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La primavera africana passa per gli investimenti portuali

Un interessante rapporto pubblicato dalla Africa Finance Corporation ci comunica un’informazione molto rilevante ai fini della nostra conoscenza di cose africane, purtroppo sempre carente. Parliamo della “Corsa ai porti” che ha mobilizzato notevoli capitali nell’ultimo decenno raddoppiando di fatto il livello di investimenti del decennio precedente.

Per L’Africa, che soffre ancora di un notevole deficit infrastrutturale al proprio interno, questa crescita notevole di investimenti sulla logistica marittima ha un duplice significato. Da una parte consente di avvicinare il continente al resto del mondo, collegandolo più profondamente alle catene di produzione del valore. Al tempo stesso lo sviluppo portuale consente anche di mitigare il deficit infrastrutturale interno. Dai porti principali, infatti, si può originare un flusso di transhipment interno.

“Infrastrutture logistiche limitate come strade o ferrovie – spiega il rapporto – rendono lo spostamento delle merci da un porto all’altro una soluzione più attraente e hanno sostenuto una crescente domanda di transhipment”, spiega il rapporto. Il transhipment è aumentato di più nei luoghi in cui le reti terrestri regionali e transfrontaliere sono limitate, in particolare nell’Africa occidentale.

Il rapporto spiega che Lomé, in Togo, ha assistito a una rapida crescita del traffico, da meno di 8 milioni di tonnellate nel 2012 a oltre 29 milioni di tonnellate nel 2021, con il traffico container quasi quintuplicato nello stesso periodo. Il Togo ha ora consolidato la sua posizione come principale hub di transhipment per la costa atlantica africana, con le operazioni di transhipment che costituiscono il 70% del suo traffico totale.

Altri porti come Abidjan, Tema, Dakar, Mombasa e Gibuti hanno registrato una crescita trainata da solide performance economiche interne e dai loro collegamenti con i Paesi senza sbocco sul mare, di cui l’Africa vanta il numero più elevato a livello mondiale. Il rapporto prevede che la tendenza al rialzo persisterà, con diversi nuovi terminal già confermati per lo sviluppo tra il 2022 e il 2026.

Nel 2022, sono stati commissionati nuovi terminal Abidjan TC2 in Costa d’Avorio che Lekki LCT/Fase 1 in Nigeria, seguiti da Tema T3 in Ghana nel 2023. Si prevede un’ulteriore espansione con l’introduzione di nuovi terminal come Cotonou BT/T5 in Benin, Onne AMPT in Nigeria, Kribi Container Terminal (KCT) Fase 2 in Camerun, Matadi Gateway Terminal (MGT) Fase 2 nella Repubblica Democratica del Congo (Congo, RDC), Banana Fase 1 sempre nella RDC e Luanda LMT in Angola. Ancora una volta, la maggior parte di questi incrementi di capacità sembra concentrata lungo la costa atlantica, in particolare nell’Africa occidentale.

La tendenza all’espansione del settore portuale africano viene confermata anche nel rapporto 2025 della stessa AFC, uscito di recente. “I porti africani stanno vivendo un’ondata storica di investimenti, trainata dall’aumento dei volumi commerciali, dall’arrivo di navi più grandi e dall’interesse diversificato degli investitori. I nuovi aumenti di capacità in Egitto, Ghana e Senegal segnalano una crescente domanda di hub marittimi e di transhipment ad alte prestazioni, evidenziando l’opportunità di investimenti strategici nella logistica portuale e interna”.

Questa primavera delle infrastrutture portuali, guidata da una robusta ondata di privatizzazioni, è ben lungi dall’essersi conclusa. Anche perché viene da lontano. All’inizio, si era negli anni ’80, i capitali provenivano per lo più dalla Francia. La seconda ondata, quella iniziata dopo la crisi del 2008, ha visto l’arrivo dei capitali cinesi. Adesso questa terza fase, iniziata negli anni Venti, vede anche capitali da altri paesi emergenti, come le Filippine, la Turchia e gli Emirati Arabi. L’Africa, insomma, si internazionalizza. E’ sempre stato così. Ma prima era solo predazione. Adesso è globalizzazione.

