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Gli altri greci dell’eurozona: la povertà fuori moda del Portogallo
Nel teatro dove si recita a soggetto la commedia dell’euro capita di trovarci anche personaggi in cerca d’autore che ancora oggi, sette anni dopo la crisi, rimangono comparse anonime e anodine. La vulgata infatti, grande scrittrice di sottotitoli per le economie europee, si trova particolarmente priva di parole quando si tratti di immaginare il ruolo di una piccola economia periferica della penisola iberica che ancora oggi patisce, dopo aver tanto patito, il costo sociale di una delle correzioni più pesanti e meno osservate dell’eurozona: il Portogallo.
Così, l’Irlanda è la tigre che torna a ruggire dopo la crisi, la Spagna il gigante malato, ma disciplinato, con quelli di Podemos a far le bizze, la Grecia il paese povero e disgraziato vessato dai cattivissimi tedeschi, Cipro il paradiso fiscale dei russi con le banche-rotte. E il Portogallo? Niente.
Dei poveri portoghesi che, scrive la Commissione Ue, hanno sperimentato “un profondo aumento di povertà ed esclusione sociale nel 2013” non importa granché a nessuno. Forse perché la tragedia greca assorbe tutte le lacrime che siamo capaci di spremere alla nostra sostanziale indifferenza, o forse perché i poveri greci hanno migliore stampa dei poveri portoghesi. Chissà.
Rimane il fatto che questa sorta di frammentazione dell’attenzione sulla povertà di intere popolazioni è un altro regalo di questa crisi che sarebbe stato bello risparmiarsi. Perciò mi sembra giusto riportare qui alcuni elementi raccolti dai documenti ufficiali che la Commissione Ue ha di recente dedicato al Portogallo, l’ultimo Country report di febbraio e il post programme surveillance report di luglio, dove c’è scritto tutto quello che c’è da sapere su questo piccolo Paese.
Ma prima di allietarvi con i dati macro, che sono brutti come ci si può aspettare pure al netto della buona volontà con la quale i portoghesi stanno affrontando il loro riaggiustamento, vale la pena dire ancora alcune parole sulla povertà dei portoghesi, che davvero non capisco perché sia così fuori moda.
La Commissione ci dice che “il numero di persone che vivono a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentato di 210 mila fra il 2012 e il 2013”. “Questo incremento – sottolinea – è stato in percentuale il più alto dell’Ue, passando dal 25,3% al 27,4”. “La gravi privazioni materiali sono aumentate di 2,3 punti percentuali, riguardando il 10,9% della popolazione e il poverty gap per la popolazione in età lavorativa è arrivato al 31,2%, il secondo aumento per grandezza nell’Ue dall’inizio della crisi”.
Ancora di più mi colpisce leggere che “le famiglie con figli sono state particolarmente colpite dalla povertà e l’esclusione sociale”, con l’aggravante che “nel 2013 i bambini a grave rischio di povertà erano in numero maggiore rispetto al totale della popolazione”. In particolare i bambini a rischio povertà erano il 31,6% a fronte di un tasso per l’intera popolazione del 27,4. Questo record del disagio infantile è stato un altro primato raggiunto dal Portogallo nel sostanziale silenzio generale, mentre lo Stato, inseguendo il mito della correzione fiscale, riduceva la spesa per il supporto delle famiglie con bambini del 30% fra il 2010 e il 2011.
Eccoli qua, perciò i portoghesi, disciplinati almeno come gli spagnoli, e senza Podemos, poveri come i greci, se non peggio, eppure continuano ad essere ignorati.
Peggio ancora si ignora il prezzo pagato da questa piccola economia per continuare semplicemente a esistere, col risultato che oggi, pure con gli indicatori in lieve miglioramento, deve portare sulle spalle una situazione debitoria, pure questa, non seconda a nessuno.
Il livello dei debiti portoghesi, infatti, è gigantesco. Fra debito del settore privato, escluse le banche, e del settore pubblico, il Portogallo supera abbondantemente il 300% del Pil, dei quali oltre 200 il settore privato, con le banche ancora piene di non performing loans, e una situazione estera al limite della disperazione, con una NIIP (net international investment position) ancora negativa per il 115% del Pil, e un saldo di conto corrente tornato positivo, ma non abbastanza da arrivare a un riequilibrio che non sia secolare.
La Commissione, infatti, stima, che servirebbe un attivo di conto corrente del 2,5% l’anno per portare la NIIP a un deficit sostenibile. Al livello attuale di attivi di conto corrente, intorno all’1% del Pil, fra dieci anni il Portogallo sarà con un deficit estero di circa l’80% del Pil, più o meno al livello attuale dell’Irlanda, che ha notoriamente i suoi problemi.
Dal che deduco che la cura per il Portogallo dovrà continuare. Ed è facile anche capire come. Il Portogallo, infatti, è ancora strutturalmente in deficit sulla bilancia dei beni, malgrado il miglioramento indotto dal crollo delle importazioni, e a tenere in piedi il saldo corrente sono i servizi, in attivo, e i redditi secondari. Quindi per arrivare ad aumentare l’attivo di conto corrente e iniziare a pagare i suoi debiti senza doverne fare di nuovi, serviranno le solite riforme, dovendo pure fare i conti con un settore che produce beni economici e poco attrattivi e un notevole gap del costo del lavoro unitario fra i settori tradable e non tradable con la disoccupazione ancora molto elevata.
Giocoforza anche la politica fiscale dovrà adeguarsi. Malgrado alcune divergenze di opinioni sul livello previsto di deficit, che comunque orbiterà intorno al mitico 3% nei prossimi due anni, le autorità locali e la Commissione hanno vedute diverse anche sul debito pubblico, al 130,2% nel 2014, e previsto in calo fino al 123% nel 2016. Sempre che vadano in porto tutte le riforme che il Portogallo si è impegnato a fare, dovendo pure vedersela con la Corte costituzione che ha bocciato la riforma delle pensioni sulla quale il governo contava per realizzare risparmi importanti sulla spesa pubblica.
La linea Maginot del diritto costituzionale contro i diktat dell’economia è un’altro esito portoghese osservato giusto il tempo di lasciarlo decantare nell’indifferenza che popola il mainstream.
Rimane il fatto che l’analisi di sostenibilità del debito pubblico portoghese, così come quella del debiti esteri, è una piccola storia dell’orrore che si sostanzia nella constatazione che serviranno decenni di risparmi, pubblici e priati, per tenere a galla l’estremo iberico.
