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L’Italia portoghese

Parlare del Portogallo è come parlare di noi. Me ne accorgo leggendo l’ultimo rapporto della Commissione europea che monitora lo stato di aggiustamento del piccolo paese, finito sotto le amorevoli cure della Troika dopo il quasi dissesto post 2008. Ci somigliamo, noi e i portoghesi, e non soltanto perché abitanti dell’Europa mediterranea, che così tanto ha patito negli ultimi sei anni, ma soprattutto perché i problemi cui il Portogallo ha dovuto far fronte ricordano terribilmente quelli con cui noi siamo chiamati a fare i conti, dovendo convivere con l’ipoteca della Troika, che con fare vagamente avvoltoio, minaccia la nostra pace mentale.

Perciò diventa assai utile raccontare cosa sia successo in Portogallo dal 2011 al 2014, e segnatamento fino a giugno di quest’anno, quando si è concluso, per decisione del governo, il programma gestito da Fmi, Bce e Commissione, grazie al quale il Paese ha dissipato al momento l’ombra di un fallimento imminente. E così scoprire che nonostante le imponenti misure decise e applicate sotto l’occhiuta sorveglianza dei commissari esteri – anche queste terribilmente simili a quelli che dovremmo applicare noi – non solo il Portogallo non è ancora fuori dai tormenti, ma rischia di ricaderci di nuovo, dovendo peraltro fare i conti con una situazione debitoria sostanzialmente eterna. E anche questa circostanza ce li rende fratelli di sventura.

La fine della storia è che “il programma ha stabilizzato l’economia e il sistema finanziario, oltre ad aver provveduto a mettere le basi per un ritorno del Portogallo a una crecita sostenibile e alla creazione di posti di lavoro. Tuttavia l’economia rimane vulnerabile a futuri shock negativi e ulteriori progressi sono necessari per consolidare le finanze pubbliche, salvaguardare la stabilità finanziaria e migliorare la competitività”.

Serviranno, insomma, nuovo e più profonde riforme strutturali. Il paese, infatti, “necessità urgentemente di una credibile strategia a medio termine” per riparare un meccanismo economico ancora inceppato, dove campeggiano come atti d’accusa un notevole indebitamento  e alti livelli di povertà e disoccupazione.

Sono parole che la Commissione Ue ha scritto nel rapporto finale sul Portogallo ma che, lo vedete bene, potrebbero tranquillamente applicarsi al caso nostro. E la circostanza che siano state scritte di recente, dovrebbe anche farci riflettere su quanto le correzioni imposte dalla Troika siano davvero capaci di fare uscire dal tunnel un paese che ci sia finito dentro.

Sarà per questo che, come nota la Commissione, il programma di assistenza si è interrotto “in maniera non convenzionale” lo scorso 12 giugno per decisione del governo, che ha “cacciato” la Troika senza peraltro neanche accedere all’ultima tranche di un finanziamento di 2,6 miliardi che faceva parte del piano, aggravando perciò le conseguenze della decisione della Corte costituzionale, del 30 maggio, di bocciare, reputandole non costituzionali, alcune importanti decisioni fiscali prese in precedenza. E anche in questo il Portogallo ci somiglia: ha deciso di provare a farcela da solo.

La decisione della Corte ha aperto un buco pari allo 0,4% del Pil pari all’entità della correzione che le regole bocciate avrebbero indotto nell’indebitamento netto, mettendo quindi in serio rischio il target del 4% per il deficit/pil 2014, e anche quello del 2015, quando si prevedeva che il rapporto sarebbe finalmente sceso sotto il 3%. Il governo ha assicurato nuove norme per riparare la falla, ma anche queste sono finite all’attenzione dei giudizi costituzionali, divenuti improvvisamente l’anti-Troika.

In tale contesto istituzionale perlomeno confuso, il Portogallo si trova a dover fare i conti con una situazione macroeconomica e finanziaria altrettanto complessa.

Per un lungo periodo il paese ha accoppiato bassa crescita e altrettanto bassa produttività cumulando squilibri sia all’interno che, soprattutto, all’esterno, che hanno generato un notevole aumento dell’indebitamento di famiglie e imprese e, dulcus in fundo, dello stato. Con l’esplodere della crisi tutti i nodi sono venuti al pettine ed è dovuta intervenire la Troika, avendo il governo chiesto aiuti internazionali dopo l’esplosione degli spread e la forte fibrillazione delle banche, ormai impossibilitate a recuperare all’estero i fondi necessari al loro funzionamento.

