Russia e Cina alla conquista dell’Artico

La collaborazione fra Russia e Cina nella partita dell’Artico è solo l’ennesima corrispondenza d’amorosi sensi fra i due paesi che sta sollevando crescenti preoccupazioni dall’altra parte dell’Artico e che ormai procede da un trentennio su vari fronti, a cominciare ovviamente da quello nel settore militare. Una partita complessa, nella quale la variabile relativamente recente dell’alleanza sino-russa si inserisce in quella del controllo strategico di una regione  – l’Oceano Artico – che formalmente ricade sotto la giurisdizione dell’United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), ma sul quale, in pratica, si affaccia una parte importante della costa russa. Ciò conferisce di fatto un vantaggio territoriale, se non una supremazia, che fa della Russia il protagonista più attivo del Grande Risiko del Nord.

Non è certo un caso che proprio sotto la legislazione russa si stia articolando un’altra importante strada di collegamento, la Northern Sea Route (NSR) che collega via mare il Mare di Kara all’Oceano Pacifico. In questo modo la Russia consoliderà il suo vantaggio strategico sull’area, ricevendo enormi benefici di tipo economico e commerciale, riducendo notevolmente le percorrenza fra l’Europa e Cina e i costi di trasporto fra il 30 e il 40%. Proprio questa caratteristica ha sollevato l’attenzione della Cina che ha evidentemente tutto l’interesse a usare vie di collegamento più efficienti per incrementare i suoi traffici fra Europa e Usa. La Russia dal canto suo ha tutto l’interesse a consolidare i rapporti con i cinesi.

Le cronache riportano di un incontro, avvenuto il 29 marzo 2017, fra pezzi grossi del governo cinese e delle grandi compagnie private del paese con i loro omologhi russi in una cittadina russa che affaccia sulla costa artica, di recente divenuta navigabile per tutto l’anno grazie ai progressi compiuti dalla tecnologia russa per spaccare il ghiaccio. L’incontro è servito a fare il punto sull’approfondimento del link fra i due paesi nella regione, che promette di essere promettente per entrambi.

Queste connessioni sono bene illustrate in diversi articoli pubblicati dal Sipri che punta sulla variabile energetica – le riserve stimate di gas e petrolio custodite nell’Artico – per illustrare come la collaborazione sino-russa possa rivelarsi particolarmente vantaggiosa per entrambi i paesi in questa particolare declinazione dell’economia. La Russia ha tradizionalmente sviluppato le sue relazioni nel settore energetico con l’Europa, da sempre suo mercato di riferimento. Ma ormai da diverso tempo l’Asia – e quindi la Cina – viene sempre più considerata come un partner strategico più interessante sia sul versante della collaborazione tecnica e come investitore, che su quello del mercato. Dai cinesi i russi possono trarre partnership e mercati di sbocco. In tal senso l’Artico, sul quale la Russia investe da un decennio in termini militari e infrastrutturali è un interessante laboratorio. Anche la Cina infatti, da almeno un decennio, ha iniziato a puntare l’Artico, e ciò ha consentito di sviluppare relazioni con la Russia, pure se molti osservatori notano come le prospettive di collaborazioni ancora più ampie siano limitate. E tuttavia, essere presente sulle rotte artiche coincide con l’affermazione della presenza cinese in aree dove finora la Cina non ha avuto influenza, un po’ come è successo con l’Africa.

A fronte di queste premesse, sia la Russia che la Cina devono tenere conto di complessità circostanziali che rischiano di diventare sostanziali nel processo di sviluppo dell’economia dell’Artico. La Russia, ad esempio, è stata costretta dagli andamenti del mercato energetico a limitare gli sviluppi di esplorazioni nella penisola di Yamal, una propaggine nordica della Siberia nord-occidentale perché già in eccesso di produzione a causa delle tensioni con l’Ue, che sta cercando sempre più di diversificare le fonti di approvvigionamento, e con l’Ucraina, la terza grande consumatrice di gas russo, e soprattutto a causa dello sviluppo dello shale oil. Con i prezzi attuali, in sostanza, investire sull’Artico è poco profittevole e gli esperti calcolano che così continuerà ad essere finché il petrolio quoterà sotto i 100 dollari al barile.

Oltre a questa difficoltà puramente economica ce n’è anche un’altra di tipo operativo. Le sanzioni decise dall’Ue e dagli Usa dopo l’annessione russa della Crimea hanno tagliato fuori Mosca dai trasferimenti di macchinari ed equipaggiamenti di ultima generazione. In sostanza la Russia sta subendo un embargo anche tecnologico che rischia di danneggiare il suo settore energetico. Il bando subito dalla Russia include anche le esplorazioni delle riserve di shale oil che si pensa siano custodite nell’Artico. Tutto ciò ha costretto le compagnie petrolifere occidentali, come Exxon Mobile o Statoil, a sospendere la collaborazione con le colleghe russe, il che, aggiungendosi alla messa al bando finanziario ha lasciato le compagnie russe in debito non solo di tecnologia ma anche di risorse per setacciare il Polo Nord. Ed è in questo scenario che la Cina ha trovato ampi margini di penetrazione.

