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Diplomazia dei prestiti esteri: Italia nella morsa franco-tedesca
C’è, nella narrazione delle cronache diplomatiche, un costante pudore riguardo alle corrente più profonde che legano un paese a un altro. Pronti a spiare dal buco della serratura, scrutando persino maniacalmente i sopraccigli dell’uno o dell’altro premier, o le pettinature delle first lady, i giornalisti fanno costante opera di ablazione sui motivi più autentici, perché derivano dalla storia, in ragione dei quali le diplomazie compilano le loro agende.
Eppure se si avesse voglia di scrutare i fatti prosaici, gli investimenti di portafoglio per dirne uno, si scoprirebbe che la diplomazia delle cronache e quella, più sottile ma altrettanto pervasiva, del denaro sovente seguono percorsi paralleli, per non dire coincidenti.
Faccio un esempio. Il nostro neonato premier ha concluso il suo primo giro di visite estere, incontrando, nell’ordine, Hollande (15 marzo), la Merkel (16 marzo), e poi tutti insieme appassionatamente nel Consiglio europeo (20 marzo), concedendosi un siparietto a tre prima del summit.
Il mainstream informativo ha congetturato sulla circostanza che la visita ad Hollande fosse propedeutica a quella con la terribile cancelliera per arrivare a una posizione comune (“cambiare verso all’Europa”) forti delle comune radice latina. E giù le solite veline.
La diplomazia dei prestiti, invece la racconterebbe così: Renzi è andato da Hollande perché l’Italia (dopo l’Olanda, ma capite bene la differenza) è il paese verso il quale si concentra la quota più rilevante di investimenti di portafoglio francesi.
Per la cronaca, secondo i dati del Fmi, a metà del 2013, tali investimenti francesi in Italia quotavano 301,291 miliardi di dollari, il 12% del totale degli investimenti di portafoglio francesi nel mondo (pari a 2.583 mld di dollari). Sottolineo che di questi 301 e passa miliardi ben 279 sono investiti in obbligazioni. I più svegli avranno già capito quali.
Ce n’è abbastanza per giustificare una prima visita al proprio “azionista estero” di riferimento?
La Merkel subito dopo, va da sé. In fondo i tedeschi (secondo semestre 2013) avevano investimenti di portafoglio in Italia per 214 miliardi di dollari, un filo sotto quelli francesi.
Quanto al siparietto italo-franco-tedesco prima del vertice, somiglia a una di quelle barzelletta con un italiano, un francese e un tedesco. La diplomazia dei prestiti ci racconta infatti che l’Italiano deve 301 miliardi ai francesi, che però ne devono 371 ai tedeschi, visto che la Francia (dopo il Lussemburgo, ma questa è un’altra storia) è il secondo partner degli investimenti di portafoglio esteri tedeschi.
Perciò l’italiano va dal francese per chiedere sostegno a chi a sua volta viene sostenuto da quello nei confronti del quale l’italiano chiede sostegno. Una barzelletta, appunto. Ed è in questa commedia del genere “io lo so che tu lo sai che lei lo sa” che si consuma la cronaca politica.
La diplomazia dei prestiti ci racconta anche un’altra amena storiella. Ossia quella che si ricava scrutando l’andamento dei prestiti francesi all’Italia dell’ultimo decennio.
Chi frequenta la storia sa bene che l’Italia intrattiene con la Francia un rapporto privilegiato almeno dai tempi di Cavour. E sa bene che la diplomazia dei prestiti non è certo una mia invenzione, ma un genere, purtroppo poco frequentato dagli storici di professione. In un certo senso la Francia, da più di cent’anni ha un atteggiamento diciamo “paterno” nei nostri confronti.
Con l’arrivo dell’euro l’Italia è diventata destinataria della grande generosità francese, replicandosi un po’ quello che ha fatto la Germania con la Spagna.
