Etichettato: Bis Annual Report 2016
Più degli shock, sono gli stock che dovrebbero spaventarci
L’espansione mondiale prosegue, scrive la Bis in apertura della sua ultima relazione annuale, che sarebbe una buona notizia se non fosse chiosata dalla constatazione che “l’economia continua a trasmettere la sensazione di un aggiustamento disomogeneo e incompleto”. Come se la turbolenza del moto ondoso dei mercati celasse appena i sommovimenti degli abissi, dove forze potenti e ancora poco comprese stanno lentamente scavando la fossa al meraviglioso castello di certezze che abbiamo edificato in questi lunghi anni di benessere.
Sicché viviamo il paradosso di andamenti macroeconomici “non così negativi come la retorica a volte sembra indicare” che maturano al tempo stesso in un contesto dove “è meno confortante il modo in cui questi indicatori economici si evolvono e le prospettive future che potrebbero segnalare”. La triade del rischio – bassa produttività, livelli inusitati di indebitamento pubblico e privato e ridotti margini di manovra – agita la sua catena come uno spettro dispettoso, provocando timori e tremori che si sostanziano in improvvisi shock. L’ultimo è stato quello di Brexit, ma ce ne sono stati altri due altrettanto dirompenti nell’estate del 2015 e a gennaio del 2016. Gli shock, come i terremoti, si propagano per onde sismiche e il fatto che le scosse siano sempre più vicine dovrebbe farci interrogare circa l’eventualità che stiano preannunciando l’evento più temibile: il Big One finanziario che ogni cosa congiura ad evocare.
Ma poiché gli shock non arrivano dal nulla, dobbiamo scendere a fondo e provare a immaginarne la causa originaria, se non vogliamo disperderci in defatiganti analisi circostanziali. E al fondo degli shock, notano gli economisti della Bis, ci stanno gli stock. Anzi: lo stock. La montagna di debito: l’unità alla quale, come nelle migliori tradizioni, si riduce la trinità del rischio. Il Grande Debito, che molte prove empiriche sospettano all’origine del calo di produttività, per il canale del ciclo finanziario e della cattiva allocazione delle risorse che questo indebitarsi ha favorito. Il Grande Debito, che è pure la ragione per la quale i margini di manovra dei policy maker si sono così ridotte, sia a livello fiscale, che a livello della politica monetaria. Il Grande Debito, infine, che è la risorsa sulla quale le nostre comunità hanno contato per garantirsi quella crescita che siamo stati incapaci di trovare altrove. “Il debito può aiutare a spiegare meglio quelli che altrimenti sembrerebbero fulmini a ciel sereno”, sottolinea la Bis.
E poi aggiunge che “da troppo tempo il debito svolge la funzione di surrogato politico e sociale per la crescita del reddito”, ricordando al tempo stesso che “il rischio ha una miccia lunga: il danno è meno evidente nell’immediato e cresce gradualmente con il tempo” e poi che “in ultima analisi, non c’è nulla che si possa sostituire a una solida posizione dei conti pubblici”. Senonché, dimagrire dal debito è affare complicato, specie quando ci sono creditori in giro affamati da tassi rasoterra – pensate che quasi 10 trilioni di dollari sono remunerati a tassi negativi – e speranzosi circa l’esito di promesse che oggi nessuno può garantire saranno onorate a scadenza, come quelle pensionistiche o assicurative, mentre il sistema bancario, anche a causa dei bassi tassi di interesse, fatica a trovare nuovi modelli sostenibili di business, dovendo pure fare i conti con un cumulo straordinario di sofferenze, come abbiamo imparato noi italiani.
E se è questo Grande Debito il problema – ormai oltre il 250% del Pil mondiale – sarebbe saggio interrogarsi sul da farsi, pur nella consapevolezza che l’analisi è complessa, forse anche in ragione degli strumenti che utilizziamo, e che non esistono rimedi che sia facile esportare da un paese all’altro. La globalizzazione, che ha tanti pregi, ha pure difetti esorbitanti, a cominciare da quello che in fondo ogni economia nazionale è un’isola, che però interagisce sempre più con le altre attraverso le correnti del ciclo finanziario. L’economia internazionale, più che un continente, è uno sterminato arcipelago circondato dalle maree dei mercati, dove le isole più grosse – pensate alla Cina ma soprattutto agli Usa, che emettono una moneta praticamente internazionale – generano potenti forze attrattive, che possono essere creatrici o distruttrici, a seconda del ciclo delle maree.
L’analisi della Bis su ciò che è stato fatto racconta di decisioni che col senno di poi si rivelano quantomeno poco avvedute: “La risposta delle autorità è riuscita a stabilizzare l’economia durante la crisi, ma quando gli eventi si sono dispiegati e la ripresa si è dimostrata più debole del previsto, non è stata sufficientemente equilibrata”. I governi hanno “dedicato troppa poca attenzione al risanamento dei bilanci e agli interventi strutturali rispetto alle misure tradizionali per stimolare la domanda aggregata. In particolare, la politica monetaria ha dovuto farsi carico della gran parte dell’onere, perfino in un momento in cui la sua efficacia era seriamente messa in discussione”. Col risultato che “man mano che le autorità premevano con più forza sull’acceleratore, i margini di manovra si restringevano progressivamente”.