Ma sono ragionevolmente certo che non ce lo faranno sapere.
(2/segue)
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L’Italia portoghese
Parlare del Portogallo è come parlare di noi. Me ne accorgo leggendo l’ultimo rapporto della Commissione europea che monitora lo stato di aggiustamento del piccolo paese, finito sotto le amorevoli cure della Troika dopo il quasi dissesto post 2008. Ci somigliamo, noi e i portoghesi, e non soltanto perché abitanti dell’Europa mediterranea, che così tanto ha patito negli ultimi sei anni, ma soprattutto perché i problemi cui il Portogallo ha dovuto far fronte ricordano terribilmente quelli con cui noi siamo chiamati a fare i conti, dovendo convivere con l’ipoteca della Troika, che con fare vagamente avvoltoio, minaccia la nostra pace mentale.
Perciò diventa assai utile raccontare cosa sia successo in Portogallo dal 2011 al 2014, e segnatamento fino a giugno di quest’anno, quando si è concluso, per decisione del governo, il programma gestito da Fmi, Bce e Commissione, grazie al quale il Paese ha dissipato al momento l’ombra di un fallimento imminente. E così scoprire che nonostante le imponenti misure decise e applicate sotto l’occhiuta sorveglianza dei commissari esteri – anche queste terribilmente simili a quelli che dovremmo applicare noi – non solo il Portogallo non è ancora fuori dai tormenti, ma rischia di ricaderci di nuovo, dovendo peraltro fare i conti con una situazione debitoria sostanzialmente eterna. E anche questa circostanza ce li rende fratelli di sventura.
La fine della storia è che “il programma ha stabilizzato l’economia e il sistema finanziario, oltre ad aver provveduto a mettere le basi per un ritorno del Portogallo a una crecita sostenibile e alla creazione di posti di lavoro. Tuttavia l’economia rimane vulnerabile a futuri shock negativi e ulteriori progressi sono necessari per consolidare le finanze pubbliche, salvaguardare la stabilità finanziaria e migliorare la competitività”.
Serviranno, insomma, nuovo e più profonde riforme strutturali. Il paese, infatti, “necessità urgentemente di una credibile strategia a medio termine” per riparare un meccanismo economico ancora inceppato, dove campeggiano come atti d’accusa un notevole indebitamento e alti livelli di povertà e disoccupazione.
Sono parole che la Commissione Ue ha scritto nel rapporto finale sul Portogallo ma che, lo vedete bene, potrebbero tranquillamente applicarsi al caso nostro. E la circostanza che siano state scritte di recente, dovrebbe anche farci riflettere su quanto le correzioni imposte dalla Troika siano davvero capaci di fare uscire dal tunnel un paese che ci sia finito dentro.
Sarà per questo che, come nota la Commissione, il programma di assistenza si è interrotto “in maniera non convenzionale” lo scorso 12 giugno per decisione del governo, che ha “cacciato” la Troika senza peraltro neanche accedere all’ultima tranche di un finanziamento di 2,6 miliardi che faceva parte del piano, aggravando perciò le conseguenze della decisione della Corte costituzionale, del 30 maggio, di bocciare, reputandole non costituzionali, alcune importanti decisioni fiscali prese in precedenza. E anche in questo il Portogallo ci somiglia: ha deciso di provare a farcela da solo.
La decisione della Corte ha aperto un buco pari allo 0,4% del Pil pari all’entità della correzione che le regole bocciate avrebbero indotto nell’indebitamento netto, mettendo quindi in serio rischio il target del 4% per il deficit/pil 2014, e anche quello del 2015, quando si prevedeva che il rapporto sarebbe finalmente sceso sotto il 3%. Il governo ha assicurato nuove norme per riparare la falla, ma anche queste sono finite all’attenzione dei giudizi costituzionali, divenuti improvvisamente l’anti-Troika.
In tale contesto istituzionale perlomeno confuso, il Portogallo si trova a dover fare i conti con una situazione macroeconomica e finanziaria altrettanto complessa.
Per un lungo periodo il paese ha accoppiato bassa crescita e altrettanto bassa produttività cumulando squilibri sia all’interno che, soprattutto, all’esterno, che hanno generato un notevole aumento dell’indebitamento di famiglie e imprese e, dulcus in fundo, dello stato. Con l’esplodere della crisi tutti i nodi sono venuti al pettine ed è dovuta intervenire la Troika, avendo il governo chiesto aiuti internazionali dopo l’esplosione degli spread e la forte fibrillazione delle banche, ormai impossibilitate a recuperare all’estero i fondi necessari al loro funzionamento.
Nel triennio 2011-2014 è stata attuata una dura correzione degli squilibri. Nel settore produttivo con vocazione all’export il costo del lavoro unitario è diminuito del 5% fra il 2009 e il 2013, mentre nel settore non tradable tale correzione si è avviata solo nel 2011, conducendo peraltro a una notevole diminuzione del numero dei dipendenti pubblici. Riduzione di stipendi e dei posti di lavoro, d’altronde, sono state alla base della riforme del mercato del lavoro. Vi fischiano le orecchie?
Al contempo sono state approvate importanti riforme: del sistema giudiziario, dell’amministrazione pubblica, del sistema fiscale, temi ormai all’ordine del giorno anche da noi (almeno a parole), fino a che la Corte costituzionale non ha iniziato a metterci lo zampino, suscitando notevoli preoccupazioni nella Troika.
Ma la correzione c’è stata, e anche robusta. il conto corrente della bilancia dei pagamenti è passato da un deficit dell’11% del pil a un surplus dello 0,4, il primo surplus degli ultimi 40 anni, ottenuto per lo più con la compressione decisa della domanda interna. Non vi ricorda qualcosa?
Il rilancio delle esportazioni, conseguenza dell’aumento i competitività, ha fatto schizzare al 40% la quota dell’export sul Pil portoghese nel 2014 che però, nota la Commissione “è ancora bassa rispetto ad altre economie comparabili dell’eurozona”.
Insomma: si doveva e si dovrà fare assai di più: “La trasformazione dell’economia attraverso una crescita export-led deve proseguire se la ripresa deve essere sostenuta”. E anche questo mi ha fatto tornare in mente il recente rapporto del Fmi su di noi. Vi basti sapere che per mantetere i propri debiti sostenibili, il Portogallo dovrebbe tornare a un tasso di crescita potenziale di almeno il 2%. E purtroppo per loro “i rischi dell’outolook nel medio termine appaiono orientati al ribasso”.
