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La crisi costa 700 miliardi alle famiglie italiane
L’appuntamento dicembrino con il supplemento del bollettino statistico di Bankitalia che fotografa la ricchezza delle famiglie italiane dell’anno prima è una di quelle occasioni gloriose per il mainstream. Il pezzo, per i giornali, è praticamente scritto nella prima pagina del bollettino, che dà subito i numeri di come e quanto, soprattutto quanto, è cambiata la ricchezza degli italiani e regala dei titoli facili. Tipo come quando scrivono che “alla fine del 2013 il valore della ricchezza netta complessiva è diminuito dell’1,4%”. Oppure quando sottolineano che “secondo stime preliminari, nel primo semestre 2014 la ricchezza netta delle famiglie sarebbe ulteriormente diminuita in termini nominali dell’1,2% rispetto a dicembre 2013”.
La gran parte degli osservatori si ferma qua. I giornali, a seconda di motivazioni o inclinazioni, scrivono che le famiglie italiane sono più povere o meno ricche, dipende se prevale il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, visto che comunque continuiamo a quotare una ricchezza media pari a otto volte il reddito lordo. E poi parte il circo dei commenti che commentano senza neanche aver capito niente: così: per sport.
Poiché mi illudo che bisogna pur provare a capire, mi sono proposto di leggere questo bollettino con un occhio diverso. Facendo caso a certe sfumature e magari leggendo il rapporto in controluce con i due che lo hanno preceduto. D’altronde è noto che il diavolo si annida nei dettagli.
Il confronto è utile anche perché i valori nominali sono assai ingannatori. Per dire: nel rapporto sul 2013 leggo che la ricchezza netta era pari a 8.728 miliardi, al netto quindi del calo dell’1,4%, pari a 123 miliardi, registrato nel corso dell’anno rispetto al 2012. Senonché se mi ripesco il bollettino dell’anno scorso leggo che la ricchezza netta era pari a 8.542 miliardi, quindi assai meno del dato 2013, malgrado il calo denunciato da Bankitalia. Evidentemente è una questione statistica che ha a che vedere con la circostanza che le valutazioni sono a prezzi correnti dell’anno.
Perciò tanto vale fidarsi di Bankitalia che nota come “dalla fine del 2007 la flessione a prezzi costanti è stata complessivamente dell’8%”. Una robetta da circa 700 miliardi di euro. Il che misura l’esatto dimagrimento medio subito dalle famiglie italiane che hanno vissuto l’ennesimo anno nero, il 2013, e si apprestano a concluderne un altro, il 2014, che già dai primi sei mesi conferma il trend declinante della ricchezza media.
E sarebbe strano il contrario. Difficile che la ricchezza familiare aumenti quando il prodotto nazionale declina. Ricordo che la crisi è costata circa nove punti di Pil reale. Se lo confrontate con il calo dell’8% della ricchezza familiare, noterete che tutto torna.
La novità, ma relativa, è che il peso specifico della ricchezza reale declina da un triennio rispetto a quella finanziaria. Alla fine del 2011 il mattone pesava il 62,8%. Un anno dopo il 61,1, nel 2013 il 60. Ma neanche questo è strano: i prezzi del mattone sono calati costantemente, a differenza di quelli degli attivi finanziari. A fine 2013 questo stock valeva 4.900 miliardi, il 4,1% in meno rispetto all’anno precedente, -4,4% in termini reali. Un dimagrimento di oltre 100 miliardi di euro, a ben vedere. In un anno.
Altresì interessante notare come sia mutato il peso relativo dei debiti. Nel 2011 le famiglie avevano debiti pari al 71% del reddito disponibile. Un anno dopo erano schizzati all’82%, da lì sono scesi all’81% nel 2013, guidato dal calo dei tassi. Tale diminuzione dei debiti non è bastata a compensare, neanche sommandosi all’aumento degli attivi finanziari, il calo di ricchezza provocato dal crollo del mattone nel 2013. Rimane il fatto che i debiti delle famiglie italiane siano aumentati parecchio in tre anni e questo, sommandosi al calo del mattone, spiega molto il decrescere della ricchezza netta.
