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Conto alla rovescia per l’euro digitale: si prepara un’altra rivoluzione monetaria

La data è stata fissata, si potrebbe dire riecheggiando una celebre serie televisiva del passato, che preconizzava un’invasione aliena. E in effetti c’è molto di alieno per il pubblico nel recente annuncio della Bce che se tutto va come dovrebbe, nel 2029 l’euro digitale farà capolino nei nostri wallet. Un’innovazione che solo pochi riescono ad apprezzare nella loro enormità.
L’euro digitale, in effetti, è un’autentica rivoluzione. E certo fa riflettere che l’Europa riesca ad esprimere le sue migliori capacità solo quando si tratta di innovare in campo monetario. L’ha fatto nel 2002, quando ha introdotto la prima moneta priva di uno stato emittente, emessa da un circuito di banche centrali. Lo farà presto emettendo la prima valuta digitale globale. Sempre che, ovviamente, la politica faccia la sua parte.
Nel lungo comunicato che annunciava la chiusura della fase di preparazione, iniziata nel 2023, la Bce spiega chiaramente che il presupposto dell’emissione dell’euro digitale nel 2029 è l’emissione della normativa da parte dei legislatori europei. Si tratta di approvare un regolamento molto complesso in tempo per arrivare, nel 2027, a far partire l’esercizio pilota che durerà molti mesi. I costi stimati per l’avvio dello sviluppo sono di 1,3 miliardi di euro che diventeranno 320 milioni l’anno per il funzionamento dell’infrastruttura necessaria a far circolare la nuova moneta digitale.
Rimane adesso da capire perché questa scelta sia stata ritenuta talmente necessaria che i leader dei paesi europei, nell’ultimo vertice di ottobre scorso, hanno chiesto alla Bce di accelerare i progressi nella digitalizzazione dell’euro.
La Bce spiega che “un euro digitale preserverà la libertà di scelta e la privacy dei cittadini europei e proteggerà la sovranità monetaria e la sicurezza economica dell’Europa. Promuoverà l’innovazione nei pagamenti e contribuirà a rendere i pagamenti competitivi, resilienti e inclusivi in Europa”. Per apprezzare questa dichiarazione bisogna analizzare le varie questioni connesse allo sviluppo dell’euro digitale.
Cominciamo da una distinzione fondamentale. L’euro digitale è moneta di banca centrale, esattamente come il contante che tenete nel portafoglio. La moneta che fate circolare attraverso un bancomat, una carta di credito o un assegno, invece, non è moneta di banca centrale, ma moneta bancaria. La prima è una moneta emessa da un’entità pubblica. La seconda è emessa da un soggetto privato.
Se guardiamo alla quantità di moneta in circolazione, quella privata è molto più abbondante di quella pubblica. Ma questo “miracolo” riesce solo perché la moneta bancaria si basa sulla fiducia che gli operatori hanno in quella pubblica. Detto semplicemente, nessuno distingue fra l’euro di banca centrale e l’euro della banca commerciale. Perché, nei fatti sono la stessa cosa, anche se tecnicamente fanno riferimento a soggetti e logiche di emissione differenti.
Distinguere fra moneta di banca centrale e moneta distribuita dalle banche commerciali ci consente di fare un’altra precisazione terminologica che spesso genera molta confusione anche fra gli operatori: quella fra moneta digitale e moneta elettronica. L’euro digitale è una valuta di banca centrale digitalizzata. Gli euro della carta di credito sono moneta elettronica, ossia moneta emessa da un soggetto privato che circola attraverso circuiti elettronici.
Questo ci permette di comprendere un’altra distinzione fondamentale: quella fra una moneta digitale che fa riferimento a una valuta emessa da una banca centrale, come l’euro digitale, e una moneta digitale emessa da un soggetto privato, come una qualunque stablecoin. La prima è una moneta. La seconda è un asset.
Fatte queste premesse, osserviamo rapidamente come si stiano evolvendo le modalità di pagamento nell’eurozona, prendendo come fonte il rapporto SPACE della Bce pubblicato nel dicembre scorso.