Sul versante fiscale, fra il 2010 e il 2013 il deficit fiscale è passato dal 9,8% del Pil al 4,5, e abbiamo visto che si prevedeva, per il 2014, un calo ulteriore al 4%, prima però che intervenisse la Corte costituzionale. Corretto per il ciclo, tale aggiustamento corrisponde a un aggiustamento del 6% del Pil cui, aggiungendo la correzione del saldo primario relativo, ha condotto a un cosolidamento totale del 12,5% del Pil in tre anni. Chissà perché leggendo queste cifre mi è tornata in mente l’ultima nota di aggiornamento del Def pubblicata dal governo.
Purtroppo (ma guarda un po’) la correzione ha aggravato la recessione, e quindi, indirettamente, peggiorato i saldi fiscali, visto che sono diminuite le entrate ed è peggiorata la spesa sociale. Per darvi un’idea, nel 2013 la spesa per i sussidi di disoccupazione è stata del 40% superiore rispetto a quella del 2010, e quella per le pensioni, malgrado le leggi draconiane che hanno pure previsto un contributo straordinario di solidarietà, è aumentata dell’11%. Lo stop imposto dalla Corte costituzionale ha fatto il resto. E adesso il Portogallo si trova di nuovo costretto a rimettere in campo misure di consolidamento fiscale che evidentemente non bastano mai.
Sul versante del debito pubblico, la Commissione rileva che quota oltre il 130% del Pil “fra i più alti nell’eurozona”. Inutile che vi ricordi che è in buona compagnia. E ciò malgrado un programma di privatizzazioni (e anche questo mi ricorda qualcosa) da 5,5 miliardi concluso positivamente (a differenza del nostro) già a dicembre 2012, che a giugno del 2014 aveva già raggiunto i nove miliardi.
Infine, rimane la questione della stabilità finanziaria, tornata d’improvviso d’attualità dopo il crash estivo del Banco Espirito Santo, per fortuna intervenuto, rileva la Commissione, in un contesto di sistema bancario disindebitato e ricapitalizzato. La risoluzione della banca, osserva, è avvenuta senza contagi, pur avendo danneggiato l’immagine del Portogallo “per lo più grazie alle precedenti misure adottate dal programma di assistenza”. Insomma: la Troika non solo ha salvato il Portogallo, ma ha pure evitato che il fallimento del Bes diventasse un evento sistemico.
Insomma: la Troika ti salva la vita e strappa applausi al pubblico pagante. Cosa aspettiamo ad invitarla a casa nostra?
Lo spettacolo dell’Italia portoghese sbancherà al botteghino.
Il biglietto però lo pagheremo noi.
Finisce l’epoca mercantilista dell’eurozona
In un’Eurozona (per non dire Europa) sempre più tedesca, non dovremmo stupirci che la fine (per ora) del modello di sviluppo tedesco export-led conduca alla stessa fine l’intera area euro.
Invece di stupirci dovremmo chiederci come si configurerà il modello di sviluppo (ammesso che ci sia) prossimo venturo, dopo il clamoroso crack di quello pompato dal debito alimentato dai crediti tedeschi, che per tutto il primo decennio del XXI secolo ha guidato il Pil dell’eurozona.
Il caso tedesco mostra con chiarezza che quel paese potrà attingere alle sue scorte (e alle sue rendite) per spingere sul consumo interno e gli investimenti per far risalire il Pil, pure in presenza di un contributo netto dell’export alla crescita del Pil diventato negativo.
Ma i PIIGS, che possono fare?
Guardiamo che dice la commissione Ue.
Nelle sue previsioni invernali, i tecnici di Bruxelles rilevano che ancora nel 2013 il contributo dell’export netto alla crescita del Pil è stato positivo, quasi per l’1%. Peccato gli investimenti siano diminuiti altrettanto. Col risultato che la crescita 2013 è stata pressoché nulla.
Le previsioni 2014-2015 mostrano che i driver del Pil a venire saranno il consumo privato e gli investimenti. Il peso relativo di export netto e spesa del governo è nell’ordine di pochi decimali di punto.
Le previsioni rilasciate ieri dalla Banca centrale europea confermano questo scenario. L’import complessivo, che include quindi anche quello intra eurozona, è previsto nel 2014 rimbalzi del 3,5% rispetto al 2013, quando il suo contributo al Pil è stato nullo, a fronte di un export in crescita del 3,6%. Nel 2015 la crescita di import ed export dovrebbe essere pari (+4,7%) fino a quando nel 2016, quando la Bce prevede un Pil reale in crescita per l’area dell’1,8%, l’import supererà l’export di uno 0.1%.
Le previsioni della Bce somigliano a quelle della commissione anche relativamente al peso specifico delle componenti della crescita: a fare la parte del leone sarnno la domanda domestica, per lo più privata, e gli investimenti.
Si interrompe quindi per l’eurozona, così come è successo per la Germania, l’importanza del peso relativo dell’export sulla crescita. L’eurozona è stata molto germanica, fra il 2010 e il 2013, combinandosi la crescita dell’export dell’area con la notevole contrazione dell’import che più volte abbiamo analizzato.
Ma quell’epoca è finita. L’eurozona nel suo complesso se vorrà crescere dovrà puntare su domanda interna, per lo più privata, e investimenti. Proprio come la Germania.
Quindi la germanizzazione dell’eurozona prosegue. Ma questo non vuol dire che tutti i paesi siano diventati tedeschi.
Al contrario.
Prendiamo casa nostra. Il rilancio (miserello) del nostro Pil dovrebbe dipendere pressoché interamente dalla domanda domestica, che nel 2014 dovrebbe cresce di 0,3 punti e nel 2015 di 1,3. In gran parte tale domanda è privata, visto che spesa del governo si presume ancora negativa per 0,6 punti nel 2014 e positiva per 0,4 nel 2015. Il contributo dell’export netto è previsto in calo dai 0.9 punti del 2013, agli 0,2 del 2014, fino allo 0 tondo del 2015. Qualcosina dovrebbe arrivare dagli investimenti. Insomma, pure per l’Italia lo sprint mercantilista è finito (leggi crescita guidata pompando l’export e comprimendo l’import) ma non abbiamo le minuzioni per fare quello che farà la Germania, ossia pompare la domanda interna. Anzi, ci aspetta altra austerità.
Questo spiega bene perché la nostra crescita sia fra le più basse previste. a meno che, certo, non aumentiamo la competitività riformando il mercato del lavoro e la tassazione delle imprese sul lavoro. Questo spiega la solita polemica sul cuneo fiscale.