Cartolina. I perdenti

Chiunque vinca, noi perdiamo. Così una vecchia locandina cinematografica promuoveva lo scontro fra due entità aliene che aveva la ventura di svolgersi sul nostro pianeta. Noi, quindi, eravamo noi terrestri. Chiunque avrebbe vinto la contesa, non ci avrebbe risparmiato. Oggi che vediamo i primi effetti dei dazi, con le esportazioni cinesi verso gli Usa crollate, così come le esportazioni Usa verso la Cina, il copione di quel vecchio B-movie ritorna attuale. Chiunque vinca, noi – inteso stavolta come resto del mondo – perdiamo, in un modo o nell’altro. Ma il problema è che in questo nuovo B-movie non vince nessuno. Perdono tutti.

Cartolina. L’Africa che ce l’ha fatta

Nel 1960 Africa e Cina avevano una dotazione complessiva di capitale sostanzialmente uguale e altrettanto ridotta. Tradotto vuol dire poche infrastrutture, scarsi investimenti esteri e accumulazione carente, visto che lo stock di capitale è uno dei componenti della capacità produttiva e quindi della crescita. Le due regioni vanno avanti così per oltre trent’anni, durante i quali lo stock di capitale africano, sostenuto dalle politiche di prestito dei paesi avanzati, cresce persino più di quello cinese. Poi nella seconda metà degli anni ’90 è successo qualcosa: la Cina è decollata, l’Africa no. Sulle ragioni del successo della Cina sono state scritte migliaia di pagine, quindi non serve contribuire. Rimane il fatto. Un’Africa ce l’ha fatta, l’altra ancora no. Per adesso.

Complessità, fluidità e incertezza: la nuova trinità dell’economia internazionale secondo il Fmi

Succede di tutto, ma sembra non succeda nulla. Le previsioni di crescita spostano decimali, gli indici di borsa aggiornano i rialzi. E tuttavia questa quiete rumorosa nutre forze potenti, che il Fmi nel suo ultimo WEO cerca con notevole sforzo di farci conoscere.

Tre parole, innanzitutto: complessità, fluidità, incertezza. Ciò per dire che queste forze sono non lineari, ossia non hanno causazioni facili da vedere e tantomeno da spiegare. Sono “liquide”, nel senso che Zygmunt Bauman ha dato a questa parole, ma anche evanescenti ed esplosive. Infine, sono incerte. L’economia non esprime alcuna teleologia, vive istantaneamente di se stessa. L’incertezza è ciò che alimenta i rischi, com’è noto. E quindi la crescita del rischio spiega bene il momento rialzista dei mercati. Al punto che molti osservatori iniziano a sospettare che siamo di fronte a quell’euforia irrazionale che nel 2000 affondò i titoli tecnologici, con l’intelligenza artificiale al posto delle dot.com. Ma, se ci pensate bene, sono l’una conseguenza dell’altra.

Nulla di nuovo sotto il sole. L’irrazionalità appartiene alla logica economica. Nel Seicento la gente impazziva per i tulipani olandesi, oggi per chat Gpt. Ma limitarsi ad osservare la mania non dice nulla sulle sue ragioni, che hanno motivazioni profonde delle quali non si parla mai.

Magari ne parleremo altrove. Qui limitiamoci ad osservare i dati. Ma prima ancora un’evidenza. Il trauma Trump è stato ormai metabolizzato. Ogni volta che il presidente Usa fa una delle sue sparate – di recente sulle terre rare cinesi – il mercato vende, e poi ricompra l’indomani, quando magari Trump dice il contrario. Ormai anche questa “doccia scozzese” appartiene alla nostra psicologia. Vince chi sta fermo sembra di capire. E quindi innanzitutto chi se lo può permettere.

Ma se questa strategia vale per gli investitori sui mercati, non può funzionale per i governi che sono alle prese con una difficile ricomposizione dei loro bilanci. E devono farlo scontando una incertezza ancora notevole che trova nel commercio – il livello delle tariffe medio internazionale rimane al 19% – il suo principale attivatore. Per comprendere meglio la questione, può essere utile osservare le componenti del pil negli ultimi trimestri delle principali aree economiche.

