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L’eurodisastro ci riporta alla vigilia della Grande Guerra
Sarà perché fra poco ricorre il centenario, e certe scadenza, si sa, sono suggestive. Sarà perché in fondo il lavoro degli storici è quello di tracciare prospettive basandosi sui confronti col passato. Però quando ieri sera mi sono letto un paper di Michael D.Bordo e Harold James che traccia un inquietante parallelismo fra la crisi dell’eurozona di oggi e quella che precedette la prima guerra mondiale il pensiero di essere sull’orlo di una catastrofe imminente ha iniziato a spaventarmi. Sarà perché gli storici fanno anche questo di mestiere.
Il paper, messo on line dal Nber, si intitola “The European Crisis in the Context of the History of Previous Financial Crises”, e già dall’abstract rileva come ci siano “sorpredenti somiglianze fra il gold standard precedente il 1914 e l’Unione monetaria europea”. “Entrambi sono basati su tassi di cambio fissi e sull’ortodossia monetarie e fiscale”. Ma, cosa ancora più sorprendente, “entrambi hanno garantito un facile accesso dei capitali provenienti dai paesi core ai paesi periferici economicamente sottosviluppati”. Come oggi, anche prima del 1914 c’erano i Pigs (o Gipsi). Ed erano più o meno gli stessi. Ieri, come oggi, tali paesi sono stati beneficiati dal credito dei paesi ricchi e oggi, come ieri, ne sono stati spogliati con grave nocumento per le loro economie.
Ma c’è una profonda differenza fra il regime del gold standard e quello dell’euro. Il primo, in caso di grandi crisi, come ad esempio una guerra o un dissesto finanziario, poteva accordare delle eccezioni alla regola della convertibilità, accordando anche temporanee svalutazioni monetarie ai paesi in crisi. L’Euro “non ha questa valvola di sfogo”, come la chiamano gli autori.
Quindi, mentre in entrambi i regimi “i flussi di capitale hanno alimentato il boom dei prezzi delle attività attraverso il sistema bancario, provocando grandi crisi nei paesi periferici”, a questi ultimi non è stata data la possibilità di svalutare, come avrebbero fatto all’epoca del gold standard.
Conseguenza: “La Grecia e gli altri paesi periferici hanno sofferto danni economici più grandi di quelli sofferti dall’Argentina nel 1890”. Per la cronaca, quella crisi lì è una di quelle che gli annali segnalano con più ricorrenza, dopo quella del ’29, perché provocò il fallimento della Banca Baring di Londra.
Le analogie non finiscono qui. Un grafico mostra l’indebitamento pubblico raggiunto dai paesi europei fra il 1910 e il 1914, provocato dalla corsa agli armamenti: è lo stesso raggiunto oggi dagli stati per tappare il grande buco del debito privato dal 2008 in poi, ben oltre il 90% medio del Pil.
Un altro grafico mostra con chiarezza lo stretto collegamento fra l’ampio movimento di capitali e le crisi bancarie. Nel 1914 l’indice aveva raggiunto lo stesso picco di correlazione registrato ai giorni nostri. Questo per quelli che dicono che la libera circolazione dei capitali fa bene all’economia.
L’ennesima analogia riguarda il basso costo del capitale, garantito dall’adesione al gold standard, che permise ai paesi periferici di abbeverarsi alla “generosità” dei paesi ricchi. Proprio come è accaduto ai paesi del Sud Europa dopo l’adesione all’euro, quando gli spread crollarono. Ciò ha finito, ieri come oggi, per favorire un indebitamento coatto il cui costo, oggi come ieri, gli Stati sono chiamati a pagare. “Quando i paesi credibilmente adottavano il gold standard, sperimentavano picchi di afflussi di capitale quasi sempre mediati attraverso il sistema finanziario”. Stop improvvisi di tali afflussi spesso hanno condotto a collassi bancari”. Questo agli inizi del XX secolo. E del XXI.
