Etichettato: commercio estero italia

Cronicario: A(i)uto, m’è crollato il commercio coi Sovrani

Proverbio del 15 febbraio Non disperare senza serbare la speranza

Numero del giorno: 2.316.700.000.000 Debito pubblico italiano a dicembre

Chiaramente è un complotto dei poteri forti che l’attivo commerciale italiano scenda per la prima volta dal 2013 sotto i 40 miliardi nel 2018 e che il 2019 si apra col crollo delle vendite auto in Europa e della Fca in particolare.

Tutto complotta contro il cambiamento. Ma il signor Tutto ha fatto male i conti. Noi ce ne freghiamo della matematica, figuriamoci dei conti che fanno gli altri. Non badiamo ai nostri, figurarsi. E poi che volete che sia un attivo commerciale più basso? Vuol dire che abbiamo risparmiato meno, come insegna l’ormai ex ministro Pamplona di recente trasferitosi (ma dicono abbia sbagliato indirizzo), e che quindi l’economia andrà meglio non oggi ma domani.

Ma vabbé mica starete a guardare i dettagli. Serve la visione d’insieme. E allo guardatela, ‘sta benedetta visione.

Gli autoveicoli nel 2018 ancora hanno tenuto – nel senso che erano poco più che zero. E il 2019 l’avete visto come è cominciato. Mezzi di trasporto e farmaceutica ci sono costati cari. Quest’ultima, in particolare, sia sul versante dell’import che dell’export.

Se guardiamo ai partner, osserviamo che gli Stati Uniti (ma anche la Cina) hanno contribuito negativamente (quindi al calo del surplus) sia sul versante dell’export (abbiamo esportato meno) che su quello dell’import (abbiamo importato di più). Al contrario è andata con i paesi europei, che hanno contribuito all’aumento dell’export e alla diminuzione dell’import.

E adesso godetevi il week end.

A domani.

 

Cronicario: L’export scricchiola, ma ci salveranno i ricchi (e i ciclisti)

Proverbio del 16 novembre La bocca non si addolcisce parlando di miele

Numero del giorno: 2,2 Accelerazione % inflazione in ottobre nell’EZ a ottobre

Per fortuna è venerdì, mi dico esausto scorrendo il cronicario, oggi come ieri pieno di notizie estenuanti. Mica solo per colpa nostra. I nostri cugini inglesi sono alle prese con la Brexitmachia e perdono ministri come noi miliardi per colpa dello spread (i nostri ministri resistono invece, a conferma della tempra italica). E ce ne potremmo pure infischiare se non fosse che prima o poi i guai della May, che abbiamo tenuto fuori dalla porta, entreranno dalla finestra, come possono capire i feticisti dei grafici.

Ma poiché a molti questo pensierino sembrerà campato in aria, vi riporto subito sulla triste cronaca che è a prova di cretino. Basterà scorrere l’ultima release sul nostro commercio estero riferita a settembre, che racconta di flessioni dell’export sia su base mensile (-2,1%) che su base annuale (-2,8). Il grosso di questo calo si concentra fra i paesi extra Ue. In particolare il calo delle esportazioni sono scesi negli Stati Uniti (-8,6%), Turchia (-31,0%), Russia (-24,7%), Cina (-17,2%) e paesi OPEC (-11,2%). L’asse sovranista che tanto ci vuole bene.

Il riassunto è edificante: “Si stima che il surplus commerciale si riduca di 2.983 milioni di euro (da +4.257 milioni a settembre 2017 a +1.274 milioni a settembre 2018). Nei primi nove mesi dell’anno l’avanzo commerciale raggiunge +28.482 milioni (+58.422 milioni al netto dei prodotti energetici)”. Dal che si deduce che abbiamo speso 30 miliardi per i beni energetici. Ma il governo del cambiamento avrà sicuramente una ricetta per risolvere questo problema. Si può averne contezza leggendo le parole illuminate di uno dei massimi esperti della maggioranza del cambiamento via Twitter, incidentalmente presidente di commissione, secondo cui ridurre le importazioni” di energia “è sicuramente di importanza capitale”.