Questi istogrammi raccontano molte storie, se uno li osserva per più di qualche minuto. Ne scegliamo una: l’andamento speculare, nel secondo trimestre 2025, quindi a shock Trump innescato, della componente del commercio estero sul pil negli Usa e in Cina, e l’andamento, altrettanto speculare, della componente degli investimenti. Questo lascia immaginare che siano all’opera meccanismi di compensazione capaci di cambiare la struttura economica di questi due grandi paesi. Con l’aggravante che Usa e Cina sono i due grandi magneti attorno ai quali si stanno configurando i campi delle relazioni economiche internazionali. L’Eurozona, al contrario, in manifesta crisi esistenziale (e quindi anche industriale), non ha capacità di ingaggiare alcuna delle sfide epocali che pure dovrebbero vederla attrice protagonista. Il Giappone non ha sufficiente massa critica. Entrambi condividono una chiara natura e sorte di vassallo. Rimane da capire di chi.

E questo spiega perché i mercati reagiscono solo quando le scosse partono dagli Usa o dalla Cina. E anche perché il Fmi ricordi i benefici che sono derivati, nei decenni passati, dallo sviluppo di cornici multilaterali. Appello poco più che vano, in un mondo che ormai si conferma sempre più indirizzato verso i grandi stati. Lo stesso Fmi riconosce che ormai “le regole dell’economia globale sono in continua evoluzione”. Pochi dubbi su chi stia conducendo il gioco.

L’aumento della spesa militare dà una spintarella alla crescita

Poiché ci toccherà parlare a lungo degli effetti dell’annunciato aumento della spesa militare sulla nostra economia, bene ha fatto la Bce a produrre alcune simulazioni per stimare in che modo un aumento della spesa pubblica per la difesa, che arrivasse al 3% del pil entro il 2028, si trasmetterebbe al sistema economico.

La simulazione è contenuta nell’ultimo bollettino della Banca e si serve di diversi modelli, la cui sintesi si può osservare nel grafico che apre il post. Le due variabili osservate sono il moltiplicatore dell’investimento, ossia il rendimento di un euro di investimento, e la crescita del pil.

“Il moltiplicatore medio del prodotto per la spesa pubblica nei vari modelli è pari a 0,93 su un orizzonte temporale di due anni, benché vi sia una notevole eterogeneità”, scrive la Banca. Ciò significa che un euro speso per investimenti militare produce un effetto inferiore all’unità, cui corrisponde una crescita media del pil che oscilla dal più 0,2 al +0,4% nell’arco temporale osservato. A ciò corrisponde un aumento dell’inflazione che oscilla fra lo 0,1 e lo 0,2%.

Insomma, l’effetto di questi investimenti sulla crescita non è proprio esaltante. Ma è chiaro che la scelta di mettere denaro sull’acquisto di armamenti non risponde a una logica economica ma squisitamente politica. Si potrebbero spendere sicuramente meglio, questi denari. Ma quando prevale la paura, e quindi il desiderio di proteggersi, è molto difficile anche solo pensarci sopra.

Serve più domanda interna per rilanciare la crescita italiana

“Per il prossimo biennio, le prospettive dell’economia italiana descritte nel DPFP si confronteranno con un quadro di persistente incertezza sui mercati internazionali e saranno legate in modo più stringente all’evoluzione positiva della domanda interna, nella componente dei consumi privati e in quella degli investimenti”. Così, Stefano Menghinello, direttore Istat, ha concluso la sua lunga audizione parlamentare dedicata all’analisi del DPEF. Nessuna sorpresa. Chiunque segua le cronache dell’economia sa perfettamente che la debolezza della componente interna del Pil è il problema principale cui deve far fronte non solo l’Italia, ma l’intera Europa.

Gli ultimi dati, relativi all’andamento delle componenti del pil italiano presentati in commissione, mostrano chiaramente che il contributo dell’export netto alla crescita è sempre stato negativo negli ultimi sei trimestri, con l’eccezione del primo di quest’anno, quando il “fenomeno Trump” ha scatenato un’ondata di acquisti precauzionali. Poco più di un fuoco di paglia.

Che questo andamento sia qualcosa di più che un evento congiunturale, lo mostra chiaramente l’andamento del commercio europeo osservato dal 2008 in poi, che è tutt’altro che incoraggiante.

Ed è degno di nota che la spinta negativa sulla crescita del commercio si verifichi in presenza di un attivo commerciale, sempre presente salvo che nei mesi di boom dei prodotti energetici.

