La Russia ha un problema: la transizione energetica

Un bel paper pubblicato da Bofit ha il merito di inquadrare uno dei temi più interessanti da osservare sul planisfero delle relazioni economiche, che inevitabilmente diventano politiche quando hanno a che fare con le questioni energetiche, in un mondo che vive – letteralmente – attaccato a una presa di corrente.

Il protagonista di questa lunga e articolata osservazione è la Russia, il cui peso politico dipende molto dall’importanza relativa del suo ruolo di fornitore di combustibili fossili, quindi olio e gas, a un mondo che (a parole) dice di sopportarli sempre meno, e anzi di volerne fare a meno. Il che, mutatis mutandis, significa che vuole fare a meno del contributo principale che la Russia – ma non solo lei ovviamente – a questo mondo offre.

Senza petrolio e gas la Russia semplicemente non può vivere nel XXI secolo. E poiché il mondo è impegnato (sempre a parole) in una lunga e difficile transizione energetica all’insegna delle energie pulite, ecco che improvvisamente il futuro prevedibile diventa una minaccia per Mosca, che ancora oggi, e malgrado le buone intenzioni, conta sul suo export energetico per tenere in piedi l’economia.

Le tabelle sopra permettono di apprezzare l’importanza del settore energetico nelle esportazioni russe, di molto superiore al 50%, e il peso specifico che questo export ha sulla finanza pubblica (circa il 24% degli incassi fiscali fra il 2011 e il 2019).

E’ bene anche sapere come l’energia, incluso il settore raffinazioni, pesi ben il 40% della produzione industriale e il 10% del pil, oltre a fornire un notevole contributo sulla produzione di servizi (trasporto e vendita). Stime più o meno concordi calcolano in almeno il 20% il contributo complessivo del settore Oil&Gas, che fra l’altro impegna circa 1,5 milioni di persone pari al 2% della forza lavoro, al pil nazionale.

Di fronte a questi numeri. risulta ovvio che la Russia ha una notevole rigidità economica. E soprattutto deve gestirla tenendo conto dell’estrema mutabilità del quadro geoeconomico e geopolitico che ruota attorno al complesso mondo dell’energia, del quale è un player di peso ma non l’unico, e neanche il peggiore fra quelli che dipendono dai combustibili fossili per il loro equilibrio economico.

Basti ricordare che secondo alcune stime l’Arabia Saudita ha un punto di pareggio della produzione energetica a 80 dollari al barile, a fronte dei 40 della Russia. Ma è vero altresì che le oscillazioni del greggio sono ancora capaci di far molto male all’economia russa, nonostante ormai dal 2014 il rublo sia lasciato libero di fluttuare – al netto degli interventi sul mercato valutario della banca centrale – per meglio assorbire le oscillazioni dei prezzi.

Ciò non impedisce che questi ultimi abbiano molto a che fare con il successo o la crisi dell’economia. Secondo i modelli citati nello studio, infatti, un aumento del prezzo del petrolio del 10% è capace di far crescere il pil allo 0,6 al 2%, e viceversa. Tutto questo in un mondo dove la domanda di energia va sempre più concentrandosi nelle zone emergenti.

Ricapitoliamo: la Russia deve continuare a vendere petrolio e gas per mantenere il suo status geopolitico, in un mondo che dice di volerne sempre più fare a meno. La Russia, perciò, ha un problema: la transizione energetica rischia di farla transitare nell’irrilevanza.

(1/segue)

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