Eppure “nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un’elevata ricchezza netta”, che suona un po’ come se tutto sommato non dovremmo lamentarci.
A vedere le medie sembra proprio così.
Ma poi se si volta pagina si scoprono tante altre cose. Specie guardando un grafico che riepiloga l’andamento delle varie componenti dal 1995 al 2013 a prezzi correnti. E qui c’è un altro di quei dettagli diabolici che se non ci fate caso rischia di passare inosservato.
Noto, ad esempio, che ancora nel 1999 i beni reali in pancia alle famiglie valevano circa 3.000 miliardi. dieci anni dopo, nel 2009 erano raddoppiati, passando a 6.000 miliardi, dimostrandosi con ciò che la gran parte dell’arricchimento delle famiglie italiane è stato determinato dal boom dei valori immobiliari. Il mattone è insieme la cassaforte e la zavorra delle famiglie.
A fine 2013, infatti, il totale delle attività reali era di 5.767 miliardi, l’85% delle quali abitazioni, ossia circa 4.900 miliardi, diminuita, fra fine 2012 e fine 2013 di ben 211 miliardi.
Noto pure l’incredibile aumento dei debiti delle famiglie che, ancora nel 1995 quotavano poche centinaia di miliardi. I debiti crescono insieme con la ricchezza e l’incrementarsi dei corsi immobiliari, arrivando ormai a sfiorare i 900 miliardi di euro (886 mld), dei quali 380 per mutui. E poiché i debiti si devono sottrarre alla ricchezza lorda per avere quella netta, ecco spiegato l’altra componente del dimagrimento in corso: le famiglie hanno fatto debiti per comprare mattone, evidentemente sopravvalutato, e ora si trovano con un mattone che perde valore, al contrario dei debiti. E’ come se avessero tessuto la corda che le ha impiccate. Ciò spiega anche perché “il livello di ricchezza media per famiglia nel 2013, espresso a prezzi costanti, era simile a quello della fine degli anni novanta“.
Siamo tornati indietro di quindici anni. E il timore è che non sia finita qua.
Se guardiamo ai numeri indice della ricchezza immobiliare, infatti, notiamo che dal 1995 (indice 100), tale è valore è più che raddoppiato superando 240 nel 2011, da quando ha iniziato inesorabilmente a declinare. E’ evidente che se il settore immobiliare non arresterà la sua caduta, ciò non potrà che avere conseguenze sulla ricchezza delle famiglie. Ma non si capisce come dovrebbe fermare la sua caduta, visto che i redditi, che sono quelli che dovrebbero sostenerlo, sono a loro volta retrocessi a livelli da fine anni ’90.
E infatti Bankitalia nota che per il primo semestre 2014 “si stima una contrazione del valore della ricchezza delle abitazioni dell’1,2% a prezzi correnti”. Che su un totale di 4.900 miliardi pesa circa una cinquantina di miliardi in meno.
Noto anche un’altra cosa, scrutando i dati della ricchezza finanziaria. Rispetto al 2007 la classe di depositi bancari con importi fino a 50 mila euro ha visto diminuire il suo peso relativo di oltre il 10% a vantaggio delle classi superiori, ossia fra i 50 mila e i 250 mila e oltre i 250 mila. La crisi perciò ha avvantaggiato chi aveva già di più a danno di chi aveva di meno.
Chissà perché neanche questo dato mi sorprende.
Ma quante sono le famiglie italiane vulnerabili?
Leggo perciò a un certo punto, scorrendo l’ultimo bollettino mensile della Bce, che le famiglie italiane indebitate vulnerabili sono parecchie. Anzi, nel confronto fra gli altri paesi dell’eurozona, sono fra persino più di quelle cipriote e greche. Più esposte delle nostre famiglie ai tormenti del debito, ci sono solo quelle slovacche.
Ovviamente non credo ai miei occhi. Ma poi mi ricordo che la statistica è quella meravigliosa disciplina in cui tutto è possibile, dipendendo ogni sua conclusione dalle premesse sulle quali è fondata. Così per comprendere l’analisi della Bce è opportuno partire proprio da queste.