Che fare? Ma è l’uovo di Colombo: bisogna “produrre in casa quella energia che, superficialmente, tante volte abbiamo pensato fosse più facile importare dall’estero”.

Quindi non state a preoccuparvi, anzi siate felici. Perché nel tempo che tornate a camminare in bicicletta – risparmiamo anche sulle palestre che sono un’aberrazione liberale – e magari tornate a scaldarvi con la lana di pecora, il nostro esecutivo ha le idee molto chiare su come si debba risolvere il nostro annoso deficit di investimenti (leggi: strade sbreccolate, case pericolanti e ponti pericolosi). A parte i potentissimi investimenti pubblici, con moltiplicatore superX, il governo ha un piano che oggi il ministro che rima con economia e che casualmente abita nello stesso ministero ha sintetizzato con queste parola davvero edificanti: “L’impiego dei capitali privati al servizio del futuro del paese funge da collante sociale per recuperare la legittimità della funzione che la ricchezza ha sempre avuto”. E quindi l’invito ai ricconi – che sono notoriamente generosi ai confini della tirchieria – a “dare il contributo alla strategia del governo attraverso gli investimenti”.

Che dite? E’ la migliore della settimana vero? Lo so. Infatti chiudo bottega.

A lunedì.

Il Lamento di Confindustria e la Sindrome di Bruxelles

Chissà perché mi è venuto in mente il Lamento di Portnoy di Philip Roth di fronte all’ennesimo campanello d’allarme suonato dalla Confindustria dal palco internazionale di Berlino. Forse perché il romanzo di Roth racconta con grande divertimento la nevrosi di un uomo che gode dell’astio che nutre per sue radici, un po’ come la nostra grande industria, ormai vocata all’internazionalizzazione, a differenza della piccola, e molto spesso critica nei confronti del proprio paese.

Mentre non mi ha stupito il plauso rivolto dal presidente di Confindustria Squinzi a Mario Draghi, “che ha salvato l’euro”, mi ha sorpreso l’endorsement dello stesso Squinzi per l’unione bancaria. Il leader degli industriali ha detto che bisogna assolutamente concludere il processo. Un’affermazione che prima di lui avevano fatto solo il ministro del Tesoro Saccomanni (ex banchiere centrale) e l’attuale governatore di Bankitalia Visco.

Il resto della classe politica italiana semplicemente non pervenuta.

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, insegna la saggezza popolare.

Da tali circostanze ho dedotto che evidentemente i nostri confindustriali sono assolutamente convinti della necessità e dell’importanza strategica dell’attuale costruzione monetaria e (presto) bancaria.

E allora mi è sorta una domanda: perché?

A scuola mi hanno insegnato che gli imprenditori guadagnano vendendo i loro beni e servizi. Più riescono a vendere più guadagnano, sempre che riescano a produrre a un prezzo che superi il più possibile il costo di produzione.

Quindi, mi sono detto, evidentemente l’unione monetaria e (presto) bancaria è un ambiente favorevole per gli affari.

Allora mi sono andato a vedere gli ultimi dati Istat ed Eurostat sulla bilancia commerciale dell’Eurozona e del nostro Paese seguendo il filo di un semplice ragionamento: se i nostri confindustriali esportano più beni all’estero, vuol dire che effettivamente fanno bene a difendere lo status quo. In questa fase di debito estero crescente, meglio far arrivare più denari possibili da oltrefrontiera.

L’Istat, che ha rilasciato i dati sul commercio estero pochi giorni fa, dice che a luglio 2013 c’è stato un calo delle esportazione del 2,3% rispetto a giugno, con un forte calo per i beni di consumi durevoli (-6%) e strumentali (-4,4%).

Se andiamo aldilà del dato congiunturale e guardiamo al tendenziale, osserviamo che dal luglio 2011 a luglio 2013 la curva dell’export è sostanzialmente piatta, a differenza di quella dell’import, in netto ribasso. Con una precisazione: è piatta quella dell’export verso i paesi Ue e in lieve rialzo quella verso i paesi extra Ue, in particolare Cina, Russia e Giappone.