A voler pensar male, viene quasi il sospetto che il mitico asse franco-tedesco abbia trovato una sua saldatura nel dividersi pacificamente alcune zone d’influenza – la Francia l’Italia, la Germania la Spagna – rafforzando i legami già esistenti col denaro facile.
Vi do solo alcuni dati. Nel 2001 gli investimenti esteri francesi in Italia ammontavano a 73,5 miliardi. Con l’arrivo dell’euro, appena tre anni dopo, nel dicembre 2004, erano già 233 miliardi, per crescere senza sosta fino al top di 336 miliardi a fine 2009. Due anni dopo, a fine 2011, erano crollati a 254. Un bel dimagrimento. Ma poi la nostra riconosciuta responsabilità ha fatto ripartire i prestiti fino al livello attuale.
La cosa divertente è che se guardiamo gli investimenti esteri di portafoglio tedeschi in Francia le cifre sono soprendentemente simili e al tempo stesso divergenti. A gennaio 2001 erano 74 miliardi di dollari. Cominciano a crescere con l’arrivo dell’euro e due anni dopo erano raddoppiati a oltre 155 miliardi.
Con la crisi però le cose cominciano a divergere. Mentre l’Italia vede scomparire i suoi prestiti esteri (mal comune a tanti PIIGS), specie quelli franco-tedeschi, la Germania aumenta la sua esposizione verso la Francia, che esplode proprio con l’inizio della crisi. D’altronde è notorio che il debito francese piace alla gente che piace.
Infatti la crisi degli spread alla Francia le fa un baffo. Magari perché hanno giovato alla bisogna i 272 mld che la Germania aveva investito oltralpe a fine 2009, che diventano 295 nel 2010, 301 nel 2011 e addirittura 371 nel 2013. La Francia è diventata la nuova Spagna dei tedeschi.
Solo che la Francia non è la Spagna, e la storia è lì a testimoniarlo. Difficilmente i tedeschi potranno far con la Francia la voce grossa, godendo i francesi di un inestimabile spread politico sul quale contano i PIIGS per frenare il dispotismo euro-asiatico.
Ed ecco qui il nostro premier neonato che va da Hollande e poi dalla Merkel, ossia dal suo creditore francese che è debitore del suo altro creditore tedesco e prova a uscire dal cul de sac nel quale ci ha infilato un quarantennio di politiche scellerate. Ma che solidarietà possiamo aspettarci da una Francia che sta praticamente quasi peggio di noi? Secondo voi Hollande sarà portato a dare ragione a Renzi o alla Merkel?
In fin dei conti, quello che diplomazia dei prestiti svela, con disarmante chiarezza, è che noi italiani siamo debitori per oltre 500 miliardi, la gran parte investiti in nostri titoli di stato, all’asse franco-tedesco.
Che ormai non è più un asse, ammesso che lo sia mai stato.
Per noi è una morsa.
(2/segue)
Finisce l’epoca mercantilista dell’eurozona
In un’Eurozona (per non dire Europa) sempre più tedesca, non dovremmo stupirci che la fine (per ora) del modello di sviluppo tedesco export-led conduca alla stessa fine l’intera area euro.
Invece di stupirci dovremmo chiederci come si configurerà il modello di sviluppo (ammesso che ci sia) prossimo venturo, dopo il clamoroso crack di quello pompato dal debito alimentato dai crediti tedeschi, che per tutto il primo decennio del XXI secolo ha guidato il Pil dell’eurozona.
Il caso tedesco mostra con chiarezza che quel paese potrà attingere alle sue scorte (e alle sue rendite) per spingere sul consumo interno e gli investimenti per far risalire il Pil, pure in presenza di un contributo netto dell’export alla crescita del Pil diventato negativo.
Ma i PIIGS, che possono fare?
Guardiamo che dice la commissione Ue.
Nelle sue previsioni invernali, i tecnici di Bruxelles rilevano che ancora nel 2013 il contributo dell’export netto alla crescita del Pil è stato positivo, quasi per l’1%. Peccato gli investimenti siano diminuiti altrettanto. Col risultato che la crescita 2013 è stata pressoché nulla.
