Etichettato: conto corrente

I sette anni che hanno cambiato il mondo

C’è tutta una tradizione sui settenni, sul valore simbolico del numero sette, sui suoi affastellati mistici o religiosi che però, esondando dagli argomenti di questo blog, vi risparmio. Mi limito a ricordare le proverbiali vacche magre cui di solito, dopo sette anni, seguono le vacche grasse, o viceversa se preferite.

Ci ho pensato sopra perché a un certo punto del mio peregrinare mi sono imbattuto in un un bellissimo grafico costruito dall’Istituto di statistica inglese ONS che riepiloga il settennio terribile (in realtà gli anni sono otto, ma non stiamo a sottilizzare) iniziato nel 2008 e finito nel 2014 dei paesi del G7, ossia le cosiddette economie avanzate, utilizzando come angolo di osservazione il contributo delle varie componenti del conto corrente della bilancia dei pagamenti.

Ricordo ai meno appassionati che il saldo di conto corrente, ossia la differenza fra entrate e uscite, ci dà una prima informazione generale sullo stato di un paese. Se, vale a dire, è complessivamente debitore o creditore relativamente alle partite che il conto corrente registra, che poi sono le transazioni di beni e servizi (bilancio commerciale o trade balance nel grafico) e i redditi, suddivisi in primari e secondari.

Quest’ultima classificazione merita di essere approfondita. I redditi primari sono sostanzialmente i redditi che derivano dal capitale e dal lavoro. I secondari sono le imposte, i contributi  e le prestazioni sociali e i trasferimenti personali. Chi volesse approfondire può trovare sul sito della Banca d’Italia tutti i riferimenti aggiornati secondo i nuovi standard internazionali.

Scusate la premessa, ma senza sarebbe stato difficile discutere ciò che il grafico sommarizza.

Il primo paese del G7 nell’elenco è la Germania. Quest’ultima nel periodo considerato ha visto aumentare il saldo positivo di conto corrente, che ormai sfiora il 9% del Pil. L’analisi delle componenti ci rivela un’altra informazione, ossia che l’aumento dell’attivo è in gran parte dovuto all’aumento dei redditi primari, mentre il conto del commercio è sostanzialmente stabile, quindi dei ricavi dagli investimenti esteri. Ciò conferma una tendenza che era già emersa chiaramente: la Germania inizia a vivere delle proprie rendite.

Se guardiamo al nostro Paese, osserviamo che l’Italia è riuscita a trasformare il proprio deficit di conto corrente, che nel 2007 era di poco inferiore al 2% del Pil, in un attivo, che a fine 2014 si colloca intorno al 2%. La composizione di tale saldo ci dice altro. La prima cosa è che nel 2007 i redditi secondari erano positivi, anche se di poco, mentre nel 2014 sono diventati negativi. Ciò significa che paghiamo più rendite di quante ne incassiamo. E questo dipende probabilmente dalla quantità di debito estero che abbiamo cumulato nel frattempo.

Un’altra informazioni la troviamo guardando al conto merci. Nel 2007 era in deficit. Nel 2014 è in attivo per oltre il 3% del Pil. L’unico attivo, visto che la voce dei redditi, sia primari che secondari, è negativa. Ciò significa che il miglioramento della nostra posizione estera è dovuta interamente alla bilancia commerciale, e che tale tendenza dovrebbe consolidarsi, atteso che è presumibile che continueremo a lungo a pagare rendite ai nostri creditori esteri.

Il Giappone mostra un’altra curiosa evoluzione. L’attivo di conto corrente si è ridotto fortemente, da circa il 5% del 2007 a più o meno l’1%, con il conto delle merci in deficit, a mostrare come la crisi abbia notevolmente peggiorato la bilancia dei beni e servizi malgrado la notevole svalutazione dello yen.

Degno di nota anche il fatto che il residuo attivo di conto corrente è dovuto alla notevole crescita dei redditi primari, cresciuti di circa mezzo punto di Pil nel periodo. In pratica la posizione estera del Giappone si tiene in piedi grazie alle rendite percepite dall’estero.