Un’altra analogia riscontratat è quella del costo pagato dagli stati per entrare nel gold standard, del tutto simile a quello pagato dagli stati europei per entrare nell’euro. Ivan Vyshnegradsky, ministro delle finanze russo fra il 1887 e il 1892, che voleva a tutti i costi far entrare il suo paese nel gold standard, spiegava la necessità di accettare la pesante deflazione fiscale e monetaria alla quale stava esponendo la Russia con una massima: “Dobbiamo esportare, anche a costo di morire”.
Una massima (“dobbiamo essere competitivi”) che sentiamo ripetere spesso e volentieri, ai giorni nostri, e che rivela un’altra analogia fra i due periodi: il mercantilismo. Ieri come oggi, favorire il commercio era il fine ultimo dei due sistemi monetari.
Ancor più interessante è leggere al ricostruzione fatta dai due autori della nascita dell’area monetaria europea che “ha funzionato prima di entrare in vigore e poi non più”.
La prima motivazione che spinse le nazioni europee più ricche a ricercare un’integrazione monetaria fu “nella depoliticizzazione dei processi di aggiustamento”. Togliere ai parlamenti nazionali la possibilità di decidere cosa fare dei propri debiti, insomma, affidando il tutto a un’entità sovraordinata era la migliore garanzia per i propri crediti.
Ovvio che a fare da capofila di questa integrazione fosse la Germania, dal secondo dopoguerra Grande Creditore dei paesi europei. Meno ovvio che a questo gioco partecipasse anche la Francia. I due paesi infatti, già dal secondo dopoguerra, avevano interessi divergenti.
La Francia, infatti, “aveva la prospettiva di dover subire un periodo di austerità e deflazione per correggere i propri conti”, dopo la seconda guerra mondiale. Proprio come adesso. “E questa necessità era poco attrattiva per i politici francesi, visto che avrebbe contratto la crescita e provocato impopolarità”. I francesi avrebbero preferito fare politiche espansive, ma tale alternativa “era impopolare in Germania, dove il pubblico temeva l’inflazione e si registrava la ferma opposizione della Bundesbank”. Anche questa, sembra storia di oggi, non di sessant’anni fa.
Non ci siamo mossi di un passo. Abbiamo solo ingannato il tempo.
Per risolvere questi dilemmi, Francia e Germania, puntarono sull’unione monetaria. La prima per “scaricare” su un’autorità sovranazionale gli eventuali costi del proprio aggiustamento. La seconda per lo stesso motivo, ma contrario. L’Unione monetaria divenne una camera di compensazione delle tensioni nazionali.
Germania e Francia si accordarono sulla necessità di non rispondere alle proprie opinioni pubbliche: è questo l’unico asse franco-tedesco. Gli altri paesi, bovinamente, seguirono.
Ma poiché il diavolo si annida nei dettagli, ecco che gli effetti dei movimenti nei capitali, ormai liberalizzati, mostrarono che era molto difficile che gli squilibri dell’area (gli stessi di oggi) si potessero correggere. E questo “era chiaro già alla fine del 1980 e dei primi anni ’90”.
Ciò convinse gli indecisi che “l’unione monetaria fosse l’unico modo per evitare che il rischio di crisi periodiche, con costanti riallineamenti monetari che avrebbero provocato effetti sulle pratiche di commercio, finissero col minacciare la sopravvivenza del mercato interno europeo”.
Insomma, i policy maker europei pensarono che affidandosi all’euro avrebbero tolto dal tappeto la variabile impazzita dell’eurozona, ossia il cambio nazionale. Le svalutazioni minacciavano l’integrità del mercato unico, dissero. Ma di fatto penalizzavano i paesi a valuta forte, che poi erano gli stessi che premevano per l’unificazione monetaria.
La cosa irritante è che tutti sapevano che non avrebbe funzionato. Il barone Alexandre Lamfalussy, general manager della Bis, cooptato nel Delors Committee che mise le basi dell’Unione monetaria, scrisse un memorandum dove affermava che “dubito che paesi con propensioni al deficit così diversi possano convergere in un’Unione monetaria come avviene in un sistema federale. Né credo che sarebbe saggio affidarsi principalmente al libero funzionamento del
mercato finanziario per appianare le differenze di comportamento fiscale tra Stati”. E concludeva che “c’è il rischio che in assenza di uno stretto coordinamento, le grandi differenze fiscali fra i paesi rimarranno”.
