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La lunga marcia dell’esercito dei robot

Come in un brutto film di fantascienza, l’armata dei robot marcia verso il futuro con i suoi arti meccanici e il suo cervello di sicilio, appena raffinato dal pensiero artificiale che promette di diventare intelligenza, e con ciò rendere gli umani definitivamente superflui. Costoro, gli uomini, guardano attoniti quest’esercito che sembra inarrestabile, domandandosi cosa mai sarà di ognuno di loro. Ossia di noi. Saremo finalmente liberi dalla schiavitù del lavoro, grazie alla fatica di questi sub-umani meccanici, o si prepara per l’uomo un’altra forma più sottile di sottomissione? Gli scrittori di distopie sono all’opera, e lo sono da più di mezzo secolo, da quando la fiction ha iniziato a inglobare l’uomo artificiale nelle sue trame. Diversamente, i modesti osservatori della realtà devono accontentarsi di affastellare numeri e storie per provare a comprendere questa rivoluzione davvero storica che sta investendo le nostre società. Comprendere il dove, il come, il quando, il perché e il chi: le famose domande base del buon giornalismo che sono state cancellate dalla pratica sensazionalistica e dalla ricerca compulsiva di un’attenzione sterile e superficiale. Tutto il contrario di quello che facciamo qui su Crusoe. E per capire la rivoluzione dei robot, dobbiamo ripartire proprio dalle domande fondamentali.

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Il business del XXI secolo: Total entertainment

Ci troviamo a vivere in un mondo paradossale, che chiede sempre meno lavoro a fronte della necessità di un reddito crescente. Il progresso tecnico ha messo fuori mercato diversi mestieri, liberando insieme milioni di ore che prima erano dedicate al lavoro, e contemporaneamente ha alzato il costo del biglietto che dobbiamo pagare semplicemente per essere cittadini del nostro tempo. I nostri padri, per fare un esempio, dovevano pagare una sola bolletta del telefono. Oggi in una famiglia, ogni persona ha la sua, e in più bisogna pagare una connessione per l’abitazione, acquistare diversi dispositivi e buona parte dei contenuti che propongono. Vivere è più caro non perché beni e servizi costino di più, anche se magari in molte casi accade, ma perché ci sono più cose da pagare rispetto appena a venti anni fa. Chi ha qualche capello grigio ne converrà.

A fronte di questo, si è liberata una quantità di tempo che fino a un secolo fa sarebbe stato inimmaginabile. Non solo perché gli orari di lavoro si sono ridotti notevolmente. Ma anche perché, crescendo l’età media, si è allungata l’età di ingresso nel mondo del lavoro e sono aumentati gli anni in cui si sta in pensione. Le società occidentali sono popolate da un numero enorme di persone che – letteralmente – non fa nulla, che, pure qui, non ha precedenti nella storia. Una condizione che J.M.Keynes, in uno scritto degli anni ‘30, aveva immaginato e che già allora gli sollevava diverse preoccupazioni. Nessun governo dovrebbe sottovalutare l’impatto del tempo libero su una popolazione, aveva ammonito.

L’economista inglese non poteva certo immaginare che l’industria del tempo libero, la vera innovazione del XX secolo, avrebbe assunto da lì a un trentennio le dimensioni che ne fanno oggi una delle più importanti arene nelle quali i grandi capitalisti si confrontano per l’egemonia. Oggi, che esistono milioni di persone che – letteralmente – non fanno nulla, occupare il loro tempo intrattenendoli è autenticamente l’affare del secolo. E anche qui le nuove tecnologie sono il campo di battaglia.

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La Chat di Crusoe con @certainregard: Il peccato originale dell’eurozona

Questa settimana Crusoe (C) si è piacevolmente intrattenuto con roundmidnight (R) @certainregard

C. Buongiorno. Vorrei cominciare la nostra Chat con un paio di notizie che arrivano dall’Europa. La prima riguarda la Grecia, di cui ha discusso l’Eurogruppo. La seconda il dato sui prezzi alla produzione tedeschi, cresciuti del 2,4% a gennaio 2017 su base annua. Cominciamo dalla Grecia: cosa ti aspetti succeda con l’ennesimo capitolo di questa vicenda?
R. La situazione greca denuncia l’incompletezza strutturale originaria dell’eurozona. L’eurozona, a differenza degli Stati Uniti, nasce con un alto indebitamento degli Stati membri, con un alto grado di bancarizzazione e con un forte legame tra debito degli Stati e attivo della banche. La malattia dell’uno diventa la malattia dell’altro e viceversa. In questo contesto, finché non si sarà spezzato questo legame (e non sarà stato adottato un framework per la ristrutturazione del debito pubblico), le istituzioni europee sono costrette ad intervenire per salvare entrambi, trovandosi costrette, nel contempo, a fare la faccia feroce per limitare l’azzardo morale e l’eccessiva espansione dei deficit pubblici, rendendo ancora più forti le voci contrarie all’Unione europea.
Nel caso della Grecia vi è un interesse comune: da un lato (quello delle istituzioni europee) a dimostrare l’irreversibilità dell’euro e dall’altro (quello della Grecia) a non uscire dall’euro. Il debito greco è ormai in gran parte in mano alle istituzioni europee e la spesa per interessi, in percentuale al PIL, è sostanzialmente pari a quella di altri paesi periferici dell’eurozona. Il problema del debito greco, quindi, è più un problema che riguarda l’eventualità di un futuro (seppure ancora remoto) accesso autonomo ai mercati, senza il sostegno delle istituzioni europee. In quel caso, chiaramente, i tassi di mercati applicati ad uno stock di debito così elevato, determinerebbero una situazione insostenibile. E’ però impossibile che le istituzioni europee possano accettare un taglio del debito, perché significherebbe violare un principio cardine, quello del divieto di finanziamento dei paesi membri, con la creazione di un precedente pericoloso. Ritengo, quindi, che alla fine si troverà una soluzione già sperimentata: ridurre ulteriormente (con più azioni) il peso degli interessi lasciando maggior margini al bilancio statale greco. La Grecia, però, soffre degli stessi problemi italici: non si sta dimostrando capace a riformare veramente il paese, cancellando rendite e ingiustizie e valorizzando merito ed efficienza. E questo non potrà che continuare a far pagare la crisi agli strati della popolazione più deboli, con tutte le tensioni del caso e il riproporsi delle stesse problematiche nel tempo.

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