Un’evoluzione simile a quella vissuta dalla Francia, che nel 2007 aveva un attivo sulla bilancia dei beni e servizi e un deficit su quella dei redditi primari, mentre nel 2014 la situazione è del tutto invertita. La bilancia del commercio è negativa, mentre quella dei redditi primari è attiva per oltre il 2%. Ciò non impedisce alla Francia di avere complessivamente un peggioramento del saldo, che era in deficit nel 2007, anche se di poco, nel 2014.

Anche il Canada ha cambiato la sua posizione. Da un saldo attivo nel 2007 vicino all’1%, nel 2014 ha superato il 2% di deficit. Tale situazione è stata determinata dal drastico peggioramento della bilancia di beni e servizi, prima attiva per il 2% del Pil, e ora in deficit.. Il Canada in pratica ha tutte le partite correnti deficitarie.

Gli Stati Uniti sono gli unici insieme alla Germania e all’Italia, ad avere migliorato il saldo corrente. Nel 2005 avevano un deficiti vicino al 5% e ora stanno poco sopra il 2%. A tale miglioramento hanno contribuito la diminuzione del deficit della bilancia di beni e servizi e l’aumento dell’attico dei redditi primari, cui certo non è estranea la particolare situazione monetaria di cui gli Usa godono per essere in pratica gli emittenti della moneta internazionale.

Infine, il Regno Unito, che è riuscito come il Canada a far finire in deficit tutte le partite correnti, con la conseguenza che il saldo è negativo per oltre il 5% del Pil quando nel 2007 era un po’ meno del 3%. Il peggioramento si deve allo sprofondamento dei redditi primari, che erano attivi per circa l’1% nel 2007 e sono diventati passivi per oltre il 2% nel 2014, e di quelli secondari che hanno più che compensato il miglioramento del deficit del conto trade.

Questa situazione mostra con evidenza come la crisi abbia cambiato il mondo delle economie avanzate, non sappiamo se in meglio o in peggio, e consente di trarre alcune considerazioni.

La prima è che i vari QE hanno premiato solo la posizione estera degli Stati Uniti, paese sui generis, mentre hanno penalizzato sia l’UK che il Giappone. La seconda è che gran parte del benessere di molti paesi avanzati (Germania, Giappone, Francia e Usa) si deve alle rendite percepite dall’estero. Il che fa molto Ottocento, se ci pensate un attimo.

La terza è che questa situazione non ci permette di rispondere a una semplice domanda: siamo certi che i setti anni che sono passati, che tutti pensavano essere quelli delle vacche magre, sono stati veramente gli anni orribili per l’economia dei paesi del G7? E se invece fossero quelli delle vacche grasse?

Ah, saperlo…

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L’europianto dei Piigs fa ridere l’Eurozona

Ride l’Eurozona:”Il conto corrente dell’area – scrive la Bce nel suo ultimo bollettino economico – è passato da un disavanzo dell’1,9% del Pil nel terzo trimestre 2008 a un avanzo del 2,4% nel secondo trimestre 2013″.

Un risultato storico.

Il dato, infatti, “è il più elevato dall’introduzione della moneta unica”.

E giù applausi.

Se però qualcuno trova il tempo o la voglia di leggere tutto il resoconto a pagina 73 scopre tutta la storia.

Si intitola “Determinanti del recente miglioramento del conto corrente dell’area euro” che personalmente ho trovato utilissimo.

L’autore tratteggia l’andamento del conto corrente dell’area, il cui saldo, lo ricordo, misura la somma algebrica di import ed export nei confronti del resto del mondo delle quattro voci beni, servizi, redditi e trasferimenti.

L’analisi parte dal 1999, ma l’attenzione della Bce si focalizza purtroppo solo sul periodo 2008-2013.

Ma se osserviamo bene il grafico vediamo alcune cose, che il rapporto non dice a chiare lettere, relative al periodo precedente.