Questo significa in sostanza che l’andamento positivo del commercio, che è meglio ci sia ovviamente, non è di per sé garanzie di una crescita soddisfacente, capace di evitare uno dei problemi strutturali del nostro paese: l’effetto “palla di neve”. Ossia l’aumento del debito generato automaticamente dalla differenza fra il tasso di crescita dell’economia e il tasso di interesse che paghiamo in media sul debito pubblico.

Rilanciare la crescita, insomma, non significa solo avere maggiore produzione e più lavoro. Serve a stabilizzare la finanza pubblica, che ha di fronte scenari estremamente complicati a causa dell’invecchiamento della popolazione.

Su come si possa rilanciare la domanda interna, che porta con sé un concreto rischio che evapori il deficit commerciale, ci sono molte ricette, Ovviamente molto dipende dal livello dei redditi, ma non solo. Anche gli investimenti fanno la loro parte e su questo gioca un ruolo fondamentale anche il capitale umano. Ci sono molte ricette, ma non sono per nulla semplici da cucinare. Non è certo un caso se la nostra crescita è rasoterra da un ventennio, ad essere ottimisti.

Si tratta di rimettere in discussione un modello di sviluppo e di società. E non sembra che ne abbiamo la forza. Tantomeno l’interesse.

Cartolina. Le riforme intelligenti

L’Ocse stima che un’adozione più rapida dell’IA nelle economie avanzate del G20, fra le quali si trova anche la nostra, darebbe un notevole impatto alla crescita da qui al 2050. Persino superiore, a quanto si vede, a quello che ne avrebbero altre economie. Dal che si deduce che abbiamo un potenziale più elevato, che però non usiamo. Ci serve l’aiuto dell’intelligenza artificiale per tirarlo fuori. Quella naturale, a quanto pare, da sola non ce la fa. Averlo scoperto è già una buona notizia. Che lo capiremo è da vedersi. Che intanto ci speriamo, si vede dagli indici di borsa, che danno grandi soddisfazioni ai titoli hi tech. Che infine succeda davvero lo scopriremo solo vivendo, come diceva il poeta. Tanto il 2050 è dietro l’angolo.

Cartolina. Il denaro misterioso

La metamorfosi del denaro, da oggetto fisico a flusso di elettroni, alimenta le molte leggende che attorno al denaro sono nate nel tempo. L’alea di mistero che nutre il suo potere magico, celebrato in un libro di alcuni decenni fa scritto da un banchiere centrale. The magic of money, per ricordare il titolo originale, oggi si esplicita nella mania delle criptovalute, che monete non sono ma ci somigliano, certamente incoraggiata da un’ampia liquidità che chiede di essere impiegata. Ma non basta il combustibile, per attivare una reazione chimica. Serve anche un comburente. E nel caso di questi asset, che hanno visto esplodere la loro capitalizzazione in un lustro, non può essere che il mistero. Chi compra questi oggetti molto spesso non sa letteralmente cosa sta facendo. Lo fa perché ci crede. La fiducia, da tempi antichi, fiorisce nel mistero. Quindi anche il denaro misterioso.

La doppia dipendenza europea dalle terre rare cinesi

Si inizia a fare il conto dei danni provocati in Europa dalla decisione cinese del 4 aprile scorso, seguita all’annuncio di dazi arrivato dagli Usa, di imporre restrizioni alle esportazioni di terre rare. Era chiaro a tutti che l’Europa avrebbe pagato un prezzo elevato, vista la notevole dipendenza di molti filiere produttive dall’import cinese di questi materiali. E le ultime notizie, che parlano di un ulteriore inasprimento delle condizioni di esportazione di questi materiali non sono per niente rassicuranti.

Adesso possiamo saperne qualcosa in più grazie a un’analisi contenuta nell’ultimo bollettino della Bce. Qui si legge che la carenza di terre rare cinese, orami diventate rarissime in Europa, “ha causato uno shock dal lato dell’offerta”. Un evento talmente grave che la mancanza di magneti in terre rare, le cui spedizioni dalla Cina sono diminuite del 75%, ha costretto alcuni produttori di aiuto a sospendere la produzione.

Come è ormai notorio, la Cina produce il 95% delle terre rare nel mondo e ha un ruolo centrale anche in alcuni processi di raffinazione di altre materie prime fondamentali per il mercato, come il litio e il cobalto. L’Europa dipende sostanzialmente dall’importazione di questi materiali. E anche se sono state avviate diverse iniziative per diminuire questa dipendenza, è chiaro che servirà molto tempo per costruire le alternative. Tempo durante il quale le produzioni devono proseguire.