L’analisi della Bce, che quota il 7,3% la percentuale di famiglie italiane indebitate vulnerabili, cozza peraltro con un’altra rilevazione, fatta stavolta dalla Banca d’Italia nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, dove non solo tale percentuale viene stimata meno della metà, ma addirittura, nota Bankitalia, la situazione è pressoché stabile.
Chi ha ragione perciò?
Dipende appunto.
La Bce per svolgere la sua analisi parte dai dati della Household Finance and Consumption Survey (HFCS) che l’Eurosistema svolge su base triennale partendo da un campione dei bilanci di 62 mila famiglie nei 15 paesi dell’area. I dati, nonostante la Survey sia stata pubblicata ad aprile 2013, sono aggiornati al 2010 (la prossima Survey è in lavorazione) quindi non sono aggiornati e perciò vanno interpretati con saggezza.
Questa base è stata interpolata con altri dati per arrivare a compilare dei veri e propri stress test sul bilanci familiari dell’eurozona articolati considerando alcuni shock, sia sul livello di occupazione – la perdita del lavoro è un evidente motivo di tensione finanziaria per una famiglia indebitata – sia sul livello dei tassi, visto che questo decide le sorti del servizio del debito.
Ma prima ancora di approfondire bisogna intendersi su cosa significhi vulnerabilità per la Bce. Nello studio tale condizione si verifica quando una famiglia ha un margine finanziario negativo. Ossia quando la differenza fra il reddito e la somma di imposte, servizio del debito e costo dei beni essenziali è negativo. E poi quando tale flusso negativo è superiore alle attività liquide della famiglie in un determinato arco di tempo.
In sostanza, se una famiglia va in rosso e la liquidità che ha a disposizione non basta a coprirlo più di tanto diventa automaticamente vulnerabile.
Gli stress test svolti dalla Bce ci dicono anche altre cose. L’Italia, che nello scenario base quota un 7,3% di famiglie ritenute vulnerabili (peggio fanno solo gli slovacchi con il 7,9%), vedrebbe aumentare la sua quota di famiglie vulnerabili al 7,5 in caso di shock sui tassi di interesse (incremento stimato di 300 punti base), e al 7,4% in caso di aumento della disoccupazione (+5% del tasso). Se si verificassero entrambe le condizioni, le famiglie vulnerabili diventerebbero il 7,7% del totale. Al livello del Portogallo.
Certo, ad altri andrebbe assai peggio. In Spagna, per dire, dove nello scenario base le famiglie vulnerabili sono il 6,7%, lo shock sui tassi le farebbe salire all’8,8%, quello dell’occupazione al 7,1, il combinato disposto al 9,1. In Grecia, 6,9% nello scenario base, un aumento dei tassi le porterebbe al 7,8% e della disoccupazione al 7,5%. Il combinato all’8,5%.
Se andiamo a vedere i paesi “sani”, vedremmo che in Germania, dove le famiglie vulnerabili sono il 4% nello scenario base, un aumento di tassi non avrebbe alcun effetto, mentre un aumento della disoccupazione un effetto marginale, portandole al 4,1%, che poi è la stessa percentuale nel caso si verifichi l’effetto combinato. In Francia, che parte da un 2,4%, l’effetto di un aumento dei tassi sarebbe nullo e della disoccupazione uguale a quello tedesco, portandosi il combinato al 2,5%.
Nel ricordarvi che tutto ciò è frutto di congetture, è interessante tuttavia osservare una circostanza: il canale finanziario, ossia l’aumento dei tassi di interesse, è assai più impattante sulla vulnerabilità rispetto all’aumento della disoccupazione per i PIIGS, mentre vale il contrario per i paesi meno fragili.
Vagamente inquieto, approfitto della pubblicazione dell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato da Bankitalia proprio nello stesso giorno del bollettino Bce per capire come la veda invece la nostra banca centrale. E mi accorgo che in effetti la questione è all’ordine del giorno, tanto che nel rapporto alla vulnerabilità delle famiglie indebitate viene dedicato un riquadro che si interroga sugli effetti della stagnazione del reddito su queste famiglie.