Nel 1999, ad esempio malgrado un contributo netto positivo della bilancia dei beni, il saldo del conto corrente risulta negativo a causa delle altre tre voci, tutte in perdita. Quindi l’eurozona soffriva di deficit sul lato dei servizi, dei redditi e dei trasferimenti.

Nel 2000 il saldo di conto corrente sprofonda fino a quasi il 2% del Pil, un livello che raggiungerà solo nel picco della crisi del 2008, perché all’andamento deficitario costante di redditi, servizi e trasferimenti, si aggiunge un robusto calo della bilancia dei beni, il cui surplus, pari a circa l’1% del Pil dell’area si azzera fino a diventare anch’esso negativo nel quarto trimestre 2000.

Il saldo si riprende nel 2001, ma sempre (e solo) grazie alla ripresa dell’export netto dei beni, che nel quarto trimestre 2001 raggiunge il livello del ’99, e poi inizia a superarlo.

L’arrivo dell’euro segna una rivoluzione per l’eurozona.

L’export netto di beni arriva a sfiorare il 2% del Pil e il saldo di conto corrente arriva all’1%, ancora appesantito dal saldo netto negativo di redditi e trasferimenti, ma migliorato da quello dei servizi.

Nel 2002, infatti, con la moneta unica, il saldo netto dei servizi diventa positivo, inaugurando un trend che non si è più fermato sino ai giorni nostri.

Ciò malgrado il peso dei deficit su redditi e trasferimenti inizia ad abbattere il saldo di conto corrente già dal terzo trimestre 2002, fino ad azzerarlo nel primo trimestre 2003, malgrado l’andamento positivo di servizi e beni il cui surplus arriva a pesare il 2% del Pil.

Il saldo di conto corrente si riprende già nel 2003 e torna all’1% del Pil nel primo trimestre 2004. Quindi ricomincia la sua discesa, appesantito da un saldo netto decrescente sui beni che non riesce ad essere compensato da quello positivo sui servizi.

L’andamento del saldo delle merci sprofonda fino a diventare negativo nel 2006, e con esso il saldo di conto corrente.

Appare però una novità. Al saldo positivo sui servizi se ne aggiunge un altro: quello sui redditi.

Evidentemente gli investimenti fatti dai residenti dell’area, diretti o di portafoglio, fruttano bene, grazie alla moneta unica.

La ripresa del saldo di conto corrente arriva a fine 2006 quando solo il saldo dei trasferimenti rimane negativo a differenza degli altri tre. Ma è solo una breve parentesi.

L’arrivo della crisi fa sprofondare il saldo corrente.

Nel terzo trimestre del 2008 il saldo va in deficit sul lato dei beni, dei redditi e dei trasferimenti, superando il 2%, appena attenuato dal saldo sui servizi, che rimane positivo, sicché il saldo corrente complessivo si ferma al defici dell’1,9%.

La svolta avviene nel corso del 2009. Già dal primo trimestre torna positivo il saldo sui redditi, dal secondo quello sui beni.

Ma la cosa che salta più all’occhio avviene fra il 2010 e il 2011, ossia nel periodo di “stabilizzazione” del saldo, per dirla con le parole della Bce.

Il saldo corrente oscilla intorno allo zero, portato in basso dall’andamento dei saldo dei beni, declinante, e di quello dei trasferimenti,  ma tenuto in equilibri dal saldo dei servizi e, soprattutto, da quello dei redditi.

Fra il 2010 e il 2011, si potrebbe dire, l’eurozona scopre la sua vocazione di rentier.

Evidentemente l’euro aiuta a guadagnare sul lato dei redditi più che su quello dei beni.

E infatti anche nell’epoca buia della crisi dello spread, a fine 2011, il saldo del conto corrente rimane positivo, trainato in gran parte proprio dai redditi e dai servizi.

I beni tornano a fare capolino  in maniera robusta all’inizio del 2012.

L’austerità ha compiuto il miracolo.