Serve più Europa, quindi, come ci ripetono anche oggi. O per dirla con le parole del barone: “Un maggior coordinamento a livello comunitario della politica fiscale sarebbe il naturale complemento della politica monetaria comune”.
Tale consapevolezza, di star creando qualcosa di pericolosamente instabile, era chiaro a tutti i livelli. Nel suo rapporto finale, l’allora governatore della Banca di Francia Jacques de Larosière scrisse che “è improbabile che l’Unione economica e monetaria sia durevole senza un sufficiente grado di convergenza delle politiche di bilancio degli stati”. Salvo poi, quando si trattò di chiudere i trattati e definire le regole per costruire e finanziare i bilanci pubblici, arguire provocatoriamente “chi può giudicare l’applicabilità di tali regole? Non c’è la polizia”. Era sempre un cittadino francese, prima che europeo.
Sicché, concludono i nostri autori, “una politica fiscale comune non emerse mai in Europa”.
Si arrivò al trattato di Maastricht, e, dieci anni dopo all’unione monetaria, in queste condizioni. Con l’aggravante che nel 2003 Francia e Germania, sempre loro, violarono i patti perché avevano problemi fiscali.
L’asse franco tedesco si palesa solo quando hanno guai comuni, evidentemente.
Nel frattempo che l’Europa cuoceva nel suo brodo, la liberalizzazione dei flussi di capitale faceva il suo corso. E quando l’Uem finalmente fu varata, la seduzione degli spread bassi completò il disastro.
Fino al 1990 la gran parte dei debiti pubblici nei paesi europei era in mano ai residenti. Il debito estero non arrivava a un quinto del totale. Con l’euro cambiò tutto. Nel 2008, tre quarti del debito portoghese era in mano all’estero, oltre la metà di quello greco e spagnolo pure, e i due quinti di quello italiano pure. E una grande parte di questo debito era in mano alle banche. Il richiamo in patria dei capitali gentilmente prestati iniziò a dar lavoro alla troika, con buona pace delle popolazioni, chiamata a garantire che i soldi tornassero da dove erano venuti.
Si ripete lo schema che abbiamo visto all’opera negli anni che precedette la Grande Guerra. I paesi deboli fanno boom, si gonfiano di debiti, e poi entrano in agonia.
Speriamo che le analogie si fermino qua.
Lezioni cinesi per l’eurozona
Uno dice Cina e pensa: esportazioni, grandi riserve, pochi debiti e Pil alle stelle. Uno legge l’ultimo Economic surveys dell’Ocse pubblicato oggi e dedicato al gigante asiatico e scopre: sempre meno esportazioni, meno riserve, tanti debiti nascosti e Pil in crescita ma…
Questo per dire che ogni tanto bisognerebbe scrivere di meno e leggere di più. Se non altro perché fra le righe delle 161 pagine del rapporto si intravede una straordinaria lezione per l’eurozona che è quasi un monito: le economie che puntano solo sull’export per crescere prima o poi s’impantanano.
Con un corollario: non è tutto Pil quello che luccica.
La lezione la Cina l’ha imparata fra il 2009 e il 2011. Dopo l’ingresso nel Wto, nel 2001, la Cina è diventata il Grande Esportatore manufatturiero del mondo. Nel 2007, all’apice del successo, la crescita reale del Pil era del 14,2% e il saldo del conto corrente segnava un surplus pari al 10% del Pil, mentre il saldo fiscale era positivo per il 2% del Pil.
A livello macro, le esportazioni contribuivano per il 19,8% al Pil e le importazioni il 13,7, i consumi di famiglie e governo il 10,8%, gli investimenti il 14,3%.
