In un mondo diviso a blocchi perdono tutti, i poveri più degli altri

Il Fondo monetario, nella parte finale del suo WEO di aprile scorso, dedica un approfondimento all’andamento dei flussi di investimenti diretti esteri, che quando la globalizzazione era di moda fluivano liberamente dai paesi avanzati a quelli emergenti. Oggi che la globalizzazione non fa più chic, e all’uopo abbiamo coniato termini molto seducenti come reshoring, reglobalisation e altre amenità, quello che sta succedendo è che questi flussi cambiano destinazione. La ricollocazione degli investi diretti esteri premia gli amici, e per giunta più o meno affini, assai più che quei paesi dai quali si prevede arriverà la crescita.

La vittoria della ragione geopolitica, insomma, ossia la scelta di privilegiare valori diversi dalla convenienza economica, può essere una scelta molto ragionevole e persino meritoria. Ma ha un prezzo evidente. Allentare i legami internazionali, dei quali le difficoltà del commercio sono una cartina tornasole, genera meno crescita e perciò alla fine, meno risorse per tutti. E poiché piove sempre sul bagnato, come insegnano i proverbi, è del tutto evidente che il prezzo maggiore lo pagheranno le economie più fragili.

La morale di questa storia è che la globalizzazione è passata di moda perché da oltre un ventennio ne parliamo male e da un biennio abbiamo scoperto che tocca alcuni nostri nervi scoperti e assai sensibili. Improvvisamente abbiamo scoperto di essere fragili.
Lo eravamo da tempo, ovviamente. Ma quando il re si scopre nudo scattano certe reazioni automatiche, come quella, appunto, di serrare i ranghi. Che è esattamente quello che i paesi ricchi stanno facendo. Ma dovremmo anche provare a capire, come fa il Fmi, quali possano essere le conseguenze non intenzionali della “frammentazione degli investimenti diretti”.
Nei vari scenari elaborati dal Fondo, quella che immagina un mondo diviso in due blocchi – Usa e suoi satelliti e Cina e suoi satelliti, con India, Indonesia e paesi caraibici non allineati – la crescita globale sarebbe l’un per cento più bassa dopo cinque anni dal verificarsi dell’ipotesi, con la tendenza ad arrivare al due per cento mano a mano che le restrizioni degli investimenti impediscono la formazione del capitale e quindi diminuiscono la produttività.
La perdita di prodotto sarebbe più elevata nel blocco “cinese”, ma non sarebbe trascurabile neanche per il blocco “americano” visto che molti paesi asiatici che potrebbero iscrivervisi (Giappone e Corea) hanno importanti relazioni economiche con i cinesi. Per i paesi non allineati l’impatto dipende da molte circostanze che non serve qui riepilogare.

Basta osservare il grafico sopra per capire un mondo diviso serve semplicemente a far rallentare l’economia globale, provocando persino una divertente competizione fra i blocchi per attrarre nella loro orbita le economie non allineate, con l’Ue in un ruolo incerto.

In conclusione, pure se sviluppare politiche per promuovere investimenti diretti pressi paesi amici “può beneficiare alcuni paesi”, com’è logico che sia, nell’insieme ciò che se ne ottiene è un regresso sul versante della crescita. Che farà piacere a chi crede che siamo troppo ricchi e che dovremmo rallentare. Lo stesso che poi, quando succederà, magari cambierà idea. Ma sarà troppo tardi.
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Tre sono le previsioni che possono essere formulate sul processo di “friendshoring” in corso. Fermo restando che l’aspetto geopolitico e l’aspetto economico sono strettamente collegati, esse riguardano essenzialmente il ruolo della Cina nel processo di ricomposizione e scissione dell’ordine mondiale: 1) la Cina aspira ad essere forza della ricomposizione rispetto ad un’America passata sul versante della scissione da quando lo sviluppo ineguale ha innalzato l’Asia e spinto gli USA al declino relativo (questa è la tesi ottimistica); 2) si profilano ormai due blocchi mondiali con Cina e Russia da una parte (consapevoli che nella contesa ‘simul stabunt, simul cadent’) e USA e alleati dall’altra (questa è la tesi realistica); 3) la previsione più probabile è però quella di un lungo disordine multipolare che prepara il passaggio dalla crisi alla rottura dell’ordine, come nel 1914 e nel 1939 (questa è la tesi catastrofica).
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Salve,
E poi c’è una quarta ipotesi che è quella che preferisco: non succede nulla del genere (almeno non in questo modo) e accada qualcos’altro che ci sorprende, come è accaduto ad esempio nel secondo dopoguerra.
Ciò per dire che è bello fare ipotesi, ma è ancora più bella quando non si verificano.
Grazie per il commento
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Sottoscrivo la Sua ipotesi, ma la ritengo piuttosto improbabile…
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