L’acronimo POS sta per Point Of Sale, ossia punti vendita. P2P sta per Person To Person. Come si può osservare il declino del numero dei pagamenti nei punti vendita è andato di pari passo con l’incremento dei pagamenti on line, che sono triplicati fra il 2019 e il 2024. E questo è un primo indizio dell’importanza che avrà in futuro poter disporre di un euro digitale.
Il motivo è presto detto: mentre una moneta elettronica ha bisogno di un soggetto bancario per poter circolare, una moneta di banca centrale è alla portata di tutti. Per dirla diversamente: serve essere titolari di un conto corrente per avere una carta di credito, basta una tasca per conservare una banconota.
Nel caso dell’euro digitale basterà avere un dispositivo digitale con un wallet. Questo significa che tutti i soggetti “non bancati” avranno accesso al sistema dei pagamenti anche se devono fare pagamenti on line. E se si considera che i più grandi utilizzatori di pagamenti on line sono i giovani, che spesso non hanno un conto corrente, ecco che si comprende la potenziale trasformazione della domanda di consumi che l’euro digitale porta potenzialmente con sé. Oggi un genitore che voglia dare una paghetta al figlio minore che non ha un conto corrente deve usare il contante fisico. Domani sarà sufficiente trasferire il contante via app.
Se guardiamo ai dati circa l’utilizzo del contante in Europa (grafico che apre il post). osserviamo che il valore del cash in circolazione supera il 10% del pil dell’Eurozona. Questo ci dà un’idea circa la potenziale mole di pagamenti che l’attivazione dell’euro digitale può movimentare.
C’è ancora un’altra questione che non è banale ricordare. I circuiti di pagamenti elettronici, quelli sui quali girano le carte di credito per intenderci, sono in larga parte non europei. L’Euro digitale circolerà fuori da questi circuiti. Quindi non dovremo sopportarne i relativi costi di transazione. In più, come scrive la Bce “proteggerà la sovranità monetaria”. E adesso sappiamo anche perché.
Questo post è stato pubblicato su Aspenia On Line lo scorso 31 ottobre.
Cartolina. Il contagio

Il Fmi ha calcolato che l’esposizione del sistema bancario alle Non-Bank Financial institutions, fra Europa e Usa ammonta a 4,5 trilioni di dollari, 2,6 dei quali già erogati, mentre il resto risulta impegnato. In media questo corrisponde a circa il 9 per cento del portafoglio prestiti delle banche osservate. Ma la casistica è assai più fantasiosa. Non serve qui riepilogare, ne riparleremo. Limitiamoci a ricordare che stiamo nutrendo, nel profondo del nostro sistema finanziario e per puro amore del rendimento, degli organismi potenzialmente rischiosi. Questi soggetti, inoltre, si replicano furiosamente: l’esposizione verso alcune categorie di NBFIs è cresciuta del 59 per cento fra la fine del 2024 e la metà del 2025. Sono virali, in tutti i sensi. Quindi contagiosi. Ma non esiste alcun vaccino.
Cartolina. Mediocrità

L’Europa sta convergendo “verso una mediocre traiettoria di crescita”, scrive il Fmi nel suo ultimo outlook sulla nostra regione. Mediocre è una parola dai molti significati. La medietà, nel passato, è stata persino associata alla virtù. Ma poiché il Fmi non fa letteratura ma produce numeri è probabile si riferisca al fatto che i nostri tassi di crescita si appiattiscono insieme al nostro entusiasmo per la costruzione europea, che ormai segnala pericolosamente la sua esaustione, purtroppo contrastata con molte parole e pochi fatti concreti. La “mediocre traiettoria di crescita”, non è affare che riguardi solo il pil. Riguarda tutti noi.
L’irresistibile ascesa delle non banche accresce i rischi di stabilità per le banche