Tuttavia, l’incidenza percentuale del commercio estero alla crescita del Pil era al 3,6%, in terza posizione rispetto a quella degli investimenti (6%) e dei consumi interni (5,6%). Come dire: l’export è importante per far crescere il prodotto, ma mai quanto gli investimenti e la domanda interna. La strada, insomma, era già segnata, a volerla vedere.
Anche i ciechi, però, se ne sono accorti due anni dopo.
La crisi ha cambiato il volto della Cina.
Nel 2009 malgrado il Pil segni sempre un robusto +9,6% (purtroppo il Pil è l’unica cosa che fa notizia quando si parla di Cina), l’export crolla di 10,2 punti di Pil (dal +19,8 del 2007). A compensare, in parte, questo calo drammatico sono stati gli investimenti pubblici, che arrivano al 18,9%. Il saldo commerciale si dimezza, arrivando al 4,9% del Pil (era il 10,1 nel 2007) e il saldo fiscale diventa negativo dell1,1%. Bazzecole rispetto ai bilanci pubblici occidentali, però…
Però c’è una sorpresa nei conti pubblici cinesi: gli off budget borrowing. Ossia gli enormi debiti fuori dal bilancio dello stato accesi dalle varie autonomie locali con le banche per sostenere lo straordinario piano di stimolo post crisi. Proprio fra il 2009 e il 2010 tale montagna di debito “invisibile” raggiunge quasi il 40% del Pil, “riflettendo – scrive l’Ocse – il ricorso ricorrente a finanza non trasparente”. Di fatto un sistema bancario pubblico presta soldi pubblici ai territori nell’ipotesi, remota, che tali debiti siano ripagati. E di tutto questo nei conti pubblici statali non si vede.
L’approfondirsi della crisi conferma il cambio sistemico in corso in Cina. Nel 2011, col Pil sempre in crescita del 9,3%, per la prima volta la percentuale di crescita delle importazioni (8,8%) supera quelle delle esportazioni (8,1), con la conseguenza che il saldo del conto corrente crolla al 2,8% del Pil (dal 10,1 del 2007). A guidare la crescita del Pil è ancora una volta la domanda domestica, con i consumi privati in testa. Il saldo fiscale torna positivo per lo 0,1%, ma i debiti fuori bilancio continuano a pesare circa il 35% del Pil.
Che la Cina sia destinata a spendere i suoi soldi sempre più in casa sua per sostenere la sua crescita viene confermato dai dati del 2012, quando il Pil si ferma al 7,8%. Il calo si spiega in gran parte con il calo degli investimenti e dei consumi. La domanda domestica, infatti passa dal 10,1% del Pil del 2011 all’8,2.
Certo, anche l’export pesa sempre meno. Il saldo commerciale si ferma a 2,6 punti di Pil, ed è previsto peserà sempre di meno. Quest’anno dovrebbe scendere al 2,3, per arrivare al 2% nel 2014.
Tutto ciò bisognerebbe ricordarselo quando leggeremo sui giornali che “La Cina continua a crescere”, come scrive l’Ocse, e che per il 2013 è prevista una crescita dell8,5% e per il 2014 dell’8,9.
Il futuro della Cina dipenderà sempre più da quanto spenderà dentro i suoi confini. Anche perché finora ha speso pochissimo per tutte quelle voci che fanno sballare le nostre contabilità pubbliche.
Basti considerare che la spesa pubblica per finalità sociali, ossia il welfare, arriva appena al 9,6% del Pil, a fronte del 28,3 medio dei paesi Ocse, e che l’indice di soddisfazione per la propria vita quota 92, a fronte del 29 Ocse, quando 1 dovrebbe essere l’ottimo.
La lezione che non si campa di solo export la Cina l’ha imparata, e dovrà tenerla a mente nei prossimi anni, se non vuole collassare.
L’Europa rischia di essere rimandata a settembre.