Se andiamo a vedere l’Irlanda, che i banchieri centrali giudicano come il miglior risultato ottenuto dalle pratiche di riquilibrio messe in campo dopo la crisi, notiamo che il piccolo paese dovrà basarsi pressoché esclusivamente sull’export netto per avere crescita. Lo stesso vale per la Grecia, che nel 2014 dovrebbe avere una crescita positiva di export netto e investimenti e solo nel 2015 un contributo positivo della domanda interna (ricordo che la Grecia è stata in deflazione per tutto il 2013) e per la Spagna, che solo nel 2015 vede la quota di consumo interno superare quella dell’export netto nel contributo positivo al pil (ma solo perché nel grafico sono incluse le scorte). Lo stesso vale per Cipro, che dovrebbe vedere qualche decimale di crescita solo grazie all’export netto, e per il Portogallo.
Vale la pena fare un passaggio a parte sulla Francia, che abbiamo già visto essere condannata a puntare tutto sulla domanda interna per tenere in piedi il suo prodotto, a fronte di esportazioni nette che contribuiscono negativamente alla crescita e un deficit fiscale che sembra incomprimibile.
Cosa ci raccontano queste previsioni? Che il riequilibrio dell’eurozona è ancora lungi dall’esser completato. I paesi più fragili devono ancora giocare la carta mercantilista (quindi compressione delle importazioni e pressione per esportare di più, tramite aumento della competività), mentre quelli più ricchi, o semplicemente più blasonati come la Francia e, nel suo piccolo l’Italia, possono (o devono) puntare di più sul mercato interno perché non sono abbastanza flessibili per gareggiare con i PIIGS. Per loro, insomma, ma finirà così anche per noi, serve ancora una robusta dose di medicina tedesca per risanarsi e un bel po’ di tempo.
Poi le previsioni ci pongono un’altra questione. Se l’eurozona smetterà di essere mercantilista, almeno nel breve periodo, dovrà decidere che strada intraprendere.
La crescita guidata da consumo interno e investimenti, per non diventare alla lunga inflazionistica o generatrice di nuovi squilibri, deve necessariamente trovare mercati di sbocco. Quindi l’eurozona dovrà provare, volente o nolente, a provare a rilanciare il commercio estero, dovendo fare i conti con una moneta che si è molto rafforzata sia rispetto al dollaro che allo yen.
A meno che non si voglia puntare su un’ulteriore frammentazione dell’eurozona.
In questo caso nulla di più probabile che finirà col frammentarsi l’euro.
C’è un giudice a Berlino, ma anche a Lisbona
Chi la spunterà nell’inedita disputa ormai conclamata fra giuristi ed economisti/banchieri sulla quale si gioca il futuro dell’Unione europea?
Pochi l’hanno notato, ma nella generale debolezza della politica, che ormai ha chiaramente delegato alle banche centrali gli indirizzi della politica economica europea, si sta affermando come un vero e proprio contropotere quello delle corti costituzionali, che ormai sindacano, mettendo sul tavolo il loro notevole potere d’interdizione, sulle decisioni dei governi fino a stravolgerle.
La cosa divertente, che fa capire anche quanto tale atteggiamento sia trasversale, è che finora le corti costituzionali che hanno questionato, guadagnando l’attenzione preoccupata delle cronache finanziarie, sono state quella tedesca, ossia quella del grande creditore europeo, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’OMT voluto da Draghi, e quella portoghese, ossia quella di uno dei grandi debitori, che è entrata a gamba tesa su alcune scelte di politica economica del governo chieste a gran voce dalla Troika, provocando anche una mezza crisi di governo.
L’ultima bocciatura ha riguardato alcune norme che si proponevano di flessibilizzare il mercato del lavoro. E la cosa ha suscitato tali apprensioni che il Fmi, nel suo ultimo staff report dedicato al Portogalloe uscito poche settimane fa, cita proprio le decisioni della Corte come uno degli ostacoli principali al proseguimento del programma di riforme che, oltre a garantire allo stato lusitano i prestiti di cui ha bisogno, viene considerato indispensabile per risanare alle fondamenta l’economia nazionale, devastata da anni di prestiti facili d’improvviso diventati debiti da onorare.
Per dare un’idea di quanto sia profonda la spaccatura che sta maturando fra i veri poteri forti dell’Unione europea, ossia i banchieri e i giuristi, vale la pena ricordare che poche settimane fa, esattamente il 25 ottobre, a Roma si è tenuto un convegno organizzato dalla Corte costituzionale italiana con quella spagnola e quella portoghese. Un incontro di routine maturato nell’ambito dell’accordo di collaborazione siglato dalle tre corti per esaminare questioni di comune interesse.
Il tema della riunione romana era “I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle Corti europee”. E già da questo si capisce quale sia la portata della posta in gioco. Ossia il rapporto fra la giuridizione comunitaria, che trova nella Corte di giustizia europea il suo baluardo, e quella nazionale, che trova nella corte costituzionale la stessa cosa.
La questione, semplificando, si potrebbe riassumere i questi termini: quanto è compatibile la “sovranazionalità” comunitaria con la “sovranità” giuridica di uno stato rappresentata dalla Corte costituzionale?
Il tema non è certo nuovo. Se ne parlò a lungo nei primordi dell’Unione, quando si discuteva della Ceca.
Ma poi le questioni guridiche finirono in sordina, confinate nella specialistica.
Adesso, al contrario, sembra che i giudici siano diventati parte integranti del processo dialettico che si sta consumando sul futuro dell’Ue.
Forse perché mentre è molto facile sottrarre sovranità alla politica nelle questioni economiche, fare lo stesso per le questioni giuridiche, sulle quali si fonda letteralmente l’Unione, sono assai più ostiche.
I giudici, ma in generale i giuristi, non sono mammolette che si lasciano spaventare dallo spread.
Forse perché, come dicono i maligni, i giudici costituzionali rappresentano l’aristoburocrazia del pubblico impiego, ossia ciò che le varie troike vedono come il fumo negli occhi, e quindi (dovrebbero essere) i naturali destinatari di una qualunque spending review.
Senonché le Costituzioni degli stati sono rimaste l’unica cosa considerata intoccabile e sacra dalle popolazioni europee. E’ in tale legittimazione “popolare” che i giudici trovano la forza “politica” di compiere le loro scelte che, al di là di come si considerino, sono di rottura.