Il Fmi dedica l’ennesimo approfondimento all’irresistibile crescita delle non bank financial institutions (NBFIs) all’interno del sistema finanziario internazionale di cui abbiamo parlato in tante occasioni. Gli ultimi dati riportati nel Global financial stability report confermano che la Grande Trasformazione della finanza che abbiamo raccontato nei mesi scorsi è sempre più in corso e promette d allargarsi a macchia d’olio senza che nessuno sia in grado di capire la quantità e la qualità delle sue conseguenze.
Sappiamo già che ormai le NBFIs, entità finanziaria che prendono a prestito dalle banche e poi prestano ad altri soggetti come fossero banche, ma senza esserlo, giocano un ruolo rilevante anche nel mercato dei bond sovrani, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Adesso il Fmi ci informa che “negli Stati Uniti, le banche che rappresentano quasi il 50% delle attività campione hanno esposizioni verso le NBFI superiori al loro capitale di Classe 1”. Le grandi banche Usa fungono da principali finanziatori delle NBFI. Il 90% dei prestiti che questi soggetti raccolgono arrivano proprio da loro. Ma nelle banche regionali la situazione è ancora peggiore, specie in quelle più piccole, con asset inferiori a 100 miliardi di dollari.
Complessivamente, l’esposizione delle banche alle NBFI è elevata: “In Europa e negli Stati Uniti, i prestiti delle NBFI rappresentano, in media, il 9% del portafoglio prestiti delle banche, con esposizioni pari a circa 4,5 trilioni di dollari, di cui 2,6 trilioni di dollari corrispondono a prestiti e il resto a impegni non utilizzati”, scrive il Fmi.
In Europa si osserva una situazione simile. Le banche più grandi hanno concentrato la loro esposizione verso gli NBFIs, e in alcuni settori si osservano tassi di crescita a doppia cifra dei prestiti concessi. Nel private equity e nel credit funds l’esposizione complessiva sfiora i 500 miliardi di dollari. Fra la fine del 2024 e la seconda metà del 2025, l’esposizione è cresciuta quasi del 60% (grafico sopra pannello 2).
“Le banche – scrive il Fmi – concedono sempre più denaro a questi fondi perché questi prestiti spesso offrono rendimenti sul capitale proprio più elevati rispetto ai tradizionali prestiti commerciali e industriali, grazie ai minori requisiti patrimoniali consentiti dalla loro struttura di garanzie”. Rendono di più perché sono più rischiosi, in sostanza. E come se non bastasse, Anche la concentrazione dei prenditori è in crescita costante: “Cinque grandi gestori di fondi rappresentano circa un terzo degli impegni di prestito aggregati dell’intero settore del private credit e del private equity”. Cosa può andare storto?
La risposta è molto semplice: “la crescente esposizione delle banche alle NBFI implica che
sviluppi negativi in queste istituzioni, come declassamenti o calo del valore delle garanzie, potrebbero influire significativamente sui coefficienti patrimoniali delle banche”. Il Fmi ha fatto anche alcune stime. Non serve qui riportarle. E’ sufficiente ricordare che le NBFIs sono uno dei tanti virus insediati ormai stabilmente nel nostro organismo finanziario. Per adesso di limitano a replicarsi. Domani chissà.
Le opportunità nascoste nel digital divide africano