La Cina ha chiaro che la Russia, semplicemente per la sua posizione geografica, è uno dei grandi player del Grande Gioco Artico e quindi ha tutto l’interesse a serrare le relazioni con Mosca se vuole espandere la sua influenza nella regione. E ha tutte le ragioni per farlo. La sua fame di energia, malgrado il calo di consumi registrato dopo l’esplodere della crisi, rimane elevatissima e le sue compagnie pubbliche (state-owned enterprises) sono alla costante ricerca di nuovi territori ad alto contenuto energetico. E poi, come abbiamo detto, c’è la vicenda commerciale. Per un paese che vive di commerci internazionali come la Cina, ogni nuova via di collegamento rappresenta un business potenziale che non può essere sottovalutato, e lo scioglimento dei ghiacci, da questo punto di vista, rappresenta una straordinaria opportunità. La Cina ha tutto l’interesse a costruire le sue nuove via di collegamento globali – pensate alla visione della Belt and road initiative – e l’Artico potrebbe essere una di queste.

Se risultano chiari i vantaggi teorici reciproci fra Russia e Cina, rimane da vedere quali passi siano stati fatti. Le cronache riportano di un incontro fra la compagnia petrolifera russa Rosneft e la China national petroleum corporation (CNPC) avvenuto fra febbraio e marzo del 2013 proprio per discutere, all’interno di un round di negoziazioni dedicato proprio alle questioni petrolifere, di possibili cooperazioni per piattaforme petrolifere nei mari artici. In alcune zone si stimavano giacimenti capaci di pompare dai 3,9 ai 5,5 milioni di tonnellate di petrolio l’anno. Nel 2014 il boss della Rosneft Igor Sechin confermò l’impegno a lavorare con i cinesi, essendo persino disposti a concedere loro quota proprietarie del progetto. L’intenzione è stata ribadita anche nel 2015 dal vice ministro dell’energia russo, ma ancora non se ne è fatto nulla. Gli analisti ipotizzano che ci sia ancora una certa riluttanza dei cinesi, che forse chiedono condizioni più vantaggiose o ruolo di gestione dei progetti artici. Però il dialogo è aperto. E uno dei campi dove molti ipotizzano si potrebbe sviluppare, aldilà di quello finanziario, è proprio quello tecnologico. Le sanzioni contro la Russia, che hanno privato il paese dell’accesso a molte nuove tecnologie, hanno lasciato il campo aperto alla Cina che infatti ha infittito la sua collaborazione con Mosca. Nel settembre del 2015, ad esempio, la China Oilfield service limited (COSL) ha siglato un accordo con la Rosneft e la norvegese Statoil per realizzare due pozzi di esplorazione sul mare di Okhotsk, che ha condizioni tecniche simile a quelle della zona artica, e che ha inaugurato una collaborazione a tre che potrebbe trovare nell’Artico il luogo migliore dove esercitarsi.

Sul versante dei progetti petroliferi onshore – visto che quello offshore è ancora poco battuto – si segnala la visita del capo della Novatek, azienda russa attiva nella produzione di gas, del 2013 in Cina per discutere progetti di collaborazione nella penisola artica di Yamal. A settembre di quell’anno fu siglato un contratto fra i russi e la CNPC che prevede la fornitura di tre tonnellate di gas liquido l’anno alla Cina, pari al 18% della capacità dell’impianto, che è stato approvato dal governo russo a gennaio del 2014. dopo la crisi ucraina, che ha messo in crisi la Novatek – l’Ucraina era uno dei maggiori consumatori di gas russo – a settembre 2015 la Novatek ha venduto a un fondo sovrano cinese, il fondo sovrano per la via della seta il 9,9% della quota della Yamal liquefied natural gas (LNG), società che gestisce il progetto sulla penisola, per oltre un miliardo di euro ricevendo inoltre un prestito da 730 milioni per 15 anni per finanziare il progetto di esplorazione. Per la cronaca gli altri azionisti sono, oltre alla Novatek (50,1%) la cinese CNPC (20%) e la Total francese (20%). L’accordo ha conosciuto una ulteriore evoluzione l’aprile 2016 quando la Yamal LNG ha siglato un accordo con la Export-Import Bank of China e la China Development Bank per facilitazioni creditizie per 15 anni per un ammontare totale di 9,3 miliardi di euro per finanziare il progetto. Non bisogna farsi ingannare da tanto attivismo però: le negoziazioni sono state complesse e più volte ritardate, segno che la partnership è ancora tutta da costruire. Epperò è stata avviata e i cinesi ne hanno ricevuto già grandi benefici, visto che l’80% dei macchinari necessari per il progetto Yamal verrà realizzato in cantieri cinesi.

Il caso di Yamal finora è rimasto isolato. La cooperazione sino-russa, che ha tutte le caratteristiche per diventare strategica, finora non ha compiuto ulteriori progressi nell’Artico. I Russi sono ancora combattuti fra i loro bisogni – di soldi e tecnologie cinese – e il timore di cedere influenza ai cinesi. Questi ultimi, sempre più consci della loro forza, non sono disposti a concedere nulla che non serva a confermarla. Ma è chiaro che si tratta di contrasti tattici. La strategia gioca a favore di un accordo sistemico anche quando gli interessi sono portati a divergere. Il caso della competizione per la fornitura di tecnologie nucleari – si pensi alla gara internazionale lanciata dall’Arabia Saudita per installare reattori a uso civile che vede Russia e Cina in concorrenza con le compagnie Usa, francesi e sudcoreane – lascia capire che i fronti di frizione ci saranno sempre. Ma per quanto russi e cinesi possano non piacersi, il grosso della partita dell’Artico vede un terzo incomodo assai ingombrante che sull’Artico si affaccia: gli Usa. Nel confronto generale per l’egemonia che sembra inaugurare questo inizio di secolo, malamente dissimulato da un multipolarismo di facciata, la partita dell’Artico sarà un ottimo pretesto per chiarire la reale consistenza delle linee di forza che governano il pianeta. Come sempre, l’economia è solo un pretesto. La storia la scrivono i politici. A volte i generali.

(2/fine)

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