Nel triennio 2011-2014 è stata attuata una dura correzione degli squilibri. Nel settore produttivo con vocazione all’export il costo del lavoro unitario è diminuito del 5% fra il 2009 e il 2013, mentre nel settore non tradable tale correzione si è avviata solo nel 2011, conducendo peraltro a una notevole diminuzione del numero dei dipendenti pubblici. Riduzione di stipendi e dei posti di lavoro, d’altronde, sono state alla base della riforme del mercato del lavoro. Vi fischiano le orecchie?

Al contempo sono state approvate importanti riforme: del sistema giudiziario, dell’amministrazione pubblica, del sistema fiscale, temi ormai all’ordine del giorno anche da noi (almeno a parole), fino a che la Corte costituzionale non ha iniziato a metterci lo zampino, suscitando notevoli preoccupazioni nella Troika.

Ma la correzione c’è stata, e anche robusta. il conto corrente della bilancia dei pagamenti è passato da un deficit dell’11% del pil a un surplus dello 0,4, il primo surplus degli ultimi 40 anni, ottenuto per lo più con la compressione decisa della domanda interna. Non vi ricorda qualcosa?

Il rilancio delle esportazioni, conseguenza dell’aumento i competitività, ha fatto schizzare al 40% la quota dell’export sul Pil portoghese nel 2014 che però, nota la Commissione “è ancora bassa rispetto ad altre economie comparabili dell’eurozona”.

Insomma: si doveva e si dovrà fare assai di più: “La trasformazione dell’economia attraverso una crescita export-led deve proseguire se la ripresa deve essere sostenuta”. E anche questo mi ha fatto tornare in mente il recente rapporto del Fmi su di noi. Vi basti sapere che per mantetere i propri debiti sostenibili, il Portogallo dovrebbe tornare a un tasso di crescita potenziale di almeno il 2%. E purtroppo per loro “i rischi dell’outolook nel medio termine appaiono orientati al ribasso”.

Sul versante fiscale, fra il 2010 e il 2013 il deficit fiscale è passato dal 9,8% del Pil al 4,5, e abbiamo visto che si prevedeva, per il 2014, un calo ulteriore al 4%, prima però che intervenisse la Corte costituzionale. Corretto per il ciclo, tale aggiustamento corrisponde a un aggiustamento del 6% del Pil cui, aggiungendo la correzione del saldo primario relativo, ha condotto a un cosolidamento totale del 12,5% del Pil in tre anni. Chissà perché leggendo queste cifre mi è tornata in mente l’ultima nota di aggiornamento del Def pubblicata dal governo.

Purtroppo (ma guarda un po’) la correzione ha aggravato la recessione, e quindi, indirettamente, peggiorato i saldi fiscali, visto che sono diminuite le entrate ed è peggiorata la spesa sociale. Per darvi un’idea, nel 2013 la spesa per i sussidi di disoccupazione è stata del 40% superiore rispetto a quella del 2010, e quella per le pensioni, malgrado le leggi draconiane che hanno pure previsto un contributo straordinario di solidarietà, è aumentata dell’11%. Lo stop imposto dalla Corte costituzionale ha fatto il resto. E adesso il Portogallo si trova di nuovo costretto a rimettere in campo misure di consolidamento fiscale che evidentemente non bastano mai.

Sul versante del debito pubblico, la Commissione rileva che quota oltre il 130% del Pil “fra i più alti nell’eurozona”. Inutile che vi ricordi che è in buona compagnia. E ciò malgrado un programma di privatizzazioni (e anche questo mi ricorda qualcosa) da 5,5 miliardi concluso positivamente (a differenza del nostro) già a dicembre 2012, che a giugno del 2014 aveva già raggiunto i nove miliardi.

Infine, rimane la questione della stabilità finanziaria, tornata d’improvviso d’attualità dopo il crash estivo del Banco Espirito Santo, per fortuna intervenuto, rileva la Commissione, in un contesto di sistema bancario disindebitato e ricapitalizzato. La risoluzione della banca, osserva, è avvenuta senza contagi, pur avendo danneggiato l’immagine del Portogallo “per lo più grazie alle precedenti misure adottate dal programma di assistenza”. Insomma: la Troika non solo ha salvato il Portogallo, ma ha pure evitato che il fallimento del Bes diventasse un evento sistemico.

Insomma: la Troika ti salva la vita e strappa applausi al pubblico pagante. Cosa aspettiamo ad invitarla a casa nostra?