L’unico vantaggio ad essere gli ultimi è che si può arrivare a diventare i primi. Gli ultimi, infatti, hanno un vantaggio che sarebbe errato sottovalutare: possono usare le conoscenze dei primi utilizzandole ex novo senza dover scontare il prezzo della loro conquista. Proprio perché non hanno nulla, possono costruire ex novo avendo già a disposizione le tecnologie più moderne, senza dover fare i conti con i residui del passato.
Da questo punto di vista l’Africa, che non è esagerato definire l’ultima frontiera dello sviluppo economico, ha lo svantaggio di avere una dotazione di capitale molto scarsa e il vantaggio che, di conseguenza, può costruirsene uno stock di qualità contemporanea. Che vuol dire, ad esempio, usare macchinari che consumano meno energia, o fonti di energia rinnovabili che prima semplicemente non c’erano o erano troppo costose per essere realizzate.
Tutto ciò, ovviamente, a patto di avere le risorse finanziarie. Servono quindi investimenti, e soprattutto investimenti esteri, visto che la dotazione di capitale africano è ancora carente. E da quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’AFC, Africa finance corporation, questi investimenti non mancano, specie in quelle infrastrutture che per l’Africa sono nientemeno che vitali: la logistica fisica (abbiamo già accennato ai porti) e i collegamenti digitali.
Il grafico che apre questo post elenca sommariamente i cavi sottomarini sviluppati e in corso di sviluppo in Africa dal 2022 al 2026. A ognuno di queste corrispondono cordate di investitori di diverse nazionalità. Dal cavo PEACE, che raccoglie capitali cinesi, francesi, pakistani e di diverse telco africane, ad Equinao, finanziato da Google: tutto il mondo che conta sta circondando l’Africa di cavi dati, che ovviamente favoriscono la fioritura di data center, che vedono in prima linea il Sudafrica. Ma non solo. Ci sono hub regionali emergenti, per i data center, ad esempio in Kenya, Nigeria, Egitto e Marocco. “Il Kenya ha ottenuto grandi successi in questo senso ospitando i suoi Internet exchange point all’interno di data center che ora contano i principali fornitori di contenuti (AWS, Microsoft Azure, Meta, Alphabet)
insieme ad agenzie governative, servizi di pubblica utilità, istituzioni finanziarie e diversi fornitori di servizi Internet (ISP) locali”, sottolinea il rapporto.
Le infrastrutture, insomma, si stanno lentamente edificando. Ma vale per il digitale ciò che abbiamo visto osservando le infrastrutture portuali: lontano dalle coste i collegamenti sono molto più difficili. “Stime disponibili di Hamilton Research – scrive l’AFC – suggeriscono che 2/3 della popolazione africana si trova a più di 10 km dalle infrastrutture di rete in fibra ottica, la percentuale più alta di qualsiasi altro continente”. Grandi distanze dalle infrastrutture implica maggiore difficoltà a raggiungere i destinatari del dato. Vale per il digitale ciò che abbiamo visto per le merci: se mancano le infrastrutture di collegamento interno, o sono carenti, le merci che arrivano da fuori faticano ad arrivare sui mercati. Ciò implica che le coste prosperano e l’interno vivacchia. E questo in un continente che ha un numero elevato di paesi che non hanno sbocchi sul mare.
Questo spiega il digital divide ancora elevato all’interno del continente, che non solo soffre il vincolo infrastrutturale che abbiamo fugacemente osservato, ma anche quello economico generato dal basso livello di reddito delle popolazioni. Detto semplicemente, l’africano medio non ha i soldi né per pagarsi le connessioni, né tantomeno per comprare un qualunque device. E questo determina che l’accesso alla rete della popolazione sia ancora basso.

Gli africani hanno in percentuale il minor numero di telefonini a mondo e ancor meno sono quelli che dispongono di un computer.

E questo spiega perché nel 2024 oltre il 60% degli africani non abbia accesso ad internet. Ci sono ovviamente situazioni migliori – ad esempio in Egitto e Nigeria – ma nel complesso il continente esibisce ancora una situazione di sostanziale arretratezza su questo fronte, che contrasta visibilmente con la sua domanda potenziale di servizi digitali, vista l’enorme quantità di giovani che vivono in Africa.
Di fronte a questo stato di cose, e soprattutto in prospettiva, si capisce bene perché i grand carrier di cavi sottomarini stiano lentamente circondando l’Africa. Si capisce meno la ragione per la quale i paesi avanzati, che pure avrebbero tutto da guadagnarci a “informatizzare” il continente africano, non investano pure per aiutare gli africani ad avere almeno un telefonino di penultima generazione. Sarebbe un compito interessante per l’Europa, che magari potrebbe approfittarne per sviluppare un suo standard, sia hardware che software, invece che rassegnarsi al dominio dei produttori Usa e asiatici. Il problema è che l’Europa è bravissima a vedere i rischi. Mai le opportunità.
Il mattone europeo “punisce” i giovani adulti

