia è rimasta a lungo sotto l’1%.

Fra il 2014 e il 2015, in corrispondenza della crisi ucraina che fece collassare gli altri investimenti esteri in Russia mentre si registravano notevoli investimenti cinesi in alcuni progetti energetici (gli impianti nella penisola di Yamal lungo la rotta artica russa russa), la quota di FDI (foreign direct investment) cinesi toccarono un picco del 10%, per rientrare però rapidamente verso la normalità. Nel 2018 si era già tornati all’1%. Dal canto suo, la quota russa degli investimenti in Cina nell’ultimo decennio ha oscillato sempre intorno all’1%, arrivando al 2% nel 2015 per scendere allo 0,5% nel 2018.

Queste cifre danno l’idea di una consuetudine economica quantomeno curiosa fra due paesi che si vorrebbero partner di lungo periodo, ma che invece somigliano a soci avventizi. Peraltro ciò che si osserva, notando ad esempio i crediti concessi dalla Cina alla Russia, è che in buona sostanza si tratta di finanziamenti legati a grandi progetti energetici, come ad esempio i 25 miliardi di dollari di crediti che la China Development bank ha concesso a Rosfnet e Transfnet in cambio di forniture di petrolio per finanziare la componente cinese dell’ESPO oil pipeline.

E questo ci porta alla conclusione che il motivo energetico – lo abbiamo visto di recente anche con la presentazione del gasdotto Power of Siberia – è uno dei capisaldi della collaborazione russo-cinese. Questo conduce a una importante conseguenza: si è instaurato un legame finanziario abbastanza profondo fra i due paesi dalle conseguenze ancora poco difficili da individuare.

In un mondo che vende petrolio e gas in dollari, lo scambio energetico avrebbe dovuto originare un corrispettivo in valuta Usa. Cosa che è accaduta. Ma è accaduto anche altro: Russia e Cina hanno iniziato a scambiare altre valute. E anche questo ha precise ragioni geopolitiche. La Russia già dal 2014 – sempre dopo la crisi ucraina – ha iniziato un percorso di de-dollarizzazione in risposta al taglio dei finanziamenti a lungo termine che l’Occidente le ha inflitto a causa delle sanzioni. Al tempo stesso la Cina ha visto crescere l’uso internazionale della sua valuta, che sebbene ancora di nicchia, è molto cresciuta come valuta degli scambi regionali e anche come valuta di riserva, specie dopo l’ingresso nel basket degli SDR del Fmi, nel 2016.

Non a caso, un anno prima, la Russia annunciò di avere aggiunto lo yuan (CNY) nelle sue riserve estere, dopo aver firmato un accordo di currency swap nel 2014. All’inizio la quota di yuan era modesta, ma nel secondo quarto del 2018 la Russia ha intensificato la sostituzione, nelle riserve estere, di dollari con euro e yuan. Quest’ultimo è arrivato a rappresentare il 15% delle riserve estere russe, a fronte di una media del 2% nelle altre banche centrali. A metà giugno 2019 la Russia aveva 68 miliardi di dollari di riserve denominate in yuan a fronte dei complessivi 217 detenuti dalle 149 banche centrali che riportano i dati al Cofer del Fmi.

Ma aldilà del dato sulle riserve estere, è più interessante osservare che Russia e Cina hanno iniziato a usare meno dollari nelle transazioni reciproche. I dati della banca centrale russa mostrano che nella prima metà del 2019 solo il 39% dell’export russo verso la Cina era denominato in dollari, a fronte del 75% nel 2018. Una larga quota di questo export è stato denominato in euro (46% a metà 2019 a fronte del 12% nel 2018) e anche la quota di export denominato in rubli è cresciuta (9%). Il dollaro rimane invece la valuta principale di denominazione delle importazioni russe, pure se in calo (67% nel 2019 a fronte del 72% nel 2018).

Il combinato disposto di petrolio&finanza è stato di fatto il pilastro sulla base del quale si è edificato il recente sodalizio fra i due paesi, che però, non è profondo come si potrebbe credere. Forse perché troppo giovane. Forse perché c’è ancora qualche diffidenza che il comune interesse – “difendersi” da certi atteggiamenti Usa – non basta a superare. Ma entrambi sanno, come scrivono gli economisti del Bofit, che “è impraticabile per la Cina e la Russia abbandonare completamente il dollaro nel presente mercato globale”.

Il grafico sopra sommarizza meglio di ogni ragionamento la ragioni della conclusione cui arrivano gli osservatori. Ma è chiaro che non tiene conto dei progressi che stanno intervenendo nei rapporti fra i due paesi e soprattutto non considera il peso di una variabile importante come può essere l’Ue e, in particolare, l’Eurozona, che esprime una valuta di riserva importante e acquista parecchio petrolio pagandolo in dollari.

In ogni caso, i rapporti fra Cina e Russia, proprio per la relativa giovinezza della loro frequentazione economica e per tipologia che essa ha assunto sono soggetti naturalmente anche ad improvvisi sbandamenti. In questo caso la Russia ha sicuramente molto da perdere, da un rallentamento della Cina. Assai più di altri. E il petrolio, che è stato il viatico dell’infittirsi della relazioni fra i due paesi, potrebbe diventare lo strumento del contagio. Se la domanda cinese di petrolio continuerà a diminuire – secondo le statistiche di BP la Cina ha pesato il 40% dell’incremento di domanda globale di greggio fra il 2010 e il 2018 – ciò condurrà a un inevitabile calo di prezzi, dai quali dipende buona parte della salute dell’economia russa. E questo non predispone verso rapporti amichevoli.

(2/fine)

Puntata precedente: Se l’economia cinese starnutisce quella Russia prende l’influenza

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