La Cina, infatti, fornisce tutto il 70% delle importazioni di terre rare dell’Ue. E svolge un ruolo importante anche nelle importazioni di composti di terre rare, come si può osservare dal grafico sopra. Ciò in quanto i fornitori non cinesi che magari vendono all’Europa questi materiali, dipendono a loro volta dalla Cina per i materiali grezzi.

Gli Stati Uniti stanno pure peggio di noi, visto che importano dalla Cina l’80% delle loro terre rare. E questa è un’altra complicazione per l’Europa, che dipende anche indirettamente dalle terre rare cinesi quando importa beni americani che ne fanno uso. “Stando ai dati, solo poche imprese dell’area dell’euro si approvvigionano di terre rare direttamente da fornitori cinesi: ad esempio, Airbus e BASF. Circa un quarto di tutte le imprese, tra cui Volkswagen, Renault e Telefónica, si avvale di un solo intermediario. Gli intermediari sono spesso aziende tecnologiche statunitensi che realizzano prodotti con terre rare fornite da aziende cinesi”, spiega la Bce.

A tal proposito è utile ricordare che le terre rare svolgono un ruolo centrale, oltre che nella produzione di auto, anche in quella di computer e telefoni. “Le imprese statunitensi, tra cui aziende tecnologiche di primo piano come Microsoft, Apple e Intel, operano in settori strategici come la fabbricazione di semiconduttori, la produzione di magneti di precisione e il trattamento chimico, e dipendono dalla Cina per l’approvvigionamento di materie prime”, aggiunge la Bce.

L’Europa quindi soffre di una dipendenza diretta dalla Cina e di una indiretta tramite gli Usa, che dipendono dalla Cina. Una doppia dipendenza. Quindi non ha un problema. Ne ha due.

Vivere quasi felici con un debito stabilmente alto

Il Fmi ci informa che il debito globale si è stabilizzato, nel 2024. Che sarebbe un’ottima notizia se nel frattempo non fosse arrivato al 235% del pil globale. In pratica ogni euro di prodotto ne porta con sé 2,35 di debiti.

Non ci sarebbe molto da aggiungere se questa montagna non custodisse molte storie nella sua pancia, che il grafico che apre questo post racconta solo in parte.

Gli istogrammi blu, ad esempio, che nel 1950, quando parte la serie, non c’erano. Rappresentano il debito delle famiglie. Notate che quell’anno – si era usciti da poco dalla guerra – si era già al 100% del pil di debiti globali, ma la gran parte era debito pubblico. Il poco debito privato che c’era era quello delle imprese.

Osservando l’andamento delle tre componenti del debito globali apprendiamo molte altre cose. Il debito pubblico ha perso la maggioranza relativa a partire dagli ani ’80, quando ha ricominciato a crescere senza sosta insieme al debito privato. Famiglie e imprese hanno allegramente partecipato alla festa del debito e adesso si trovano a doverci felicemente convivere, sempre sperando di poter pagare gli interessi, che intanto corrono insieme ai tassi.

Se dal quadro generale scendiamo di quota, osserviamo che Stati Uniti e Cina sono oggi i grandi protagonisti della festa. Negli Usa il debito pubblico nel 2024 è arrivato al 121% del pil, in Cina all’88%. Tolti gli Usa, nelle economie avanzate il debito pubblico è sceso di 2,5 punti, arrivando al 110% del pil, che comunque non è niente male per le medie storiche. Se facciamo lo stesso conto nei paesi emergente, escludendo però la Cina, il debito pubblico complessivo arriva al 56%. Sono emergenti, quindi hanno tanti spazio di crescita. In tutti i sensi.

Se dal debito pubblico spostiamo l’osservazione al debito privato, lo scenario mostra alcune differenze.

Negli Usa è diminuito di 4,5 punti, fermandosi al 143% del Pil, in Cina è aumentato di sei punti, arrivando al 206%, in gran parte trainato dalle imprese non finanziarie.

All’origine di questa crescita c’è un elevato deficit fiscale globale, che pesa circa il 5% e alimenta i debiti pubblici. I governi non vogliono saperne di spendere meno. Ed è comprensibile. Il problema è quanto sia sostenibile. O, meglio, per quanto tempo.