Dal 2012, infatti, il saldo positivo sui beni inizia a galoppare, il crollo delle importazioni fa salire alle stelle l’export netto, che arriva a quotare il 2% del Pil nel secondo trimestre 2013. I servizi valgono un altro 1%, i redditi quasi altrettanto.

La vocazione di rentier dell’eurozona cresce e si rafforza.

Se non fosse per i trasferimenti, in deficit per oltre l’1% del Pil il 2013 sarebbe un anno straordinario.

A proposito: il deficit dei trasferimenti è quasi raddoppiato dal 1999 a oggi. Ma questa è un’altra storia.

Vediamo adesso come la racconta la Bce.

“Il saldo commerciale è stato la componente che ha registrato il miglioramento più rapido durante questa fase, contribuendo per 2,3 punti percentuali
alla variazione del conto corrente. I paesi in difficoltà (Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo) hanno fornito ampi contributi al miglioramento del conto corrente
dell’area dell’euro nella prima fase della crisi (III trim/2008-III/2009) e nella terza fase (II/2012-II/2013)”.

Ma i dolori dei Piigs non si fermano qui.

Nella prima fase i PIIGS hanno migliorato il conto corrente sul lato dei beni, importando sempre meno dall’esterno dell’area euro. 

Nella seconda fase (IV trim/2009 e I/2011) la crisi dello spread, che li ha costretti a pagare più interessi sui loro debiti sovrani ai sottoscrittori esteri, ha fatto crollare il loro saldo positivo sui redditi, anche perché i Piigs sono stati costretti a richiamare i capitali che avevano all’estero per sostenere la propria economia all’interno. Ciò ha finito col provocare un altro piccolo disavanzo globale. Il consolidamento fiscale che si è reso necessario per frenare questa emorragia di risorse si è tradotto in un’altra successiva restrizione delle loro importazioni.

Un’altra spinta all’insù per il conto corrente dell’area.

Così arriviamo alla terza fase: II trim/2011-II/2013.

“Il forte miglioramento del saldo del conto corrente dal secondo trimestre 2011 – scrive la Bce – è ascrivibile al saldo del conto dei beni, sia nei paesi in difficoltà che negli altri, in particolare la Germania”.

Ma attenzione: il peso specifico della correzione dei Piigs, e quindi il loro contributo al miglioramento del saldo corrente, è sempre superiore a quello degli altri paesi in tutte e tre le fasi individuate dalla Bce.

La gran parte della fatica, insomma, l’hanno fatta loro.

La riscossa, stavolta, scrive la Bce riferendosi alla terza fase “può essere attribuita all’ulteriore crescita delle esportazioni sia nei paesi in difficoltà che negli altri paesi, nonché alla nuova contrazione delle importazioni in alcuni dei paesi in difficoltà”.

In sostanza la domanda esterna all’eurozona, incoraggiata dalle politiche espansive della Fed della BoE e della BoJ, ha fatto salire le esportazioni generali della zona euro che si sono sommate algebricamente all’ulteriore calo delle importazioni estere dei paesi in difficoltà.

Il famoso surplus corrente che affossa il Pil.

Ancora lacrime per i Piigs, quindi. Che però, bontà loro, hanno persino esportato qualcosa di più rispetto al passato.

Tutto merito della competitività, di sicuro, e delle varie riforme.

Ricapitolo per i distratti: i Piigs hanno pianto all’inizio della crisi, quando la fine dei soldi facili ha fatto crollare le loro importazioni di beni dall’estero, contribuendo così al miglioramento dell’export netto dell’area. Quindi, nella seconda fase, hanno pianto lato redditi a causa dell’impennata degli spread, che ha imposto loro pesanti consolidamenti fiscali e li ha costretti a richiamare i loro investimenti all’estero, da una parte, e a continuare a pagare a tassi crescenti i detentori esteri dei loro titoli pubblici, dall’altra. E infine, nella terza fase, hanno pianto ancora lato import merci nel momento del boom perché il consolidamento fiscale ha drenato risorse dai consumi.

Tutte queste lacrime raccontano un crollo delle loro economie che dura da cinque anni.

Fortuna che l’Eurozona ride.