Lo spettacolo dell’Italia portoghese sbancherà al botteghino.

Il biglietto però lo pagheremo noi.

C’è un giudice a Berlino, ma anche a Lisbona

Chi la spunterà nell’inedita disputa ormai conclamata fra giuristi ed economisti/banchieri sulla quale si gioca il futuro dell’Unione europea?

Pochi l’hanno notato, ma nella generale debolezza della politica, che ormai ha chiaramente delegato alle banche centrali gli indirizzi della politica economica europea, si sta affermando come un vero e proprio contropotere quello delle corti costituzionali, che ormai sindacano, mettendo sul tavolo il loro notevole potere d’interdizione, sulle decisioni dei governi fino a stravolgerle.

La cosa divertente, che fa capire anche quanto tale atteggiamento sia trasversale, è che finora le corti costituzionali che hanno questionato, guadagnando l’attenzione preoccupata delle cronache finanziarie, sono state quella tedesca, ossia quella del grande creditore europeo, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’OMT voluto da Draghi, e quella portoghese, ossia quella di uno dei grandi debitori, che è entrata a gamba tesa su alcune scelte di politica economica del governo chieste a gran voce dalla Troika, provocando anche una mezza crisi di governo.

L’ultima bocciatura ha riguardato alcune norme che si proponevano di flessibilizzare il mercato del lavoro. E la cosa ha suscitato tali apprensioni che il Fmi, nel suo ultimo staff report dedicato al Portogalloe uscito poche settimane fa, cita proprio le decisioni della Corte come uno degli ostacoli principali al proseguimento del programma di riforme che, oltre a garantire allo stato lusitano i prestiti di cui ha bisogno, viene considerato indispensabile per risanare alle fondamenta l’economia nazionale, devastata da anni di prestiti facili d’improvviso diventati debiti da onorare.

Per dare un’idea di quanto sia profonda la spaccatura che sta maturando fra i veri poteri forti dell’Unione europea, ossia i banchieri e i giuristi, vale la pena ricordare che poche settimane fa, esattamente il 25 ottobre, a Roma si è tenuto un convegno organizzato dalla Corte costituzionale italiana con quella spagnola e quella portoghese. Un incontro di routine maturato nell’ambito dell’accordo di collaborazione siglato dalle tre corti per esaminare questioni di comune interesse.

Il tema della riunione romana era “I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle Corti europee”. E già da questo si capisce quale sia la portata della posta in gioco. Ossia il rapporto fra la giuridizione comunitaria, che trova nella Corte di giustizia europea il suo baluardo, e quella nazionale, che trova nella corte costituzionale la stessa cosa.

La questione, semplificando, si potrebbe riassumere i questi termini: quanto è compatibile la “sovranazionalità” comunitaria con la “sovranità” giuridica di uno stato rappresentata dalla Corte costituzionale?

Il tema non è certo nuovo. Se ne parlò a lungo nei primordi dell’Unione, quando si discuteva della Ceca.

Ma poi le questioni guridiche finirono in sordina, confinate nella specialistica.

Adesso, al contrario, sembra che i giudici siano diventati parte integranti del processo dialettico che si sta consumando sul futuro dell’Ue.

Forse perché mentre è molto facile sottrarre sovranità alla politica nelle questioni economiche, fare lo stesso per le questioni giuridiche, sulle quali si fonda letteralmente l’Unione, sono assai più ostiche.

I giudici, ma in generale i giuristi, non sono mammolette che si lasciano spaventare dallo spread.

Forse perché, come dicono i maligni, i giudici costituzionali rappresentano l’aristoburocrazia del pubblico impiego, ossia ciò che le varie troike vedono come il fumo negli occhi, e quindi (dovrebbero essere) i naturali destinatari di una qualunque spending review.

Senonché le Costituzioni degli stati sono rimaste l’unica cosa considerata intoccabile e sacra dalle popolazioni europee. E’ in tale legittimazione “popolare” che i giudici trovano la forza “politica” di compiere le loro scelte che, al di là di come si considerino, sono di rottura.

Guardate cosa scrive il Fmi: “C’è stato qualche miglioramento dell’ambiente macroeconomico, ma scandito da una crisi politica e da una battuta d’arresto nel processo di riforma provocato dalla Corte costituzionale”.

Sottotitolo: la Corte costituzionale ha bloccato il processo di miglioramento macroeconomico.

