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La Nazione Globale. Dal G7 alla Federazione. Idea per il secolo nuovo
Giunti a questo punto sarebbe facile concludere la nostra analisi sulla Nazione globale con l’ennesima trita rievocazione del declino ormai imminente dell’Occidente, guardando dallo spioncino della porta che ci separa dal futuro la nostra triste senescenza, innanzitutto demografica, ormai avvitata su se stessa, che ci rende prede, e quindi fragili, e insieme predatori, perché ancora affamati di quella vita alla quale non sappiamo né vogliamo rinunciare.
L’industria fiorente della longevità è lì a mostrarci quanto siamo disposti a pagare per il sogno allucinato di una vita se non eterna, molto lunga. E mentre che avvizziamo, credendoci giovani, chiudiamo le nostre porte difendendo il nostro fortino a qualunque costo.
In quest’esito così esiziale, il lunghissimo XIX secolo si chiuderebbe per esaustione, consegnando l’Occidente – o comunque lo si voglia chiamare – al destino che fu già dei grandi imperi universali che, mentre si estendevano si rinchiudevano nella prigione della loro stessa violenza.
Oppure possiamo tentare un rilancio. Lasciare tramontare in pace l’idea stessa dell’Occidente per la semplice ragione che ambiamo ad essere molto di più: l’avanguardia di una società futura capace di rompere la catena che ci tiene avvinti al nostro passato.
Per riuscire occorre elaborare un’idea capace di rigenerare la nostra capacità creatrice, atrofizzata dal lungo e stanco ripetersi di formule e pensieri ormai inadatti a comprendere il mondo. Dobbiamo entrare nel secolo nuovo. Uscire definitivamente dal lunghissimo secolo XIX. Tentare un passaggio simile a quello che condusse dal Medioevo al Rinascimento, sperando di aver una fortuna ancora migliore.
Due riflessioni di pensatori ormai lontani da noi ci vengono in aiuto. Il primo, Arnold J. Toynbee, quando ci ricorda che l’oggetto della storia sono le società, non le nazioni, né tantomeno l’umanità in generale o un periodo storico. A un certo punto per svariate ragioni, una società, ossia un certo modo di intendere la vita, si afferma nella storia. A volte genera una civiltà, a volte no. Può scomparire, può rimanere.
Il secondo è Karl Jaspers, che già agli albori del secondo dopoguerra scriveva che il mondo, ormai divenuto globale, avrebbe dovuto a un certo punto fare i conti con la scelta se far prevalere una società fondata sull’ordine legale, quindi drammaticamente imperfetta perché perfettibile grazie all’uso delle nostre migliori qualità – le stesse che ci hanno condotto alle idee di giustizia e libertà – oppure far prevalere la tirannide tipica degli imperi universali, dove prevalgono la violenza e la pianificazione centralizzata, dissimulate con la maschera cordiale della sicurezza sociale.
Questi due pensieri insieme servono a formulare una domanda: esiste una società alla quale possiamo dire di appartenere? E se si, come vogliamo che sia amministrata?
La Federazione
La risposta alla prima domanda è sotto ai nostri occhi. Se guardiamo al modo di vita di noi europei, lo troviamo sorprendente simile a quello dei paesi che compongono il G7 e non solo con loro. Si pensi alla Svizzera o all’Australia. Con queste popolazioni abbiamo certamente usanze diverse, ma ciò che ci unisce ha radici assai più profonde di ciò che ci divide. Il sistema politico, ad esempio. Che poi è lo stesso che informa l’attuale globalizzazione e che adesso è minato dall’interno e dall’esterno da quelli che sempre Toynbee chiamava i due proletariati. Il primo generato dalla perdita di fiducia nelle classi dirigenti, il secondo, assai più prosaicamente, dalla disperazione o da alcune potenze che vogliono convincerci che il loro modello di società è il più adatto a gestire il futuro.
All’interno orde crescenti di insoddisfatti invocano l’uomo dei miracoli, prologo per qualunque tirannide, che prometta di difenderli da chi minaccia il loro spazio vitale assediato dal proletariato esterno. Sorgono ogni giorno nuovi muri, col risultato che la città, da luogo di compensazione di istanze antagoniste, ripiega verso la cittadella fortificata mentre ampia allo sfinimento i suoi confini. La carne della vita viene imprigionata nel ferro. L’associarsi quindi, ossia la società, diventa impossibile.
Di fronte a una pressione così forte, la risposta delle società determina il tipo di evoluzione. Può essere regressiva – la tirannide – può essere progressiva: la libertà.
Il XXI secolo, il primo secolo consapevolmente globale, si definirà nella sua forma politica a seconda della risposta che la società emersa dal lunghissimo XIX secolo, del quale il nostro tempo è il fantasma, darà alla pressione che la sta squassando. Si definirà nella sua forma economica solo se capiremo, agendo di conseguenza, che a un capitalismo globale deve corrispondere una gestione politica globalizzata di alcune coordinate economiche, a cominciare ad esempio dalla moneta, passando per la regolazione finanziarie e per una base fiscale comune. Per dirla con Weber, come il nazionalismo generò il capitalismo, così il capitalismo globale ha bisogno di una federazione politica.