Un recente rapporto dell’Ue sullo stato dei mercato immobiliare europeo aggiorna molte delle nostre conoscenze, confermando al tempo stesso quello che sapevamo già: l’Europa è diventato un posto sempre più difficile per i suoi giovani.
Questa tendenza generale, che investe tutto ciò che attorno a un giovane ruota, dall’istruzione in poi, non poteva che avere una declinazione anche nel mercato immobiliare, che già sconta parecchie difficoltà per conto suo.
Nulla di strano, quindi, che “dalla crisi finanziaria globale, la proprietà della casa è diminuita nei paesi sviluppati, soprattutto tra i giovani adulti”, come riporta l’a Ue. In Europa “la quota di proprietari di case è diminuita di 2 punti percentuali (dal 70,2% nel 2015 al 68,4% nel 2024), ma la proprietà della casa è diminuita più marcatamente in alcuni Stati membri nello stesso periodo (ad esempio, di 12 punti percentuali a Malta, 10 punti percentuali in Lussemburgo e 5 punti percentuali in Germania, Grecia, Spagna e Finlandia)”. Molti hanno “liquidato” il mattone, sembra di capire e non hanno voluto o potuto investire su una nuova abitazione. Non sarebbe per nulla sorprendente scoprire che questi venditori siano proprio quei “giovani adulti” di cui parla la Commissione.
Più avanti leggiamo infatti che “I giovani hanno generalmente maggiori probabilità di vivere in alloggi in affitto rispetto alla popolazione media e un’ampia percentuale di giovani adulti vive con i genitori”. E questo ci conduce al grafico che apre questo post. Che diventa molto più informativo se si legge incrociandolo col grafico che trovate sotto, dove si analizza l’andamento dei prezzi, nominali e reali, nei paesi dell’Ue.


Val la pena osservare un paio di “stranezze” che i due grafici letti insieme ci comunicano. L’aumento notevole dei pezzi reali in Portogallo, cresciuti dell’80% nel 2024 rispetto al 2000, si associa a una diminuzione dei 18-34enni che vivono in famiglia. Il calo dei prezzi reali in Italia nello stessi periodo – l’indice nel 2024 scende sotto il livello 100 riferito al 2014 – si associa invece a un aumento della stessa classe di giovani che vive coi genitori.
Se confrontiamo Malta e Spagna notiamo un pattern simile: i prezzi reali crescono in entrambi i paesi, ma a Malta i giovani che vivono coi genitori diminuiscono, in Spagna aumentano. E’ solo questioni di prezzi, come suggeriscono molti, o c’è dell’altro?
L’Ue la spiega in termini puramente economici: “I giovani incontrano maggiori difficoltà rispetto alla media della popolazione nel mercato immobiliare, e questo riflette sia l’evoluzione del mercato del lavoro, con una maggiore probabilità di disoccupazione tra i giovani, sia l’aumento dei prezzi delle case. I giovani adulti tendono ad avere maggiori difficoltà a ottenere un mutuo a causa della mancanza
di capitale o di stabilità occupazionale”.
Aggiungiamo un’altra tessera che contribuisce ad arricchire il puzzle: il modo in cui si abita nei diversi paesi europei: proprietari, con e senza mutuo, inquilini a prezzo agevolati o gratuiti, inquilini a prezzi di mercato.

Se osserviamo il grafico sopra e ripetiamo il confronto fra Italia e Portogallo notiamo che i due paesi hanno una quota simile di inquilini a prezzi di mercato, col Portogallo a un livello leggermente inferiore, mentre il livello di inquilini a prezzi calmierati o gratuiti in Portogallo è circa il doppio di quello italiano. I portoghesi proprietari di mutuo sono più del doppio di quelli italiani, mentre i proprietari senza mutuo italiani sono molti di più.
Sembra chiaro che gli italiani siano complessivamente meglio dotati, da un punto di vista patrimoniale, dei portoghesi. E tuttavia i giovani italiani stanno a casa e i portoghesi meno di loro. E’ solo questione di soldi? Crederlo facilita le analisi economiche, ma non ci dice tutto sulla realtà di una società.
Cartolina. La spesa che pesa

Salute e protezione sociale assorbono sempre più risorse pubbliche nei paesi ad economia avanzata, e si capisce bene la ragione. Meno si comprende come mai i paesi a basso reddito spendano così tanto per la difesa, circa quattro volte quello che impiegano le economie più affluenti. Questioni di mezzi e di priorità, evidentemente. I paesi ricchi badano alle loro popolazioni, tramite un uso sempre più espansivo della spesa pubblica. Quelli meno abbienti hanno bisogno delle armi. Forse per tenerli a bada. Oppure per difenderli da vicini riottosi. Ma quanto a questo, ormai anche noi abbiamo qualche problema di vicinato. E infatti i governi promettono di spendere sempre più in armamenti. Oggi la spesa che pesa è il welfare. Domani chissà.
Cartolina. C’era una volta l’Europa del commercio