Le previsioni 2014-2015 mostrano che i driver del Pil a venire saranno il consumo privato e gli investimenti. Il peso relativo di export netto e spesa del governo è nell’ordine di pochi decimali di punto.
Le previsioni rilasciate ieri dalla Banca centrale europea confermano questo scenario. L’import complessivo, che include quindi anche quello intra eurozona, è previsto nel 2014 rimbalzi del 3,5% rispetto al 2013, quando il suo contributo al Pil è stato nullo, a fronte di un export in crescita del 3,6%. Nel 2015 la crescita di import ed export dovrebbe essere pari (+4,7%) fino a quando nel 2016, quando la Bce prevede un Pil reale in crescita per l’area dell’1,8%, l’import supererà l’export di uno 0.1%.
Le previsioni della Bce somigliano a quelle della commissione anche relativamente al peso specifico delle componenti della crescita: a fare la parte del leone sarnno la domanda domestica, per lo più privata, e gli investimenti.
Si interrompe quindi per l’eurozona, così come è successo per la Germania, l’importanza del peso relativo dell’export sulla crescita. L’eurozona è stata molto germanica, fra il 2010 e il 2013, combinandosi la crescita dell’export dell’area con la notevole contrazione dell’import che più volte abbiamo analizzato.
Ma quell’epoca è finita. L’eurozona nel suo complesso se vorrà crescere dovrà puntare su domanda interna, per lo più privata, e investimenti. Proprio come la Germania.
Quindi la germanizzazione dell’eurozona prosegue. Ma questo non vuol dire che tutti i paesi siano diventati tedeschi.
Al contrario.
Prendiamo casa nostra. Il rilancio (miserello) del nostro Pil dovrebbe dipendere pressoché interamente dalla domanda domestica, che nel 2014 dovrebbe cresce di 0,3 punti e nel 2015 di 1,3. In gran parte tale domanda è privata, visto che spesa del governo si presume ancora negativa per 0,6 punti nel 2014 e positiva per 0,4 nel 2015. Il contributo dell’export netto è previsto in calo dai 0.9 punti del 2013, agli 0,2 del 2014, fino allo 0 tondo del 2015. Qualcosina dovrebbe arrivare dagli investimenti. Insomma, pure per l’Italia lo sprint mercantilista è finito (leggi crescita guidata pompando l’export e comprimendo l’import) ma non abbiamo le minuzioni per fare quello che farà la Germania, ossia pompare la domanda interna. Anzi, ci aspetta altra austerità.
Questo spiega bene perché la nostra crescita sia fra le più basse previste. a meno che, certo, non aumentiamo la competitività riformando il mercato del lavoro e la tassazione delle imprese sul lavoro. Questo spiega la solita polemica sul cuneo fiscale.
Se andiamo a vedere l’Irlanda, che i banchieri centrali giudicano come il miglior risultato ottenuto dalle pratiche di riquilibrio messe in campo dopo la crisi, notiamo che il piccolo paese dovrà basarsi pressoché esclusivamente sull’export netto per avere crescita. Lo stesso vale per la Grecia, che nel 2014 dovrebbe avere una crescita positiva di export netto e investimenti e solo nel 2015 un contributo positivo della domanda interna (ricordo che la Grecia è stata in deflazione per tutto il 2013) e per la Spagna, che solo nel 2015 vede la quota di consumo interno superare quella dell’export netto nel contributo positivo al pil (ma solo perché nel grafico sono incluse le scorte). Lo stesso vale per Cipro, che dovrebbe vedere qualche decimale di crescita solo grazie all’export netto, e per il Portogallo.
Vale la pena fare un passaggio a parte sulla Francia, che abbiamo già visto essere condannata a puntare tutto sulla domanda interna per tenere in piedi il suo prodotto, a fronte di esportazioni nette che contribuiscono negativamente alla crescita e un deficit fiscale che sembra incomprimibile.