La parallasse franco-tedesca
C’è una costante nella vulgata politico-economica-giornalistica sui fatti più o meno recenti dell’Europa: l’esistenza di un asse franco-tedesco. In questa narrazione i paesi forti dell’Europa avrebbero stretto un patto per soggiogare i paesi del Sud, imponendo prima l’euro e poi il futuro politico dell’eurozona. La premessa logica di tale impostazione è che entrambi ci abbiano guadagnato, sennò che asse sarebbe?
Ma è davvero così? Chiediamo conforto alle statistiche del Fondo Monetario e scorriamo i dati relativi a Francia e Germania degli ultimi anni. Abbiamo già visto l’andamento del debito estero dei francesi, che tutto pare tranne che sia migliorato nell’ultimo decennio. E abbiamo anche visto lo stato di salute della contabilità pubblica della Francia, alle prese con un incidenza crescente del debito sul Pil e con un deficit di difficile contenimento. Adesso guardiamo a un altro indicatore, ossia il volume delle esportazioni e delle importazioni e il relativo saldo della bilancia dei pagamenti.
Nel 2001, prima quindi dell’arrivo della menota unica, la Francia aveva un saldo attivo di 23,533 miliardi di dollari, l’1,756% del Pil. L’anno dopo il saldo si era già ridotto a 18,164 mld (1,274% Pil), e di anno in anno è peggiorato. Nel 2005, ben prima quindi della grande crisi, il saldo era negativo per 10,375 miliardi. Nel 2008 raggiunge il picco di -49,632 miliardi.
Il crollo delle importazioni seguito alla crisi del 2008 migliora il saldo del conto corrente, che infatti nel 2009 si colloca a -35,016 miliardi. Ma nel 2011 il buco ha toccato un nuovo record negativo: -54,169 miliardi di dollari. Da lì è ripartito un trend decrescente, che nel 2012 ha ridotto il deficit a 44,755 miliardi e il Fmi prevede continuerà a decrescere fino ai -8,398 previsti per il 2017, ciò a fronte di un import e di un export che si prevedono crescenti.
I conti della Germani raccontano una storia diversa. Nel 2001 il saldo corrente era quasi zero (anzi era negativo per un decina di milioni di euro). Nel 2002, con l’arrivo dell’euro, il saldo esplode, segnando un +40,298 miliardi, che diventano 45,827 nel 2003 e ben 127,275 miliardi nel 2004. L’apice del saldo positivo si tocca nel 2007, quando il saldo arriva a 247,967 miliardi (la Francia era a -25,931 miliardi). Alla faccia dell’asse.
Negli anni della crisi il saldo tedesco cala, ma si mantiene ampiamente positivo. Nel 2008 scende a 226,105 miliardi e da lì simuove al ribasso, raggiungendo i 203 miliardi di fine 2011, divenuti 183,827 nel 2012. Le previsioni assestano il saldo attivo tedesco intorno ai 150 miliardi di euro da qui al 2017, quindi sempre più o meno sopra il 4% del Pil teutonico.
Se poi guardiamo alla contabilità pubblica, mentre i francesi sono alle prese con un rapporto crescente fra debito e Pil, i tedeschi hanno un andamento ben differente. Dopo aver toccato il picco dell’82,394% nel 2010 (era il 59,142 nel 2001), tale indicatore ha iniziato a flettere, ed è previsto arriverà al 73,701% nel 2017, mentre la Francia, correzioni permettendo, dovrebbe fermarsi all’86,457%, sempre nel 2017.
Per farla semplice, il ritratto che viene fuori è che da una parte ci sia la Germania, grande creditore dei paesi europei (Francia compresa) e la Francia, grande debitore (anche della Germania). Come possano un creditore e un debitore fare asse è perlomeno misterioso, visto che è del tutto ovvio che abbiano interessi contrapposti. Un debitore ha tutto l’interesse a inflazionare il debito (Francia), mentre un creditore (Germania) ha tutto l’interesse a deflazionare per conservare il valore reale dei propri crediti.
Chi parla di asse franco-tedesco, perciò, dovrebbe spostare il proprio punto di vista per avere una migliore rappresentazione della realtà. Scoprirebbe che non c’è nessun asse franco-tedesco.
Semmai è una parallasse.