Guardate cosa scrive il Fmi: “C’è stato qualche miglioramento dell’ambiente macroeconomico, ma scandito da una crisi politica e da una battuta d’arresto nel processo di riforma provocato dalla Corte costituzionale”.
Sottotitolo: la Corte costituzionale ha bloccato il processo di miglioramento macroeconomico.
Diritto (nazionale) ed economia (sovranazionale) confliggono e divergono.
Per darvi un’idea di quanto il Fmi guardi con preoccupazione a questa “battuta d’arresto” basta notare la sottolineatura che fa il Fondo delle tre volte durante le quali la Corte ha bocciato alcune riforme chiave della spesa “effettivamente limitando l’intento del governo di licenziare i dipendenti pubblici”.
“Più recentemente – aggiunge – la Corte ha rovesciato la riforma del lavoro che aveva attenuato le rigide regole di protezione del lavoro dipendente che disciplinano i licenziamenti dei lavoratori a conctratto a tempo indeterminato”.
Ciò, ovviamente. è stato sufficiente per trasformare, in molta opinione pubblica europea, la Corte di Lisbona nella paladina dei diritti dei lavoratori.
L’ennesima sconfitta della politica, viene da dire.
Il problema però non è raccogliere applausi per quello che si fa, ma pagarne le conseguenze.
Non penserete mica che l’economia non abbia le sue proprie regole?
Infatti, nota sempre il Fmi, “oggi, con l’elevata volatilità dei mercati globali, l’accresciuta incertezza politica (rectius: costituzionale, ndr) ha condotto il rendimento dei bond decennali fino al 7,5%. Nonostante recenti ritracciamenti i mercati rimangono prudenti circa le possibilità del Portogallo di uscire dalla situazione corrente entro maggio 2014 senza ulteriori supporti ufficiali”.
Quanto invece agli effetti macroeconomici dell’ultima bocciatura costituzionale, il Fmi scrive che “l’impatto fiscale è stimato relativamente basso (0,1% del Pil) ma c’è il rischio che questo possa ridurre gli incentivi alle dimissioni volontarie previste dalle norme”.
Sottotitolo: guarda che se non fai come dicono, i mercati ti tagliano definitivamente i fondi.
Che poi significa che neanche i giudici costituzioniali avranno più uno stipendio, visto che la capacità del Portogallo di pagarli dipende dai prestiti internazionali.
Come andrà a finire lo vedremo presto. Anche perché i fondamentali macroeconomici portoghesi sono a dir poco problematici.
Nel secondo quarto 2013 il Pil è cresciuto dell’1,1%, ma il tasso di occupazione è 13 punti sotto il picco raggiunto nel 2008. E ciò malgrado il costo unitario del lavoro, fatto 100 il livello nel 2008, sia sceso sotto 90 nel settore pubblico mentre è rimasto stabile nel privato. Nel suo complesso, il costo del lavoro è calato del 4,25% dal primo quarto 2009.
Ma è bastato questo per migliorare la competitività.
Sul lato estero, l’aumento dell’export nel 2013 (+4,5%) ha migliorato gli squilibri di parte corrente. Il saldo, che veleggiava verso un deficit del 15% nel 2008, nel 2013 dovrebbe chiudere con un surplus pari all’1% del Pil, ma solo perché si è praticamente azzerato il deficit sulla bilancia dei beni.
I Portoghesi non hanno importato quasi più nulla insomma. Anche perché non avevano più soldi da prendere in prestito, visto che sul lato finanziario della bilancia dei pagamenti si registrano corposi deflussi di investimenti di portafoglio dal 2010 in poi, con un picco di quasi 30 miliardi nel 2012.
Gli investimenti di portafoglio sono tornati pian pianino nel primo semestre 2013 (ma il saldo netto è previsto negativo fino al 2017), quando si ferma la rilevazione del Fmi, quindi prima che gli effetti della decisione della Corte costituzionale spiegassero i propri effetti.
A ciò si aggiunga che i problemi fiscali del Portogallo sono tutt’altro che risolti. il Deficit generale del governo, che aveva raggiunto il 9,9% del Pil nel 2010 dovrebbe restringersi al -5,9% nel 2013 a fronte di un debito pubblico previsto in crescita fino al 127,8% del Pil nel 2013.
Tutto ciò spiega bene perché il Fmi tema che “le decisioni della Corte costituzionale possano minare la fiducia”.
“Il governo – conclude – dovrà riformulare la legge di bilancio per raggiungere i target di deficit concordati, ma, data la limitata potenzialità di manovra, potrebbe essere molto difficoltoso. Ciò può condurre alla scelta di adottoare misure di scarsa qualità, aumentando il rischio sulla ripresa del prodotto e dell’occupazione, e quindi l’instabilità politica”.
Ma non è una minaccia.
E’ un avvertimento.
Le mille frammentazioni dell’eurozona
Fra i tanti guasti provocati dalla crisi degli spread almeno uno ha avuto conseguenze positive. Oggi, infatti, si parla parecchio della frammentazione finanziaria dell’eurozona. Ossia della marcata differenza fra i tassi d’interesse nei singoli paesi dell’area che invece, prima della crisi, convergevano con differenze minime verso quello tedesco.
Il famoso dividendo dell’euro, che adesso è venuto meno, ha funzionato come una mano di vernice steso sulle reali perfomance delle singole economie, celando perciò le mille frammentazioni macroeconomiche reali che dividono, e non da ora, i singoli paesi europei.
Il fatto poi che l’unica frammentazione che abbia meritato gli onori delle cronache, e l’interesse dei policy maker, sia quella degli spread la dice lunga sullo spirito del nostro tempo.
Ma questa è un’altra storia.
Vale la pena, perciò, fare un piccolo riepilogo e torna utile, a tal proposito, lo statistic pocket book rilasciato pochi giorni fa dalla Bce, che ha il pregio di riepilogare in poche pagine la storia recente dei paesi europei, così come la raccontano le aride cifre della statistica.
Come in tutte le statistiche, anche queste vengono influenzate dal peso specifico dei partecipanti. Ovviamente, Germania, Italia, Francia e Spagna, nei vari indicatori pesano per circa i due terzi dell’eurozona. Quindi il valore medio va preso con le dovute accortezze.
Cominciamo dai tassi di inflazione, variabile assai rilevante, visto l’impatto che hanno sui tassi reali di interesse.
La statistiche misurano l’indice HICP, ossia quello dei prezzi armonizzati al consumo.
