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Alla fine la guerra commerciale conviene. Ai cinesi

Che sia la ragion politica, assai più di quella economica, a guidare gli istinti belluini statunitensi nell’ormai conclamata guerra commerciale scatenata contro la Cina risulta evidente scorrendo le numerose pubblicazioni che in questi mesi sono state dedicate all’analisi delle conseguenze negative che tale decisione rischia di provocare anche sugli Usa. L’ultima in ordine di apparizione l’ha proposta la Bce nel suo Bollettino economico di settembre, dove ha svolto una simulazione secondo la quale i primi a perderci, se la guerra proseguirà, saranno proprio gli statunitensi. Il che non si può dire certo sorprendente. L’economia Usa infatti importa molto anche perché esporta molto, visto che il suo settore produttivo fa un notevole uso di beni intermedi, solitamente acquistati all’estero.

Lo studio della Bce stima le perdite potenziali per gli Usa partendo da alcuni presupposti teorici. Si ipotizza che nel breve termine l’effetto diretto dei dazi sul paese che li impone dipenda da due canali: il trade effect e il confidence effect. Il primo misura il combinato disposto fra l’andamento della spesa interna, che si sposterà sui prodotti non daziati, presumibilmente di provenienza domestica, e quindi ha un effetto positivo sul pil, e l’andamento della ricchezza aggregata che ha l’effetto opposto. Globalmente infatti le tariffe riducono il potere d’acquisto dei consumatori del paese che le ha imposte e quindi a livello macroeconomico il consumo e gli investimenti. L’interazione fra questi due andamenti determina il saldo degli effetti sul pil del paese considerato. Quanto più l’import è sostituibile dalla produzione interna, tanto meno i consumatori subiranno diminuzione del proprio potere d’acquisto, con un effetto finale positivo per il pil. E’ chiaro che in un paese che usa molti beni intermedi per la produzione le tariffe sulle importazioni fanno crescere anche i prezzi dei beni prodotti a livello domestico e quindi annullano i vantaggi per i consumatori della sostituzione del bene finale importato con quello prodotto internamente. Al tempo stesso, le misure di ritorsione applicate dal paese oggetto di dazi possono aggiungere ulteriori costi per i consumatori esacerbando il danno globale per l’economia. Il confidence channel misura invece gli effetti indiretti provocati dal calo di fiducia per l’ambiente business, che si ripercuote sul livello degli investimenti.

A fronte di questa cornice teorica si ipotizza inoltre che gli Usa decidano di applicare un dazio del 10 per cento su tutte le loro importazioni verso il resto del mondo. A loro volta i partner commerciali faranno la stessa cosa per ritorsione. Gli effetti stimati sui mercati finanziari, a causa del calo di fiducia, sarebbero un aumento del premio sui bond di 50 punti base e un calo delle borse generalizzato che per gli Usa viene quotato al 16%. Questo stimando che la guerra commerciale duri almeno due anni e che i ricavi dei dazi vengano utilizzati dai paesi che li hanno originati per diminuire il deficit fiscale.

I risultati della simulazione lasciano pochi dubbi: i dazi hanno una notevole influenza negativa per gli Usa. La perdite diretta tramite il trade effect abbasserebbero l’attività economica degli Usa dell’1,5% il primo anno. Ciò in quanto le quote di mercato guadagnate all’interno del paese non basterebbero a compensare la perdite di quote sui mercati esteri. “Le stime suggeriscono che le esportazioni nette degli Usa si deteriorerebbero significativamente”, scrivono gli autori dello studio. Ciò avrebbe anche effetti negativi sul mercato del lavoro e sul livello degli investimenti statunitensi. Complessivamente “il pil sarebbe più basso dell’1% alla fine del terzo anno di simulazione”. Al contrario, in China il trade effect sarebbe leggermente positivo all’inizio e negativo a lungo andare. In prima battuta l’export netto cinese migliorerebbe potendo fruire delle quote di mercato internazionali che gli Usa invece perderebbero a causa dei dazi. Ancora più rilevanti gli effetti del confidence channel, che colpirebbero il mercato globale. Si stima che le tensioni commerciali potrebbero diminuire il commercio globale con effetti negativi sul pil Usa dello 0,7%. Presi complessivamente i due canali, l’effetto dei dazi provocherebbe “un calo dell’attività economica reale negli Usa di oltre il 2% solo nel primo anno rispetto allo scenario base e il commercio globale potrebbe diminuire del 3%”.