Cosa ci raccontano queste previsioni? Che il riequilibrio dell’eurozona è ancora lungi dall’esser completato. I paesi più fragili devono ancora giocare la carta mercantilista (quindi compressione delle importazioni e pressione per esportare di più, tramite aumento della competività), mentre quelli più ricchi, o semplicemente più blasonati come la Francia e, nel suo piccolo l’Italia, possono (o devono) puntare di più sul mercato interno perché non sono abbastanza flessibili per gareggiare con i PIIGS. Per loro, insomma, ma finirà così anche per noi, serve ancora una robusta dose di medicina tedesca per risanarsi e un bel po’ di tempo.
Poi le previsioni ci pongono un’altra questione. Se l’eurozona smetterà di essere mercantilista, almeno nel breve periodo, dovrà decidere che strada intraprendere.
La crescita guidata da consumo interno e investimenti, per non diventare alla lunga inflazionistica o generatrice di nuovi squilibri, deve necessariamente trovare mercati di sbocco. Quindi l’eurozona dovrà provare, volente o nolente, a provare a rilanciare il commercio estero, dovendo fare i conti con una moneta che si è molto rafforzata sia rispetto al dollaro che allo yen.
A meno che non si voglia puntare su un’ulteriore frammentazione dell’eurozona.
In questo caso nulla di più probabile che finirà col frammentarsi l’euro.
Le mille frammentazioni dell’eurozona
Fra i tanti guasti provocati dalla crisi degli spread almeno uno ha avuto conseguenze positive. Oggi, infatti, si parla parecchio della frammentazione finanziaria dell’eurozona. Ossia della marcata differenza fra i tassi d’interesse nei singoli paesi dell’area che invece, prima della crisi, convergevano con differenze minime verso quello tedesco.
Il famoso dividendo dell’euro, che adesso è venuto meno, ha funzionato come una mano di vernice steso sulle reali perfomance delle singole economie, celando perciò le mille frammentazioni macroeconomiche reali che dividono, e non da ora, i singoli paesi europei.
Il fatto poi che l’unica frammentazione che abbia meritato gli onori delle cronache, e l’interesse dei policy maker, sia quella degli spread la dice lunga sullo spirito del nostro tempo.
Ma questa è un’altra storia.
Vale la pena, perciò, fare un piccolo riepilogo e torna utile, a tal proposito, lo statistic pocket book rilasciato pochi giorni fa dalla Bce, che ha il pregio di riepilogare in poche pagine la storia recente dei paesi europei, così come la raccontano le aride cifre della statistica.
Come in tutte le statistiche, anche queste vengono influenzate dal peso specifico dei partecipanti. Ovviamente, Germania, Italia, Francia e Spagna, nei vari indicatori pesano per circa i due terzi dell’eurozona. Quindi il valore medio va preso con le dovute accortezze.
Cominciamo dai tassi di inflazione, variabile assai rilevante, visto l’impatto che hanno sui tassi reali di interesse.
La statistiche misurano l’indice HICP, ossia quello dei prezzi armonizzati al consumo.
Nel periodo 1996-2000, la media per l’eurozona dell’1,6% nascondeva importanti differenza non soltanto fra i paesi più periferici, come l’Estonia o la Slovacchia, che quotavano un indice superiore all’8%, ma anche fra i paesi core, con una Germania inchiodata all’1,1% a fronte di un’Italia al 2,4%.
L’arrivo dell’euro ha ristretto la banda di oscillazione, ma le differenza sono rimaste. Nel periodo 2001-2010 la media per l’eurozona è salita al 2%, ma sono rimaste differenze importanti. A fronte dell’1,6% tedesco, si registra un 4,2% in Slovenia e un 3,4% in Grecia. Italia (2,2%) e Francia (1,9%) stanno vicini alla media.