Nel periodo 1996-2000, la media per l’eurozona dell’1,6% nascondeva importanti differenza non soltanto fra i paesi più periferici, come l’Estonia o la Slovacchia, che quotavano un indice superiore all’8%, ma anche fra i paesi core, con una Germania inchiodata all’1,1% a fronte di un’Italia al 2,4%.
L’arrivo dell’euro ha ristretto la banda di oscillazione, ma le differenza sono rimaste. Nel periodo 2001-2010 la media per l’eurozona è salita al 2%, ma sono rimaste differenze importanti. A fronte dell’1,6% tedesco, si registra un 4,2% in Slovenia e un 3,4% in Grecia. Italia (2,2%) e Francia (1,9%) stanno vicini alla media.
Con l’esplosione della crisi, tuttavia, la convergenza sui tassi sballa. L’Irlanda, nel 2010, segna un tasso negativo (-1,6%), mentre la Grecia arriva al 4,7%. I tassi italiani si allineano perfettamente alla media, con un +1,6%, mentre Germania (1,2%) e Olanda (0,9) stanno sotto.
Man mano che la crisi procede i divari si allargano. L’inflazione sale in tutta l’area (in media il 2,7%), ma l’Irlanda registra un risicato 1,2%, mentre l’Estonia un 5,5%. In Italia l’inflazione schizza al 2,9%, e persino in Germania più che raddoppia, arrivando al 2,5%. Peggio fa la Slovacchia, che passa dallo 0,7 al 4,1%.
L’inflazione, schiacciata dall’austerità, viene riassorbita nel corso del 2012, ma le differenze rimangono. Nel settembre 2013, la media euro arriva all’1,1%, che nasconde il -1% della Grecia, lo 0,3% di Cipro e lo 0,9% italiano, a fronte del quale si staglia il 2,4% olandese e l’1,6% tedesco. Al contrario di come sarebbe utile, i paesi in crisi sfiorano la deflazione (che aumenta il valore reale dei loro debiti) mentre quelli in surplus godono di una maggiore inflazione (che al contrario li diminuisce).
Questo contesto peggiora, se possibile, anche le differenze reali sui tassi di interesse.
Se analizziamo i tassi di crescita del Pil il ritornello non cambia. A una crescita media del 2,7 fra il 1996 e il 2000 si oppone quella del 10,3% registrata dall’Irlanda e il nostro misero 1,9% italiano, pari peraltro a quello tedesco. La Grecia in quel periodo cresceva in media del 3,4%, la Spagna del 4,1%, il Lussemburgo del 6,1% e la Spagna del 4,1%.
Con l’introduzione dell’euro la crescita media si schiaccia all’1,1% che, anche nel periodo 2001-2010, nasconde importanti differenze. Il Portogallo spunta appena uno 0,7% medio, peggiore solo dell 0,4% italiano. La Germania è in linea con la media (1%), Grecia e Spagna sono qusi al doppio (2%). L’unica che cresce forte è la Slovacchia (4,8%).
Il 2010 segna la rottura definitiva. Sebbene l’area cresca in media del 2%, la realtà dei singoli paesi annovera un -4,9% in Grecia, colpita dalla crisi del debito al quale si affianca il +4% della Germania e di Malta.
La frammentazione esplode dal 2011 in poi. La Grecia perde il 7,1% (2011) e il 6,4% (2012), a fronte del 3,3% (2011) e (0,7%) tedesco. I Piigs entrano in decrescita, che dura fino ai nostri giorni, mentre Malta e Lussemburgo se la passano benone, come anche la Germania (anche se di meno). Fra i paesi core si registra il dato negativo di Olanda e Finalndia, segno evidente che anche dove batteva sempre il sole il clima sta cambiando.
Altro indicatore “frammentato” è quello dell’Unit labour cost (Ulc), così dirimente per la questione della competitività che tanto affligge i paesi europei.
Nel periodo 1996-2000, la crescita media nell’eurozona è stata dello 0,9, a fronte del quale c’è una forbice assai ampia fra il 7,4% dell’Estonia e il -0,5% dell’Austria, con la Germania che quota uno zero tondo e il Portogallo un +5,1%. Nell’età dell’euro l’Ulc medio della zona sale dell’1,8%, con gradi differeze fra lo 0,4% tedesco e il 3% greco, vicino al 2,7% italiano e al 2,1% francese. Ogni paese, insomma, segue una via differente.
E quando scoppia la crisi, nel 2010, l’Ulc medio sprofonda dello 0,6%, ma quello irlandese del -6,7%, mentre in Lussemburgo continua a salire (+1.1%). Nel 2012 l’Ulc torna a crescere in media (+1,7%), ma in Irlanda si registra un altro -4%. Farà peggio solo la Grecia, nel 2012, quando l’Ulc scenderà del 6,2%.
E sempre a proposito di competitività, vale la pena dare un’occhiata all’indice armonizzato con il tasso reale di cambio basato sui prezzi di mercato. Ve la faccio semplice. Quest’indice segna un miglioramento della competitività quando decresce e un peggioramento quando aumenta.
Fatto 100 l’indice nel 1999, abbiamo una media di 103,3 nell’aeuroarea nel periodo 2004-2006, che si confronta con il 96,8 tedesco, il 97 finlandese, il 98 austriaco e il 115 irlandese, per non parlare del 151 slovacco.
Nel periodo 2007-09 la competitività europea peggiora (105,6), mentre quella austriaca migliora (97,8) e quella tedesca e finlandese rimane stabile. Quella dei Piigs, ovviamente peggiora più della media.
Un dato, quello del 2012, dice bene cosa sia successo dopo la crisi. La competitività tedesca migliora drammaticamente (88,8), ma è l’intera area che va meglio (92,8), persino quella italiana (98,8) che va persino meglio del 1999 (100) e quella francese. Non migliora invece quella spagnola (107,4) né quella irlandese (105.1). Ma nel 2013 il ciclo si inverte e l’indicatore torna a peggiorare, anche in Germania, dove arriva a 91,2 (settembre 2013), a fronte della media euro di 97.
L’ultimo indicatore che vale la pena osservare è quello della disoccupazione, dove l’ennesina frammentazione dell’area risulta particolarmente stridente. Vi risparmio quelli su debito, deficit e spesa generale del governo, ma anche quelli sul debito del settore privato e del debito estero, perché raccontano tutte la stessa storia: l’aumento dello spread finanziario è andato di pari passo con l’aumento dello spread su tutte le variabili economiche di base dei paesi euro.
