La Grande Marcia cinese verso le istituzioni internazionali

Abbiamo già osservato come la Cina stia progredendo a grandi passi nel coinvolgimento per la governance di Internet. E abbiamo notato come questa partecipazione si sia giovata della crescente importanza che Pechino si è guadagnata all’interno dell’Onu, e in particolare nell’ITU, l’agenzia che si occupa di fissare alcuni standard tecnologici internazionali che il segretario, cittadino cinese, ha sempre più trasformato in un’agenzia tecnologica dove ormai si discute apertamente del futuro di internet.

Adesso vale la pena riportare brevemente una interessante ricognizione proposta da Ispi, che prende spunto da una ricerca del Council on Foreign Relations CFR), dove si osserva il ruolo di crescente importanza che la Cina ormai interpreta all’interno delle istituzioni multilaterali, Onu e non solo, che nei decenni trascorsi dal dopoguerra sono stati lo strumento principale della globalizzazione atlantica e adesso si trovano a un bivio molto interessante da osservare, essendo divenute di fatto crocevia fra la globalizzazione in carica e quella che abbiamo chiamato emergente, che trova in Cina, Russia, Turchia e probabilmente Iran, i vertici di una geometria di interessi che sta prendendo forma nello spazio della relazioni internazionali.

Limitiamoci per adesso al caso cinese osservando una curiosa attitudine di Pechino: mentre ribadisce con decisione il suo potere centralizzato, la Cina ripete a ogni pie’ sospinto che vuole promuovere un’internazionalizzazione basata sul multilateralismo. Quindi rafforzando il peso degli organismi internazionali, “corretti” però sempre più dalla presenza cinese. Per riuscirci Pechino mette innanzitutto mano al portafoglio, suo noto strumento di influenza, anche sulla scorta del meccanismo di calcolo dei contributi, che prende a riferimento il reddito nazionale, cresciuto negli ultimi anni in Cina assai più che altrove. La tabella sotto misura i contributi dei diversi stati al bilancio Onu.

Notate come il contributo statunitense sia rimasto costante negli ultimi tre lustri, a differenza di quello cinese, che si è moltiplicato per sei. Una misura che consente anche di valutare il peso politico conquistato dai cinesi all’interno dell’Onu, plasticamente rappresentato dalle quattro agenzie, ITU incluso, che i cinesi dirigono all’interno delle Nazioni Unite e delle altre dove hanno posizioni di rilievo.

Il fatto in sé è degno di nota e si capisce perché chi teme l’influenza crescente di Pechino nelle questioni globali lo abbia segnalato subito all’attenzione pubblica. Anche perché si è notato che i cinesi tendono a giocare in squadra con i russi, che spesso prendono il posto dei cinesi nei ruoli di vertice delle agenzie alla scadenza degli incarichi. Ad esempio, a febbraio di quest’anno il russo Kirill Gevorgian ha sostituito la cinese Hangin Xue al vertice dell’Internationa Court of Justice (ICJ). E della possibilità che un russo prenda il posto dell’attuale segretario dell’Itu si è parlato anche di recente.

E’ proprio questa capacità di far squadra dei cinesi che preoccupa gli osservatori. Mentre l’Occidente litiga e si lacera, mostrando una certa disattenzione verso gli organismi che hanno contribuito a decretare il suo successo nella governance globale nell’ultimo mezzo secolo, i cinesi si danno un gran daffare per tessere relazioni con i paesi più fragili – si pensi alla Belt and road initiative – che comunque in questi organismi sono rappresentati. L’Africa, per esempio: 46 stati africani su 54 partecipano ormai alla BRI cinese, e questo non è un dato da sottovalutare. Specie se si ricorda che la Cina, oltre a partecipare agli organismi “occidentali” se n’è costruiti altri dove di fatto è il soggetto aggregatore.

Non serve coltivare pregiudizi contro i cinesi per osservare con la dovuta attenzione le mosse di Pechino sul versante internazionale. Come abbiamo più volte osservato, c’è in gioco la globalizzazione nata con le rivoluzioni borghesi del XIX secolo, che hanno innovato il meccanismo di internazionalizzazione aggiungendo un ingrediente fino ad allora sconosciuto: un ordine politico liberaldemocratico che trova nel matrimonio fra politica ed economia, inteso come coniugazione di diritti civili, politici ed economici per le masse, la sua caratteristica peculiare insieme alla moneta (il dollaro), la lingua, (l’inglese) e le rotte commerciali (le linee marittime del commercio internazionale).

Ciò che il futuro ci dirà è se tale ordine continuerà a informare il processo di globalizzazione, o se prevarrà un diverso modo di concepire i diritti, ossia come subordinati – e quindi derivati – a quello della sicurezza. Quella del governo, probabilmente. E questo è il problema.

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