Con l’esplosione della crisi, tuttavia, la convergenza sui tassi sballa. L’Irlanda, nel 2010, segna un tasso negativo (-1,6%), mentre la Grecia arriva al 4,7%. I tassi italiani si allineano perfettamente alla media, con un +1,6%, mentre Germania (1,2%) e Olanda (0,9) stanno sotto.
Man mano che la crisi procede i divari si allargano. L’inflazione sale in tutta l’area (in media il 2,7%), ma l’Irlanda registra un risicato 1,2%, mentre l’Estonia un 5,5%. In Italia l’inflazione schizza al 2,9%, e persino in Germania più che raddoppia, arrivando al 2,5%. Peggio fa la Slovacchia, che passa dallo 0,7 al 4,1%.
L’inflazione, schiacciata dall’austerità, viene riassorbita nel corso del 2012, ma le differenze rimangono. Nel settembre 2013, la media euro arriva all’1,1%, che nasconde il -1% della Grecia, lo 0,3% di Cipro e lo 0,9% italiano, a fronte del quale si staglia il 2,4% olandese e l’1,6% tedesco. Al contrario di come sarebbe utile, i paesi in crisi sfiorano la deflazione (che aumenta il valore reale dei loro debiti) mentre quelli in surplus godono di una maggiore inflazione (che al contrario li diminuisce).
Questo contesto peggiora, se possibile, anche le differenze reali sui tassi di interesse.
Se analizziamo i tassi di crescita del Pil il ritornello non cambia. A una crescita media del 2,7 fra il 1996 e il 2000 si oppone quella del 10,3% registrata dall’Irlanda e il nostro misero 1,9% italiano, pari peraltro a quello tedesco. La Grecia in quel periodo cresceva in media del 3,4%, la Spagna del 4,1%, il Lussemburgo del 6,1% e la Spagna del 4,1%.
Con l’introduzione dell’euro la crescita media si schiaccia all’1,1% che, anche nel periodo 2001-2010, nasconde importanti differenze. Il Portogallo spunta appena uno 0,7% medio, peggiore solo dell 0,4% italiano. La Germania è in linea con la media (1%), Grecia e Spagna sono qusi al doppio (2%). L’unica che cresce forte è la Slovacchia (4,8%).
Il 2010 segna la rottura definitiva. Sebbene l’area cresca in media del 2%, la realtà dei singoli paesi annovera un -4,9% in Grecia, colpita dalla crisi del debito al quale si affianca il +4% della Germania e di Malta.
La frammentazione esplode dal 2011 in poi. La Grecia perde il 7,1% (2011) e il 6,4% (2012), a fronte del 3,3% (2011) e (0,7%) tedesco. I Piigs entrano in decrescita, che dura fino ai nostri giorni, mentre Malta e Lussemburgo se la passano benone, come anche la Germania (anche se di meno). Fra i paesi core si registra il dato negativo di Olanda e Finalndia, segno evidente che anche dove batteva sempre il sole il clima sta cambiando.
Altro indicatore “frammentato” è quello dell’Unit labour cost (Ulc), così dirimente per la questione della competitività che tanto affligge i paesi europei.
Nel periodo 1996-2000, la crescita media nell’eurozona è stata dello 0,9, a fronte del quale c’è una forbice assai ampia fra il 7,4% dell’Estonia e il -0,5% dell’Austria, con la Germania che quota uno zero tondo e il Portogallo un +5,1%. Nell’età dell’euro l’Ulc medio della zona sale dell’1,8%, con gradi differeze fra lo 0,4% tedesco e il 3% greco, vicino al 2,7% italiano e al 2,1% francese. Ogni paese, insomma, segue una via differente.
E quando scoppia la crisi, nel 2010, l’Ulc medio sprofonda dello 0,6%, ma quello irlandese del -6,7%, mentre in Lussemburgo continua a salire (+1.1%). Nel 2012 l’Ulc torna a crescere in media (+1,7%), ma in Irlanda si registra un altro -4%. Farà peggio solo la Grecia, nel 2012, quando l’Ulc scenderà del 6,2%.