Quindi il nostro saldo commerciale  è migliorato perché abbiamo importato di meno, che poi significa consumato di meno. E meno consumi interni non dovrebbero essere una buona notizia per gli industriali, anche se confindustriali.

Se da Istat passiamo ad Eurostat, cambia poco. L’eurozona esibisce un surplus di 18,2 miliardi di euro a luglio 2013, in crescita rispetto ai 13,9 del luglio 2013.

Senonché se si vanno a vedere i dati di giugno 2013, scopriamo che è accaduto il contrario: rispetto a giugno 2012 il valore assoluto delle esportazioni dell’eurozona è diminuito del 3% (da 162 miliardi, nel giugno 2012 a 157,3 di giugno 2013). Il saldo, tuttavia, era già positivo per 12,8 miliardi, a giugno 2012, ed è arrivato a 16,5 a giugno 2013. Ma anche qui,la differenza l’han fatta le importazioni, crollate dai 149,2 miliardi di giugno 2012 a 140,8 del 2013.

Se guardiamo a un periodo più lungo, da gennaio a luglio, vediamo che fra il 2012 e il 2013 le esportazioni sono aumentate del 2% (da 1.086,4 miliardi a 1.104,9), mentre l’import è calato del 4% (da 1.051,3 a 1.014,1). Il saldo è passato da un surplus di 35,1 miliardi a 90,8.

Senonché l’eurozona, come dovremmo aver imparato tutti, è fortemente frammentata. Riferendoci sempre al periodo gennaio-luglio, vediamo che per l’Italia l’export totale è rimasto lo stesso, da 195,3 mld a 194,5 (la famosa curva piatta Istat) mentre l’import è crollato del 7%. Ma c’è di più: anche la super Germania è piatta: da 549,2 mld nel 2012 è addirittura in leggero calo a 547,1, mentre l’import è sceso del 2%. La Francia esibisce una contrazione dell’export dell’1% e dell’import del 3%, il Lussemburgo ha esportato addirittura il 16% in meno. Ma se i pezzi grossi hanno fatto flop, da dove è arrivato il surplus?

Nell’eurozona il meglio l’hanno fatto la Grecia (+5%), la Spagna (+6%), Cipro (+9%) il Portogallo (+3%). Come dire: più sono disgraziati (e quindi più competitivi) più esportano.

Vale la pena sottolineare che la Gran Bretagna ha fatto un +15% nel periodo considerato. Forse c’entra qualche cosa la politica monetaria della BoE?

Rimaniamo col dubbio e con la domanda di prima: perché i nostri confindustriali tifano euro+unione bancaria?

Se allunghiamo lo sguardo al conto merci dal 2008 al 2013, scopriamo (valori storici/Bankitalia) che i nostri crediti da export sono rimasti pressoché costanti. Erano 377 miliardi nei dodici mesi conclusi a luglio 2008, sono stati 387 a luglio 2013, dopo aver recuperato il crollo subito fra il 2009 e il 2010 (314 mld). In pratica un leggerissimo miglioramento.

Lato debiti/import siamo passati dai 374 mld dei dodici mesi finiti a luglio 2008 ai 355 mld di luglio 2013, dopo aver toccato un picco di import nel luglio 2010 a quota 390 mld.

Anche nel medio periodo, quindi, il miglioramento del saldo commerciale non dipende dal fatto che i nostri imprenditori hanno venduto di più. Semmai il contrario.

Poiché dalle merci non è arrivata una risposta convincente, sono andato a vedere tutto il conto corrente della bilancia dei pagamenti, non soltanto il conto commerciale.

Prendiamo la voce servizi e guardiamo i dati dal 2008 in poi (a valori storici/Bankitalia). I nostri crediti da servizi nei 12 mesi terminati a luglio 2008 erano pari a 82,1 mld,lo stesso valore di luglio 2013. Quindi neanche lato servizi il sistema Italia, imprese incluse, hanno fatto grandi progressi.