La prima cosa che salta all’occhio è la definizione di vulnerabilità, assai diversa da quella della Bce. Per Bankitalia, in particolare, “sono considerate vulnerabili le famiglie che hanno un rapporto fra rate da pagare (capitale e interessi) e reddito disponibile superiore al 30 per cento e un reddito disponibile inferiore al valore mediano (NB: non medio, ndr) della distribuzione”.
Quindi tale definizione è basata esclusivamente sulla percentuale del servizio del debito in relazione al reddito e non prende in considerazione il flusso finanziario globale dei soggetti. E questo spiega perché i risultati di Bankitalia siano così diversi da quelli della Bce e anche perché le percentuali di vulnerabilità assai più basse.
Bankitalia nota infatti che fra il 2008 e il 2010 la percentuale di famiglie vulnerabili si è ridotta dal 3% al 2,3%, passando la quota di debito delle famiglie vulnerabili dal 24,6% del debito totale delle famiglie al 16,4%. Tale miglioramento è dipeso dal fatto che il calo dei tassi ha più compensato la marcata riduzione di reddito.
Nel 2012 la percentuale dei vulnerabili è risalita al 2,9%, circa 750 mila famiglie, per un ammontare totale di debito pari al 20% dell’intero settore, che vale circa 140 miliardi. Tale peggioramento si è verificato a causa del calo del reddito disponibili e, soprattutto, al rialzo dei tassi dovuto all’esplodere della crisi del debito sovrano.
Bankitalia si è spinta oltre e ha effettuato alcune simulazione econometriche secondo le quale, stante l’attuale situazione della congiuntura, le famiglie vulnerabili aumenteranno al 3,2 nel 2014 per raggiungere il 3,4% nel 2015 nella scenario base. In caso di shock sul reddito nominale, ipotizzato in calo dello 0,5% nel 2014 e dell’1% nel 2015, la percentuale salirebbe al 3,7% nel 2015. Se invece salissero i tassi, con l’ipotesi di un un aumento dell’1% dell’euribor a tre mesi, si arriverebbe al 3,5%, sempre nel 2015.
La differenza marcata fra le due analisi spiega con chiarezza la divergenza fra le conclusioni. talché è persino impossibile rispondere con ragionevole certezza alla domanda su quante siano le famiglie italiane rese vulnerabili dai debiti. Osservo solo che l’analisi di Bankitalia è assai più rassicurante di quella della Bce. E questo significherà pure qualcosa.
Aldilà delle congetture, tuttavia, è assai più interessante osservare alcuni dati, che sempre Bankitalia pubblica nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria.
Mi riferisco in particolare ai dati sui prestiti alle famiglie consumatrici. Bankitalia li classifica in tre voci: prestiti per acquisti abitazioni, credito al consumo e altri prestiti, e confronta l’evoluzione degli aggregati fra dicembre 2013 e giugno 2014.
La prima circostanza da sottolineare è che il totale dei prestiti è leggermente diminuito, da 553,373 mld di euro a 550,828. Ma soprattutto che sono aumentati gli incagli (da 1,9% a 2,1, pari a 7,1 mld) e le sofferenze (da 3,4% a 3,6%, pari a 12,2 mld) sui prestiti per abitazioni. Questa voce pesava a giugno scorso 338,5 miliardi, ossia il 61% del totale dei prestiti bancari alle famiglie.
Le sofferenze sono aumentate anche sui crediti al consumo, dal 6,2% al 6,4%, pari a 7,12 mld, e anche sugli altri prestiti, dal 17,3% al 17,7, pari a 17,7 mld.
Se sommiamo il totale delle sofferenze nelle tre voci di prestiti, osserviamo che le banche hanno crediti in sofferenza presso le famiglie per oltre 37 miliardi di euro.
La famiglie saranno vulnerabili saranno pure poche, in Italia, come dice Bankitalia.
Ma le banche no.