E sempre a proposito di competitività, vale la pena dare un’occhiata all’indice armonizzato con il tasso reale di cambio basato sui prezzi di mercato. Ve la faccio semplice. Quest’indice segna un miglioramento della competitività quando decresce e un peggioramento quando aumenta.
Fatto 100 l’indice nel 1999, abbiamo una media di 103,3 nell’aeuroarea nel periodo 2004-2006, che si confronta con il 96,8 tedesco, il 97 finlandese, il 98 austriaco e il 115 irlandese, per non parlare del 151 slovacco.
Nel periodo 2007-09 la competitività europea peggiora (105,6), mentre quella austriaca migliora (97,8) e quella tedesca e finlandese rimane stabile. Quella dei Piigs, ovviamente peggiora più della media.
Un dato, quello del 2012, dice bene cosa sia successo dopo la crisi. La competitività tedesca migliora drammaticamente (88,8), ma è l’intera area che va meglio (92,8), persino quella italiana (98,8) che va persino meglio del 1999 (100) e quella francese. Non migliora invece quella spagnola (107,4) né quella irlandese (105.1). Ma nel 2013 il ciclo si inverte e l’indicatore torna a peggiorare, anche in Germania, dove arriva a 91,2 (settembre 2013), a fronte della media euro di 97.
L’ultimo indicatore che vale la pena osservare è quello della disoccupazione, dove l’ennesina frammentazione dell’area risulta particolarmente stridente. Vi risparmio quelli su debito, deficit e spesa generale del governo, ma anche quelli sul debito del settore privato e del debito estero, perché raccontano tutte la stessa storia: l’aumento dello spread finanziario è andato di pari passo con l’aumento dello spread su tutte le variabili economiche di base dei paesi euro.
Fra il 1996 e il 2000, quando la media dei disoccupati nell’area era al 10%, la Germania quotava l’8,9%, la Spagna il 15,5%, la Francia il 10,4 e l’Italia l’11%. Dal 2001 in poi la disoccupazione media dell’area scende all’8,8%, con una forbice che parte dal 3,9% olandese e arriva al 15% slovacco. La Grecia, in quel periodo, aveva una media del 9,8%, l’Italia del 7,8.
Con la crisi il mondo del lavoro europeo è cambiato. A parte la Germania, che vede i tassi di disoccupazione scendere costantemente, fino al 5,2% di settembre 2013, tutti gli altri paesi vedono gravi peggioramenti, con la Grecia ormai oltre il 27% e la Spagna lì vicino. Per fortuna che la media euro è “solo” il 12,2%.
La famosa media di Trilussa.
L’europianto dei Piigs fa ridere l’Eurozona
Ride l’Eurozona:”Il conto corrente dell’area – scrive la Bce nel suo ultimo bollettino economico – è passato da un disavanzo dell’1,9% del Pil nel terzo trimestre 2008 a un avanzo del 2,4% nel secondo trimestre 2013″.
Un risultato storico.
Il dato, infatti, “è il più elevato dall’introduzione della moneta unica”.
E giù applausi.
Se però qualcuno trova il tempo o la voglia di leggere tutto il resoconto a pagina 73 scopre tutta la storia.
Si intitola “Determinanti del recente miglioramento del conto corrente dell’area euro” che personalmente ho trovato utilissimo.
L’autore tratteggia l’andamento del conto corrente dell’area, il cui saldo, lo ricordo, misura la somma algebrica di import ed export nei confronti del resto del mondo delle quattro voci beni, servizi, redditi e trasferimenti.
L’analisi parte dal 1999, ma l’attenzione della Bce si focalizza purtroppo solo sul periodo 2008-2013.
Ma se osserviamo bene il grafico vediamo alcune cose, che il rapporto non dice a chiare lettere, relative al periodo precedente.
Nel 1999, ad esempio malgrado un contributo netto positivo della bilancia dei beni, il saldo del conto corrente risulta negativo a causa delle altre tre voci, tutte in perdita. Quindi l’eurozona soffriva di deficit sul lato dei servizi, dei redditi e dei trasferimenti.