Rimane la voce dei redditi che, lo ricordiamo, conteggia come credito il rendimento degli investimenti all’estero dei nostri residenti e come debito il rendimento che i non residenti guadagnano dai loro investimenti in Italia. Nel luglio 2008 i crediti erano 67 miliardi e i debiti 94. Nel 2013 i crediti erano poco più di 49 miliardi e i debiti 61.

Ciò dipende da due cose. Lato crediti dal fatto che i residenti hanno disinvestito i propri asset esteri, sia di portafoglio che diretti. Lato debito che è rientrato molto debito estero, specie quello dello stato, per le note ragioni di credit crunch e che quindi ci abbiamo pagato meno interessi.

Lato imprenditori, l’unica voce “dedicata” che potrebbe dirci qualcosa è quella degli investimenti diretti all’estero. Nei dodici mesi finiti a luglio 2008 i cittadini italiani avevano oltre 48 mld di investimenti diretti all’estero. A luglio 2013 sono poco più di 10 miliardi. In pratica si sono ridotti di un quarto. Chi si è internazionalizzato ha fatto quello che doveva fare ma oggi gli italiani, imprenditori in primis, sembrano sempre più rinchiusi nel recinto delle proprie frontiere.

Insomma, da qualunque lato guardo la cosa, il lamento di Confindustria, con tanto di endorsement, non lo capisco proprio.

Ma sarà un mio limite.

Perciò sono andato a leggere il sole 24 Ore, il massimo organo di informazione economica italiano, per incidente di proprietà della Confindustria.

Se non me lo spiegano loro…

L’edizione del 17 settembre dedica ben due pagine alla “questione industriale”.

E meno male, penso.

Leggo tutto, anche le didascalie.

Una doviziosa cronaca dice che Draghi e Squinzi si sono trovati d’accordo sul fatto che la priorità dell’eurozona deve essere il rilancio della crescita e dell’occupazione. Un titolo spiega che Draghi esorta al completamento dell’Unione bancaria “con un forte meccanismo di risoluzione“. Un sommario avvisa che “La Bce non può sostituire i governi che devono riformare sistemi politici inefficienti”. Ma la parola d’ordine di Draghi è sempre la stessa: bisogna aumentare la competitività.

Mi sono immaginato Squinzi applaudire in quel preciso momento.

Dopodiché mi è caduto l’occhio su un robusto editoriale intitolato “L’industria europea alza la voce”. E questo vociare chiede “più Europa, più credibile, efficiente e competitiva”. Quindi riforme strutturali, lato lavoro innanzitutto. “Chi pare non aver capito sono i governi”, commenta l’articolista.

I soliti politici arruffoni e arraffoni.

Ma il pezzo forte è l’apertura della pagine dispari, quindi quelle più visibile nella grammatica dei giornali.

Un poderoso virgolettato di Squinzi avverte: “Il cuneo (fiscale, ndr) banco di prova del governo”. Perché non si dica che gli industriali vogliono salari più bassi, ma un costo del lavoro più basso. Quindi un taglio della contribuzione e degli oneri legati alla retribuzione.

Ma i soldi, dove li prende lo Stato? “Di rigore si può anche morire”, spiega Squinzi.

Poi c’è un altro eloquente titoletto: “Le confindustrie dei principali paesi europei chiedono politiche ambiziose per rafforzare l’euro”.

Ancora? Ma perché? “Perché l’euro è la nostra valuta e un importante strumento per lo sviluppo del mercato interno europeo”, spiega un sommarietto.

Alquanto apodittico, ne converrete.

Scoraggiato ha concluso la lettura con l’esortazione del presidente della confindustria tedesca, Dieter Hundt, che ha invitato i governi europei a fare i compiti a casa, ridurre il debito pubblico e fare le strabenedette riforme strutturali per rilanciare la competitività.

Parole che abbiamo sentito ripetere più volte da Draghi e dal presidente della Commissione Ue Barroso.

Allora ho capito.

Gli industriali sono vittime del più classico caso di sindrome di Stoccolma. Si sono innamorati del loro sequestratore.

Senonché Stoccolma è fuori dall’euro.

Potremmo chiamarla Sindrome di Bruxelles.