Diritto (nazionale) ed economia (sovranazionale) confliggono e divergono.

Per darvi un’idea di quanto il Fmi guardi con preoccupazione a questa “battuta d’arresto” basta notare la sottolineatura che fa il Fondo delle tre volte durante le quali la Corte ha bocciato alcune riforme chiave della spesa “effettivamente limitando l’intento del governo di licenziare i dipendenti pubblici”.

“Più recentemente – aggiunge – la Corte ha rovesciato la riforma del lavoro che aveva attenuato le rigide regole di protezione del lavoro dipendente che disciplinano i licenziamenti dei lavoratori a conctratto a tempo indeterminato”.

Ciò, ovviamente. è stato sufficiente per trasformare, in molta opinione pubblica europea, la Corte di Lisbona nella paladina dei diritti dei lavoratori.

L’ennesima sconfitta della politica, viene da dire.

Il problema però non è raccogliere applausi per quello che si fa, ma pagarne le conseguenze.

Non penserete mica che l’economia non abbia le sue proprie regole?

Infatti, nota sempre il Fmi, “oggi, con l’elevata volatilità dei mercati globali, l’accresciuta incertezza politica (rectius: costituzionale, ndr) ha condotto il rendimento dei bond decennali fino al 7,5%. Nonostante recenti ritracciamenti i mercati rimangono prudenti circa le possibilità del Portogallo di uscire dalla situazione corrente entro maggio 2014 senza ulteriori supporti ufficiali”.

Quanto invece agli effetti macroeconomici dell’ultima bocciatura costituzionale, il Fmi scrive che “l’impatto fiscale è stimato relativamente basso (0,1% del Pil) ma c’è il rischio che questo possa ridurre gli incentivi alle dimissioni volontarie previste dalle norme”.

Sottotitolo: guarda che se non fai come dicono, i mercati ti tagliano definitivamente i fondi.

Che poi significa che neanche i giudici costituzioniali avranno più uno stipendio, visto che la capacità del Portogallo di pagarli dipende dai prestiti internazionali.

Come andrà a finire lo vedremo presto. Anche perché i fondamentali macroeconomici portoghesi sono a dir poco problematici.

Nel secondo quarto 2013 il Pil è cresciuto dell’1,1%, ma il tasso di occupazione è 13 punti sotto il picco raggiunto nel 2008. E ciò malgrado il costo unitario del lavoro, fatto 100 il livello nel 2008, sia sceso sotto 90 nel settore pubblico mentre è rimasto stabile nel privato. Nel suo complesso, il costo del lavoro è calato del 4,25% dal primo quarto 2009.

Ma è bastato questo per migliorare la competitività.

Sul lato estero, l’aumento dell’export nel 2013 (+4,5%) ha migliorato gli squilibri di parte corrente. Il saldo, che veleggiava verso un deficit del 15% nel 2008, nel 2013 dovrebbe chiudere con un surplus pari all’1% del Pil, ma solo perché si è praticamente azzerato il deficit sulla bilancia dei beni.

I Portoghesi non hanno importato quasi più nulla insomma. Anche perché non avevano più soldi da prendere in prestito, visto che sul lato finanziario della bilancia dei pagamenti si registrano corposi deflussi  di investimenti di portafoglio dal 2010 in poi, con un picco di quasi 30 miliardi nel 2012.

Gli investimenti di portafoglio sono tornati pian pianino nel primo semestre 2013 (ma il saldo netto è previsto negativo fino al 2017), quando si ferma la rilevazione del Fmi, quindi prima che gli effetti della decisione della Corte costituzionale spiegassero i propri effetti.

A ciò si aggiunga che i problemi fiscali del Portogallo sono tutt’altro che risolti. il Deficit generale del governo, che aveva raggiunto il 9,9% del Pil nel 2010 dovrebbe restringersi al -5,9% nel 2013 a fronte di un debito pubblico previsto in crescita fino al 127,8% del Pil nel 2013.

Tutto ciò spiega bene perché il Fmi tema che “le decisioni della Corte costituzionale possano minare la fiducia”.

“Il governo – conclude – dovrà riformulare la legge di bilancio per raggiungere i target di deficit concordati, ma, data la limitata potenzialità di manovra, potrebbe essere molto difficoltoso. Ciò può condurre alla scelta di adottoare misure di scarsa qualità, aumentando il rischio sulla ripresa del prodotto e dell’occupazione, e quindi l’instabilità politica”.

Ma non è una minaccia.

E’ un avvertimento.