Nel 2000 il saldo di conto corrente sprofonda fino a quasi il 2% del Pil, un livello che raggiungerà solo nel picco della crisi del 2008, perché all’andamento deficitario costante di redditi, servizi e trasferimenti, si aggiunge un robusto calo della bilancia dei beni, il cui surplus, pari a circa l’1% del Pil dell’area si azzera fino a diventare anch’esso negativo nel quarto trimestre 2000.
Il saldo si riprende nel 2001, ma sempre (e solo) grazie alla ripresa dell’export netto dei beni, che nel quarto trimestre 2001 raggiunge il livello del ’99, e poi inizia a superarlo.
L’arrivo dell’euro segna una rivoluzione per l’eurozona.
L’export netto di beni arriva a sfiorare il 2% del Pil e il saldo di conto corrente arriva all’1%, ancora appesantito dal saldo netto negativo di redditi e trasferimenti, ma migliorato da quello dei servizi.
Nel 2002, infatti, con la moneta unica, il saldo netto dei servizi diventa positivo, inaugurando un trend che non si è più fermato sino ai giorni nostri.
Ciò malgrado il peso dei deficit su redditi e trasferimenti inizia ad abbattere il saldo di conto corrente già dal terzo trimestre 2002, fino ad azzerarlo nel primo trimestre 2003, malgrado l’andamento positivo di servizi e beni il cui surplus arriva a pesare il 2% del Pil.
Il saldo di conto corrente si riprende già nel 2003 e torna all’1% del Pil nel primo trimestre 2004. Quindi ricomincia la sua discesa, appesantito da un saldo netto decrescente sui beni che non riesce ad essere compensato da quello positivo sui servizi.
L’andamento del saldo delle merci sprofonda fino a diventare negativo nel 2006, e con esso il saldo di conto corrente.
Appare però una novità. Al saldo positivo sui servizi se ne aggiunge un altro: quello sui redditi.
Evidentemente gli investimenti fatti dai residenti dell’area, diretti o di portafoglio, fruttano bene, grazie alla moneta unica.
La ripresa del saldo di conto corrente arriva a fine 2006 quando solo il saldo dei trasferimenti rimane negativo a differenza degli altri tre. Ma è solo una breve parentesi.
L’arrivo della crisi fa sprofondare il saldo corrente.
Nel terzo trimestre del 2008 il saldo va in deficit sul lato dei beni, dei redditi e dei trasferimenti, superando il 2%, appena attenuato dal saldo sui servizi, che rimane positivo, sicché il saldo corrente complessivo si ferma al defici dell’1,9%.
La svolta avviene nel corso del 2009. Già dal primo trimestre torna positivo il saldo sui redditi, dal secondo quello sui beni.
Ma la cosa che salta più all’occhio avviene fra il 2010 e il 2011, ossia nel periodo di “stabilizzazione” del saldo, per dirla con le parole della Bce.
Il saldo corrente oscilla intorno allo zero, portato in basso dall’andamento dei saldo dei beni, declinante, e di quello dei trasferimenti, ma tenuto in equilibri dal saldo dei servizi e, soprattutto, da quello dei redditi.
Fra il 2010 e il 2011, si potrebbe dire, l’eurozona scopre la sua vocazione di rentier.
Evidentemente l’euro aiuta a guadagnare sul lato dei redditi più che su quello dei beni.
E infatti anche nell’epoca buia della crisi dello spread, a fine 2011, il saldo del conto corrente rimane positivo, trainato in gran parte proprio dai redditi e dai servizi.
I beni tornano a fare capolino in maniera robusta all’inizio del 2012.
L’austerità ha compiuto il miracolo.
Dal 2012, infatti, il saldo positivo sui beni inizia a galoppare, il crollo delle importazioni fa salire alle stelle l’export netto, che arriva a quotare il 2% del Pil nel secondo trimestre 2013. I servizi valgono un altro 1%, i redditi quasi altrettanto.