Il volume degli scambi commerciali europei non ha più recuperato il livello del 2008, a differenza del resto del mondo. Questo dovrebbe bastare ai nostri governanti europei per capire che un mondo è finito. E magari dovrebbe stimolarli a immaginarne uno nuovo. Ma è difficile. Intanto perché non è molto chiaro chi siano i governanti europei. Poi perché è più facile trascinare le catene del passato che spezzarle. La libertà richiede coraggio, e chi non ce l’ha non se lo può dare. Rimane il fatto. L’Europa si immagina ancora come una potenza commerciale, cosa che ormai è sempre meno. Al tempo stesso non riesce a sviluppare adeguatamente il suo mercato interno, perché ogni paese difende innanzitutto il suo commercio. E così, sull’altare di un commercio internazionale che vale sempre meno e di un commercio interno che non riesce a decollare, sacrifica qualsiasi progetto di reale integrazione. Una volta c’era il commercio europeo ma ormai è tramontato. Rimane solo l’Europa. Per adesso.
L’eterna giovinezza delle banconote nel tempo dell’euro digitale

Sarà molto interessante osservare quale sarà la sorte del contante fisico una volta che la Bce porterà a termine, come ormai sembra chiaro, il varo dell’euro digitale, che al momento sembra il prodotto di punta dell’Unione europea, visto che non si vede granché altro. Perché stando agli ultimi dati diffusi nel bollettino della Banca, la domanda di banconote gode ancora di ottima salute, e anzi il valore aumenta.
“La persistente domanda di contante, nonostante il proliferare di alternative di pagamento digitali, ne
suggerisce la specifica utilità e la sua sostituibilità imperfetta”, scrive la Banca. E questo accade a fronte di quello che è stato definito come “il paradosso delle banconote”. Ossia la circostanza che “la stabilità della
domanda complessiva è in contrasto con la diminuzione della quota di contante nei pagamenti quotidiani”. Come se, insomma, il pubblico tesaurizzasse le banconote. Le mette da parte, mentre usa altre forme di pagamento per le esigenze quotidiane.
Questa tendenza, che dice molto della psicologia del pubblico, ha molto anche a che vedere con gli eventi che impattano sul sistema economico, come si può osservare dal grafico sotto.

Si osserva, ad esempio, che la domanda di banconote è cresciuta significativamente negli anni della pandemia, anche senza raggiungere il picco del 2008. C’è stato un altro picco dopo l’inizio della crisi ucraina e ancora ai giorni nostri la domanda rimane alquanto sostenuta. Segno che il motivo precauzionale non ha smesso di generare i propri effetti, specialmente quando i tempi diventano incerti. “Le caratteristiche distintive del contante, il fatto che sia tangibile, resistente, disponibile offline e ampiamente accettato, sono di primaria importanza durante le crisi e si possono altresì sfruttare per essere preparati in caso si manifestino. Di conseguenza, diverse autorità europee e nazionali hanno
raccomandato al pubblico di mantenere riserve di contante in caso di eventi improvvisi e inattesi”, scrive la Banca. E questo spiega perché durante le crisi se ne faccia così tanta richiesta.
Rimane la domanda, destinata a rimanere senza risposta finché l’euro digitale non farà capolino. Cosa succederà al vecchio contante? Per adesso il “paradosso delle banconote” si è accentuato. C’è una grande quantità di banconote nella disponibilità degli europei che però non le usano per le spese di tutti i giorni. E questo va sicuramente ben oltre il ruolo di “ruota di scorta” del sistema dei pagamenti che la Bce attribuisce alle banconote. Con le dovute differenze, un ruolo analogo lo svolgeva l’oro rispetto alle banconote, all’epoca tecnologia di avanguardia, nel XVII secolo. Oggi solo pochissimi tengono oro per scopi precauzionali, visto quanto è costoso tenerlo e liquidarlo. Domani magari sarà lo stesso per le banconote. Ma solo se la valuta digitale riuscirà a fare alla banconota quello che la banconota ha fatto all’oro: renderlo poco pratico.
Cosa ci racconta il declino della natalità italiano