Fra il 1996 e il 2000, quando la media dei disoccupati nell’area era al 10%, la Germania quotava l’8,9%, la Spagna il 15,5%, la Francia il 10,4 e l’Italia l’11%. Dal 2001 in poi la disoccupazione media dell’area scende all’8,8%, con una forbice che parte dal 3,9% olandese e arriva al 15% slovacco. La Grecia, in quel periodo, aveva una media del 9,8%, l’Italia del 7,8.
Con la crisi il mondo del lavoro europeo è cambiato. A parte la Germania, che vede i tassi di disoccupazione scendere costantemente, fino al 5,2% di settembre 2013, tutti gli altri paesi vedono gravi peggioramenti, con la Grecia ormai oltre il 27% e la Spagna lì vicino. Per fortuna che la media euro è “solo” il 12,2%.
La famosa media di Trilussa.
Gli eurodebiti e i venti piccoli indiani
E poi non rimase più nessuno, si potrebbe concludere prendendo a prestito dal celebre romanzo di Agatha Christie.
Il copione si ripete con preoccupante regolarità: un Paese viene invitato a entrare, come nei Dieci piccoli indiani, in un luogo bellissimo: nientemeno che un’unione monetaria che promette pace e prosperità.
All’inizio tutto sembra andare per il meglio. Nelle banche di questo paese affluiscono fiumi di euro, che ne gonfiano i bilanci spingendole all’azzardo, i cittadini godono di un’improvvisa apertura di credito e cominciano a consumare a mani basse, i prezzi degli asset salgono, tutti si indebitano. Ma va bene così: è il capitalismo, bellezza.
Poi succede qualcosa. Uno scricchiolio sinistro, da Oltreoceano o da dove volete voi, mette paura ai prestatori. Cominciano a richiamare i capitali e i paesi, proprio come i piccoli indiani, cominciano a entrare in coma uno dopo l’altro, per non dire che muoiono.
Si congettura su chi sia l’assassino e intanto si cerca di rianimare il paziente. Prima la Grecia, ultimo Cipro. In mezzo la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, e l’Italia un giorno sì e l’altro no. Già ci si chiede chi sarà il prossimo. Forse la Slovenia, che si dice abbia un sistema finanziari imbottito di titoli tossici (almeno un quinto del Pil) o magari l’Ungheria. Chi lo decide? In base a quali parametri?
Una cosa finora è apparsa chiara: la grandezza di un paese è inversamente proporzionale al grado di danno che può sopportare. Una crisi a Cipro fa più male di una crisi spagnola. O perlomeno questo è quello che divulga il mainstream politico-economico, forse perché le realtà più piccole sono quelle più adatte a fare pratica di salvataggi.
Nel dubbio, possiamo provare solo a fare due conti. Partiamo da una domanda: cosa rende un paese sovrano fragile? La risposta più ovvia è: i troppi debiti. Il fatto però è che i debiti non sono tutti uguali. Uno Stato indebitato con i propri cittadini potrà sempre decidere di non ripagarli. Al massimo verranno cacciati i politici responsabili e finisce lì.
Uno stato che ha debiti con l’estero, al contrario, dipende letteralmente dalla generosità dei suoi creditori. Se smettono di comprare i suoi titoli, e noi lo sappiamo bene, non potrà più pagare gli stipendi. Se i creditori ritirano i suoi attivi, lo ha scoperto Cipro con la Russia, il paese finisce in miseria.
Perciò sembra del tutto ragionevole andare a vedere un indicatore macroeconomico assai interessante che ci racconta lo stato di salute di un paese relativamente ai suoi conti con l’estero, ossia la posizione patrimoniale netta internazionale.
Tale indicatore misura il saldo fra le attività e le passività estere. Per farla semplice, dice quanto è indebitato un paese rispetto al resto del mondo. L’indicatore non distingue fra debito privato e debito pubblico, per saperlo bisognerebbe analizzare i saldi settoriali. Però è uno strumento utile a misurare la fragilità finanziaria di un paese.
Cominciamo da noi. Proprio oggi la Banca d’Italia ha pubblicato la posizione netta italiana sull’estero, che nel terzo trimestre 2012 era negativa per 351,471 miliardi di euro, più o meno il 20% del Pil. Un dato simile a quello che ci siamo andati a ripescare sul sito di Eurostat, che ha pubblicato un interessante prospetto dei saldi netti di tutti i paesi dell’eurozona a partire dal 1971. Una lettura edificante.
Nell’Ue a 27, a fine 2011, i paesi con posizione netta negativa erano 20. I nostri venti piccoli indiani. Undici se consideriamo solo quelli che hanno aderito all’euro.
I creditori sono sette: Belgio, Danimarca, Germania, Malta, Olanda, Finlandia, Lussemburgo. Di questi solo la Danimarca non ha aderito all’euro. La posizione netta, il relazione al Pil, migliore di tutte è quella del Lussemburgo, che vale il 107,6%. Ma ovviamente è la Germania a fare la parte del leone con il suo 32,6% di saldo attivo estero sul Pil, che pure se vale la metà di quello del Belglio (65,7%) è assai più corposo a livello di stock, viste le dimensioni del Pil tedesco.
Se questi sono i creditori, andiamo a vedere i debitori. La Grecia, nel 2007, quando inizia a spirare il vento della crisi, aveva una posizione netta negativa pari al 96,1% del Pil. Quando scoppia la crisi gli investitori iniziano a richiamare i capitali, ed ecco che la posizione negativa cala improvvisamente al 76,8%. Poi arrivano i prestiti per salvare il salvabile, ed ecco che nel 2010 la posizione netta arriva ad essere negativa per il 98,4% del Pil.
Lo stesso copione che vediamo in Spagna. Nel 1992 il saldo netto era negativo per appena il 19% del Pil. Nel 2002, dopo l’euro, è già al 41,6% e sale costantemente. Al top dell’euforia, nel 2009, prima che la crisi spagnola diventasse d’attualità, era già al 93,7%. E poiché in Spagna il debito pubblico è rimasto sotto controllo per lunghi anni, questo peggioramento è stato chiaramente guidato dal debito privato.
Paese diverso, stessa storia. Portogallo: nel 1995 il saldo netto era negativo per uno striminzito 9,5%. Nel 2002 era già al 54,6. Nel 2009 addirittura al 110,4%. In pratica il Portogallo ha più che decuplicato la sua esposizione estera in un quindicennio. Chiaro che i creditori lo abbiano messo sotto Troika. Con la conseguenza che ora il suo saldo netto è negativo per il 105% del Pil.