La vocazione di rentier dell’eurozona cresce e si rafforza.
Se non fosse per i trasferimenti, in deficit per oltre l’1% del Pil il 2013 sarebbe un anno straordinario.
A proposito: il deficit dei trasferimenti è quasi raddoppiato dal 1999 a oggi. Ma questa è un’altra storia.
Vediamo adesso come la racconta la Bce.
“Il saldo commerciale è stato la componente che ha registrato il miglioramento più rapido durante questa fase, contribuendo per 2,3 punti percentuali
alla variazione del conto corrente. I paesi in difficoltà (Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo) hanno fornito ampi contributi al miglioramento del conto corrente
dell’area dell’euro nella prima fase della crisi (III trim/2008-III/2009) e nella terza fase (II/2012-II/2013)”.
Ma i dolori dei Piigs non si fermano qui.
Nella prima fase i PIIGS hanno migliorato il conto corrente sul lato dei beni, importando sempre meno dall’esterno dell’area euro.
Nella seconda fase (IV trim/2009 e I/2011) la crisi dello spread, che li ha costretti a pagare più interessi sui loro debiti sovrani ai sottoscrittori esteri, ha fatto crollare il loro saldo positivo sui redditi, anche perché i Piigs sono stati costretti a richiamare i capitali che avevano all’estero per sostenere la propria economia all’interno. Ciò ha finito col provocare un altro piccolo disavanzo globale. Il consolidamento fiscale che si è reso necessario per frenare questa emorragia di risorse si è tradotto in un’altra successiva restrizione delle loro importazioni.
Un’altra spinta all’insù per il conto corrente dell’area.
Così arriviamo alla terza fase: II trim/2011-II/2013.
“Il forte miglioramento del saldo del conto corrente dal secondo trimestre 2011 – scrive la Bce – è ascrivibile al saldo del conto dei beni, sia nei paesi in difficoltà che negli altri, in particolare la Germania”.
Ma attenzione: il peso specifico della correzione dei Piigs, e quindi il loro contributo al miglioramento del saldo corrente, è sempre superiore a quello degli altri paesi in tutte e tre le fasi individuate dalla Bce.
La gran parte della fatica, insomma, l’hanno fatta loro.
La riscossa, stavolta, scrive la Bce riferendosi alla terza fase “può essere attribuita all’ulteriore crescita delle esportazioni sia nei paesi in difficoltà che negli altri paesi, nonché alla nuova contrazione delle importazioni in alcuni dei paesi in difficoltà”.
In sostanza la domanda esterna all’eurozona, incoraggiata dalle politiche espansive della Fed della BoE e della BoJ, ha fatto salire le esportazioni generali della zona euro che si sono sommate algebricamente all’ulteriore calo delle importazioni estere dei paesi in difficoltà.
Il famoso surplus corrente che affossa il Pil.
Ancora lacrime per i Piigs, quindi. Che però, bontà loro, hanno persino esportato qualcosa di più rispetto al passato.
Tutto merito della competitività, di sicuro, e delle varie riforme.
Ricapitolo per i distratti: i Piigs hanno pianto all’inizio della crisi, quando la fine dei soldi facili ha fatto crollare le loro importazioni di beni dall’estero, contribuendo così al miglioramento dell’export netto dell’area. Quindi, nella seconda fase, hanno pianto lato redditi a causa dell’impennata degli spread, che ha imposto loro pesanti consolidamenti fiscali e li ha costretti a richiamare i loro investimenti all’estero, da una parte, e a continuare a pagare a tassi crescenti i detentori esteri dei loro titoli pubblici, dall’altra. E infine, nella terza fase, hanno pianto ancora lato import merci nel momento del boom perché il consolidamento fiscale ha drenato risorse dai consumi.
Tutte queste lacrime raccontano un crollo delle loro economie che dura da cinque anni.
Fortuna che l’Eurozona ride.