Con un tasso di natalità del 6,3 per mille nel 2024, quando era il 9,7 per mille nel 2008, è ormai quasi stucchevole parlare di declino demografico. Dietro la caduta dei tasso di natalità c’è molto di più, ovviamente, a cominciare dal fatto che aumenta il peso specifico degli adulti, e segnatamente degli anziani, sulla nostra società. Il declino demografico dovremmo chiamarlo con più precisione declino della natalità, che sta lentamente, ma inesorabilmente, rivoluzionando la nostra società e non solo la nostra.
Ciò che sta accadendo in molte economie avanzate è che il ceto emergente non è più quello dei giovani, ma quello degli anziani. Sono gli unici che crescono di numero. E’ un fatto storico: non è mai successo prima. E già questo meriterebbe più d’una riflessione. La tendenza è chiarissima e sarebbe poco saggio non interrogarsi sulle conseguenze di lungo periodo di un mondo coi capelli bianchi. Peraltro della parte più ricca del mondo.
Letti da questa angolazione, i dati Istat che aprono questo post non raccontano solo della sostanziale scomparsa della natalità italiana, che presto condurrà a un notevole spopolamento. Ma ci spiegano anche perché siano ormai solo gli anziani i protagonisti del nostro tempo. Basta sfogliare un qualunque giornale, che ormai leggono solo gli anziani, per rendersene conto.
L’ultima rilevazione Istat ci comunica anche altre informazioni. Intanto che “la diminuzione dei nati è quasi completamente attribuibile al calo delle nascite da coppie di genitori entrambi italiani, che costituiscono oltre i tre quarti delle nascite totali (78,2%)”.
A fronte di un calo complessivo delle nascite di 9.946 unità, i nati da genitori italiani, pari a 289.183 nel 2024, sono diminuiti di 9.765 unità rispetto al 2023 (-3,3%). “Le nascite da coppie in cui almeno uno dei genitori è straniero sono invece 80.761 (21,8%), sostanzialmente stabili rispetto al 2023, quando sono state 80.942 (-0,2%)”. La diminuzione registrata sui nati da genitori entrambi stranieri, pari al -1,7%, viene compensata dall’aumento dei nati in coppia mista (+2,3%).
SI nota un curioso paradosso. Istat scrive che le difficoltà ad avere il primo figlio, quanto quelle di avere il secondo dipendono da diversi fattori, che sono sostanzialmente di natura economica: “Allungarsi dei tempi di formazione, le condizioni di precarietà del lavoro giovanile e la difficoltà di accedere al mercato delle abitazioni”. Le coppie formate da italiani, lo abbiamo visto, sono quelle che guidano il calo delle natalità. In pratica fanno più fatica delle coppie miste e addirittura di quelle formate da stranieri. E questo malgrado sia presumibile abbiano radici familiari alle spalle. O forse proprio per questo?
Nessuno ha le risposte a domande che investono l’intera esistenza di una persona. Ma ridurre tutto all’economia sembra davvero poco utile a capire in profondità cosa sta succedendo alle nostra società.
Il declino, peraltro, si prevede prosegua anche quest’anno. I dati riferiti al periodo gennaio-luglio 2025 mostrano che abbiamo 13 mila nati n meno rispetto allo stesso periodo del 2024, e visti i tempi è del tutto improbabile che ci sarà un rush di nascita nell’ultimo trimestre dell’anno.
Un altro elemento che fa riflettere è che sempre più persone fanno figli fuori dal matrimonio, specie se sono molto giovani. Fare figli magari sì, ma sposarsi proprio no.

Ma parte le curiosità statistiche, il quadro generale ormai riserva poche sorprese e difficilmente ne riserverà in futuro. Il calo della natalità è legato anche, e forse soprattutto, alla riduzione costante delle donne in età fertile. Prima ancora dei figli, insomma, mancano sempre più le mamme. E per questo non c’è bonus capace di cambiare le cose.