La storia dell’Irlanda è ancora più illuminante. Nel 1997 è addirittura creditrice netta per l’11,6% del Pil, e dua anni dopo arriva addirittura al 50,4%. Poi il crollo. Nel 2002 la posizione è già negativa per il 17,9%, ma il crollo vero si registra nel 2008, quando arriva al -76,2%. Nel 2011 è ancora peggiorata: -96%. Per anni l’Irlanda ha attratto capitali con la sua legislazione favorevole all’impresa, il mercato immbiliare è salito alle stelle, il dimagrimento, via rimpatrio dei capitali, dolorosissimo e non ancora concluso.
E Cipro? Beh, l’isoletta che così tanto ha fatto patire mezzo mondo in queste settimane ha raggiunto il suo peggio nel 2009, con un saldo netto estero negativo per l’82,7% del Pil. Assai meno che la Spagna, il Portogallo. Nel 2011 era pure migliorato al 73,3%. Eppure sono bastate voci sulla fragilità di un sistema bancario ipertrofico (come se ce ne fosse uno che non lo sia oggi nell’Unione) perché tale quota di debiti fosse giudicata insostenibile.
E state sicuri che c’è molto di peggio: l’Ungheria, ad esempio, ha sfondato il 117% nel 2009 e nel 2011 quotava il 105%. Gli ex paesi del blocco sovietico hanno tutti posizione nette negative nell’ordine del 60-80% del Pil. Anche qui capire bene chi sono i creditori e se si tratti di debito pubblico o privato è dirimente. Ma di sicuro non resisterebbero a lungo a un prelievo dei capitali esteri dalle propri economie.
E poi ci sono i giganti, Francia e Gran Bretagna, che quotano il 15,9 3 il 17,2% di saldo netto negativo. Poco sotto rispetto a noi.
Stando così le cose, risulta ozioso chiedersi chi sarà il prossimo.
Meglio sarebbe chiedersi quando succederà di nuovo.
Lo spread e la pensione asociale
Quando parliamo di spread o di rating, dovremmo ricordarci una cosa. I fondi pensione italiani, a fine 2011, gestivano un patrimonio per prestazioni pensionistiche pari a 90,7 miliardi di euro, equivalenti più o meno al 6% del Pil italiano.
Il 46,4% di questa massa di denaro (circa 42 miliardi) è investita in titoli di stato. L’investimento in titoli di stati italiani pesa 17,7 miliardi, altri 4,6 miliardi sono stati investiti in titoli tedeschi, e 3,2 miliardi in titoli francesi. Circa un altro 3% (1,1 miliardi) è investito in titoli di Spagna, Portogallo e Irlanda.
In totale, quindi, circa il 29% (26,6 miliardi) del patrimonio dei fondi pensione italiani (dati Covip, relazione 2011) è investito in titoli di stato che hanno rendimenti bassi ma “sicuri” (Germania e Francia) o più alti ma incerti (Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda). In particolare l’investimento italiano sul totale dei fondi pensione pesa oltre il 19%.
Quando parliamo di spread, quindi, dovremmo ricordarci che l’aumento dei rendimenti provoca un dimagrimento dei corsi dei titoli. Quindi una crisi dello spread ha un impatto diretto sul valore del portafogli titoli dei fondi pensione. Questi ultimi, in caso di crisi finanziaria grave, potrebbero veder crollare il loro patrimonio, con un effetto diretto sulla capacità di erogare le rendite, che crollerebbero di conseguenza.
Quando parliamo di rating, invece, dovremmo ricordarci un’altra cosa. I gestori dei fondi pensione, e quelli italiani non fanno eccezione, sono “costretti” a investire su categorie di titoli che hanno una certa classe di rating. Un taglio di rating, teoricamente, potrebbe spingere i gestori a disfarsi dei bond dello stato declassato, provocandone un calo (e un relativo aumento di spread).
La Covip ha ben presente il problema. A pagina 78 della sua relazione scrive: “La situazione economica dell’area dell’euro determinatasi, in particolare, tra la seconda parte del 2011 e i primi mesi del 2012, ha inoltre indotto a valutare le conseguenze sulla gestione finanziaria dei fondi del downgrade di alcuni paesi europei da parte delle agenzie di rating. In particolare, la questione si è posta a seguito dell’abbassamento del livello di rating dei titoli dello Stato italiano, consistentemente presenti nei portafogli, in rapporto al livello minimo di rating contrattualmente previsto da alcuni fondi per l’investimento in titoli di debito”. La soluzione proposta dalla commissione è stata quella di “riconoscere ai fondi margini di flessibilità nella gestione delle conseguenze del downgrading al fine, da una parte, di salvaguardare l’operatività in titoli del nostro debito sovrano e, dall’altra, di scongiurare il rischio di un consolidamento delle perdite laddove tali titoli fossero stati dismessi”. Ciò in quanto “il deprezzamento dei titoli di Stato europei presenti nei portafogli dei fondi ha contribuito a una contrazione del valore del patrimonio di pressoché tutte le forme pensionistiche che detengono tali strumenti”. Anche perché i fondi sono costretti dalla legge (decreto legislativo 252/2005) a valutare i propri asset a valori correnti (mark to market) e non secondo il criterio del costo storico. Da qui il dibattito per modificare la norme.
Queste problematiche sembreranno astruse, ma in realtà sono assai concrete. Lo sanno bene i greci. I fondi pensioni greci sono stati sbancati dalla crisi nazionale del debito. Si calcola che lavoratori e pensionati abbiano perduto circa 10 miliardi di euro di asset con la ristrutturazione del debito di marzo 2012. Anche perché, si è saputo dopo, la banca centrale greca, che amministra il 77% dei surplus dei fondi pensione, aveva avuto la brillante idea di investire 1,18 miliardi di euro in bond greci quando ormai la crisi era già conclamata. Per amor patrio, probabilmente (come i nostri fondi pensione), ma vallo a spiegare ai lavoratori e ai pensionati, che hanno visto (e vedranno anche in futuro) i propri rendimenti andare a picco (fino al 33% in meno).
Quando parliamo di spread o di rating, perciò, nessuno dovrebbe dire che non gli importa. Tantomeno i lavoratori di oggi che saranno i pensionati di domani, quando le pensioni, per importi e consistenza, già somiglieranno parecchio alle pensioni sociali di oggi.
Una crisi finanziaria non può che far male ai lavoratori di oggi: rischiano di diventare i pensionati asociali di domani.