La fenomenologia della nostra depressione è ampia e discussa: non servono molte parole. Viviamo immersi nel Tedioevo, forma attuale del Medioevo, esito del crollo delle utopie dell’età moderna, ossia della crisi della forma nazionale e dell’idea capitalistica che sussume. Il nostro spirito è intriso da una nuova religione secolarizzata fondata sul culto dell’individuo e sulla scienza, che promettono la libertà mentre rischiano di generare nuove, piacevolissime, catene.
In chiave politica, questa religione si è declinata nel culto della nazione e nell’uso pervasivo della tecnica divenuta ormai anche uno strumento di governo, culminando nella nascita dell’ordine neo-assolutista che s’intravede nel disegno della Nazione globale sorta nella cloud. La libertà può essere facilmente pervertita in tirannide. Il contrario è molto più difficile. Bene che vada, ci vogliono secoli.
Che fare dunque? La luce che promanava dalla nostra società ha smesso di brillare. Ma questo non vuol dire che sia spenta. Occorre tornare a credere in noi stessi, ossia al nostro modo di stare insieme. E il miglior modo per farlo è rinnovarci l’un l’altro la promessa di fratellanza che ha evitato che ci muovessimo guerra negli ultimi settant’anni.
Noi europei lo facciamo ogni giorno, inseguendo il faticoso progetto della nostra Unione, tanto immane quanto a rischio di inanità. Si tratta di estendere questa promessa agli altri paesi con i quali condividiamo evidentemente una società.
In qualche modo lo facciamo. Il G7 raggruppa già sette di questi paesi, con l’Ue ospite gradito. Basta immaginare un’idea di Federazione: l’alternativa politica, economica e sociale alla Nazione globale che incombe su di noi. Ossia un luogo dove i ragionamenti e le strategie elaborate dai capi di governo di questi paesi trovino attuazione. Non un governo mondiale ma un governo federale per problemi mondiali, che lavori per la nostra società aperta secondo il principio di sussidiarietà. Non si deve occupare di tutto, ma solo di alcune cose. Quelle che servono a diminuire la pressione dei due proletariati sulle strutture portanti delle nostra società. Ossia il nostro bene più prezioso, così fragile.
Non è un lavoro da poco. E soprattutto non è neanche facile spiegarlo alle nostre popolazioni, in gran parte ancora sedotte dal mito nazionalista. Ma si comincia sempre col parlarne. E lentamente si costruisce.
Le difficoltà sarebbero enormi, ovviamente. A cominciare da quelle dell’egemone in carica che dovrebbe rinunciare a comode rendite di posizione – e basta ricordare il privilegio esorbitante del dollaro – in nome di una responsabilità condivisa. Ma la grandezza si misura anche nella capacità di rinunciarvi. Gli Usa, peraltro, hanno dimostrato ampiamente di non essere interessati a un impero fondato sulla loro nazionalità, ma di voler semplicemente perseguire i propri interessi. Si tratta semplicemente di spiegare, a loro come a tutti gli altri, che in un mondo globalizzato è molto più facile perseguire i propri interessi, su alcuni temi specifici, cedendo elementi di sovranità a un consesso democraticamente costituito che li rappresenti adeguatamente. E soprattutto che questo è il miglior argine contro la marea montante della tirannide. Dobbiamo costruire un’oasi di speranza per tante popolazioni assetate di libertà. L’attrazione gravitazionale della Federazione nei confronti dei paesi esterni sarebbe la migliore garanzia per la sopravvivenza dei principi sui quali basiamo la nostra convivenza e per i quali generazioni di noi hanno dato il sangue.
Non è possibile in questa sede aggiungere altro. Occorre decidere cosa fare di noi stessi e dei nostri figli, che peraltro diminuiscono ogni anno. Se impegnarci nella difesa impossibile dei nostri confini, in un mondo che in realtà non ne ha mai avuto. O se ampliarli, con la conquista pacifica di altre popolazioni che sposino convintamente la nostra società. In questo ampliamento pacifico c’è la soluzione di molti dei nostri problemi. E anche questo è molto difficile spiegarlo con gli argomenti dell’analisi politica e socio-economica. Si può solo intuire, magari ascoltando una storia.
Homo dormiens
Un giorno l’homo sognò di trovarsi in un luogo meraviglioso. Si svegliò deciso ad abbandonare ciò che conosceva per dirigersi verso ciò che aveva sognato. Dopo qualche passo ebbe paura e decise di tornare indietro. Ma il sogno lo perseguitava. Divenne un sonnambulo. Di giorno arretrava. Di notte avanzava. Finché un giorno si svegliò, dopo una brutta caduta, e si accorse di trovarsi in un posto che era diverso da ciò che aveva lasciato, ma anche da ciò che aveva sognato. Ne fu felice. Perché capì subito che aveva trovato qualcosa di meglio.
Questo post fa parte del saggio La Nazione Globale. Verso un nuovo assolutismo, in corso di redazione. Per non appesantire il testo in questo post non sono stati inserite le note al testo, disponibile nell’edizione completa.