Aldilà delle ipotesi, il messaggio “politico” è evidente: “Per un’economia che impone dazi e quindi provoca ritorsioni da parte di altri paesi c’è un chiaro peggioramento. Il suo tenore di vita diminuisce e si perdono posti di lavoro”. E’ difficile credere che le teste d’uovo della Casa Bianca non lo sappiano.

Imprese e consumatori Usa pagano il costo dei dazi di Trump

Una bella analisi pubblicata dagli economisti della Fed di S.Louis mostra quanto sia fallace l’idea che daziare l’import faccia male solo a chi esporta i beni che finiscono all’indice. Questa convinzione, che affonda le sue radici nel più vieto mercantilismo, trascura di osservare quanto sia complessa e articolata la catena della produzione oggi rispetto a tre secoli fa, quando la teoria mercantilista furoreggiava fra i nascenti stati nazionali. E nel caso degli Usa, poi, non tiene minimamente conto né dell’alto livello di internazionalizzazione delle imprese americane né della circostanza che anche le produzioni interne si basano notevolmente sull’importazione di beni esteri, che servono per completare il ciclo di produzione.

Come dato di partenza si prende l’insieme dei dazi annunciato lo scorso 15 giugno dall’amministrazione Trump sui beni importati dalla Cina per un valore di 50 miliardi (valore 2017). Quindi i beni soggetti a dazio vengono classificati, a seconda dell’utilizzo che se ne fa, come beni di consumo (consumer goods), beni strumentali (capital equipment), beni intermedi (intermediate inputs) e altri. L’impatto dei dazi è stato osservato seguendo questa schematizzazione e ne è uscita questa torta:

Da questo grafico si evince che i beni che occorrono alla produzione, ossia i beni intermedi e quelli strumentali, sono la gran parte di quelli sottoposti a tariffa. Quindi imporre dazi su queste categorie rischia di aumentare i costi di produzione delle imprese che ne fanno uso finendo col diminuirne la competitività. Ossia l’esatto contrario di quel che i dazi si propongono di fare.

Il rischio di un esito siffatto, sicuramente non intenzionale, può essere valutato osservando il livello di beni intermedi di cui abbisogna l’industria manifatturiera Usa e in che misura questi vengono importati. L’analisi svolta dall’autore mostra che “i beni intermedi giocano in media un ruolo chiave nella manifattura Usa”. Le industrie, infatti, “usano i beni intermedi molto intensivamente, con una valore che arriva in media al 64% della produzione”. Una quota notevole di questi beni intermedi viene importata. L’autore ha calcolato che vale il 22%. “Questa evidenza suggerisce che aumentare le tariffe sui beni intermedi ha un impatto negativo significativo sulle industrie manifatturiere Usa. Alzare i prezzi sui beni intermedi può spingere i produttori ad alzare i prezzi, colpendo i consumatori, o diminuire la produzione”. Anche perché molte aziende rischiano di dover chiedere i battenti a causa della perdita di competitività.

Se dai valori medi passiamo alle osservazioni settoriali, il quadro si delinea ancora meglio.

Gli istogrammi arancione rappresentano la quota dei beni intermedi sul totale della produzione delle singole industrie, mentre sull’asse orizzontale su osserva la quota di produzione del settore considerato sul totale della produzione manifatturiera Usa. Quelli blu misurano la quota di beni intermedi importati sul totale dei beni intermedi in ogni industria. Si traggono alcune conclusioni. La prima è che “i beni intermedi pesano più del 50% del valore totale della produzione in tutte le industrie con l’eccezione del settore computer, elettronica, ottica e delle macchine industriali. In alcuni settori è ancora più elevato, ad esempio nell’industria dei veicoli a motori, che pesa l’8,2% della produzione manifatturiera Usa, arriva all’84%, e al 75% nell’industria del cibo, bevande e tabacco, che vale il 15% della produzione Usa. Un’altra osservazione interessante è che i settori che dipendono di più dai beni intermedi importati dall’estero sono il settore computer, ottica, elettronica e macchine industriali (il 30%), mentre il settore food&beverage ne abbisogna per il 10%. Pure a questo livello, considerato minimo, l’impatto sulla manifattura Usa rischia di essere significativo. Alla fine di conti il conto dei dazi lo pagano imprese e consumatori. Anche negli Usa.