Sicché il grande bust del 2008 si è trasformato in un ciclo di boom e bust sparsi per tutto l’arcipelago, che ogni volta aveva come esito quello di turbare le correnti finanziarie e provocare inondazioni qua e là. Le economie emergenti, prime vittime di questi tsunami finanziari – si pensi a quello che è accaduto nel 2013 quando la Fed accennò all’intenzione di alzare i tassi – hanno capitalizzato ulteriori debiti e rischi. E poi il calo del petrolio, sul quale sempre il debito gioca un notevole ruolo, che ha esacerbato le tensioni, le paure cinesi, e adesso l’episodio britannico che sbaglieremmo a giudicare sostanziale quando non è altro che l’ennesima circostanza. “Quello a cui abbiamo assistito nell’anno passato potrebbe essere l’inizio di un importante, inevitabile e necessario riallineamento”, avverte la Bis. Quindi prima ancora di Brexit, che è l’ennesimo shock, sono gli stock ciò di cui dovremmo discorrere, occuparci e preoccuparci.
Ma di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, avvertiva un filosofo tanti anni fa. E del debito non si parla, per la semplice ragione che le nostre società covano il pensiero che in fondo non sia importante. Convivere col debito, anche eccessivo, è il nostro nuovo imperativo categorico. E il fatto che sia tale imperativo alla radice della nostra instabilità, che dall’economia si trasmette a tutto il tessuto sociale, non turba più nessuno. Almeno fino alla prossima Brexit.
Il mondo alle prese con la Triade del rischio
Uno e ormai trino, il rischio globale, che assedia le nostre economie, trova nella narrazione che ne ha fatto di recente la Bis nel suo rapporto annuale la migliore delle rappresentazioni possibili a uso di coloro che vogliano godersi il panorama da un’altura appena più elevata rispetto a quella che usualmente ospita gli osservatori. La banca di Basilea, d’altronde, è il luogo delle riflessioni ponderate, l’ideale punto di vista di chi voglia comprendere le ragioni profonde della nostra economia, provando persino a dar loro un senso intellegibile capace di ordinare il caos di notizie contraddittorie che anima la nostra attualità.
Così Brexit, nelle dichiarazioni introduttive del direttore generale Jaime Caruana, occupa appena poche righe, con ciò sostanziandosi la portata reale di quest’evento rispetto al movimento profondo dell’economia internazionale. Quest’ultima, che risulta persino in miglior salute di quanto si possa desumere, rimane comunque fragile, esposta alla temperie di un rischio che ormai si è talmente stratificato da divenire inerente alla costituzione stessa del tessuto economico. L’economia, sembra di capire, è cresciuta perché nel frattempo anche il rischio è aumentato, replicandosi nell’economia reale la regola non scritta della finanza che vuole un maggior rischio associato a un maggior rendimento. Volendo crescere, vale a dire, i policy maker hanno dovuto accettare rischi crescenti, che ormai si declinano lungo tre diverse angolature, fino a configurarsi in una Triade, alla quale più volte fanno riferimento gli economisti della banca.
La prima fonte di rischio, spiega Caruana, “è costituita dai crescenti livelli di indebitamento, sia privato, soprattutto nelle economie di mercato emergenti, sia pubblico nelle economie avanzate, dove i governi si sono sforzati di attutire le ricadute economiche della fase di bust”. Sommandosi queste due voci di debito hanno condotto il debito globale a livelli mai visti in tempi di pace. E questo vuol dire un continuo drenaggio di risorse che i debitori devono assicurare ai creditori per servire, pure ai tassi minimi di oggi, le loro obbligazioni.
La seconda fonte di rischio, invece, è la crescita della produttività, che continua a languire. “Il rallentamento della crescita della produttività è un processo complesso, con molti fattori in gioco. I cicli finanziari sono uno di essi: attraggono una quantità eccessiva di risorse in settori in espansione ma con bassa crescita di produttività quali le costruzioni; una volta che si concretizza la fase di bust ci vuole tempo prima che queste risorse allocate in maniera distorta tornino verso usi più produttivi. Le nostre
analisi indicano che questi effetti possono essere significativi e duraturi”. Questo rischio, che impatta sulla crescita, sommandosi al primo, genera l’effetto di una maggiore sofferenza nella capacità di sostenere la montagna di debito che intanto continua a cumularsi, conducendo alla terza fonte di rischio: l’assottigliarsi dei margini per le manovre di policy. “Ciò risulta evidente nelle contromisure asimmetriche e non equilibrate adottate dalle politiche, che non hanno contrastato, o non hanno contrastato a sufficienza, i boom del credito, adottando invece continue
misure di allentamento durante le fasi di bust”.
Questa Triade svolge i suoi effetti nella filigrana stessa del tessuto economico, esacerbandone l’instabilità quando si verificano episodi di tensione, come nella seconda metà del 2015 e all’inizio di quest’anno. A questa minaccia, latente e potenzialmente violenta – come lo stesso episodio di Brexit mostra con chiarezza – se ne aggiunge una seconda che ci riporta alla radice del problema: la persistenza di tassi di interesse bassi. “Tassi persistentemente bassi, o addirittura negativi, erodono i margini netti di interesse delle banche, creano più disallineamenti di rendimento delle compagnie assicurative e incrementano il valore delle passività dei fondi pensione. Nel tempo, tutto ciò può avere un impatto debilitante sull’economia reale. Oltre a ciò, i tassi negativi possono scuotere la fiducia delle famiglie e influenzare le attitudini al risparmio e all’investimento per vie ancora più difficili da prevedere”.
E così si arriva al punto fondamentale che tutti temono più di ogni cosa: la perdita di fiducia. Cosa succederebbe se gli operatori smettessero di credere nel potere delle banche centrali di influenzare l’inflazione, o in quello dei governi di fare ciò che serve per stabilizzare l’economia?
A questa domanda non c’è nessuno che abbia voglia di rispondere.
