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I Sovrani d’Oriente marciano sull’Occidente
Gli squilibri persistenti delle bilance dei pagamenti di mezzo mondo hanno generato una nuova entità finanziaria che ormai da quasi vent’anni ha un posto di tutto riguardo nel salotto buono del capitalismo globale: il fondo sovrano.
Una corposa letteratura, a cui di recente si è aggiunto anche un paper della Banca d’Italia, conferma l’importanza crescente di tali strumenti di governo – perché questo sono aldilà della loro connotazione di investitori – specie in un mondo iperindebitato e alla disperata ricerca di risorse come quello occidentale. Risorse che a questi Sovrani, per lo più allocati in Oriente e Medio Oriente, non mancano. Anzi.
Si calcola che il patrimonio gestito da queste entità sia cresciuto dai 500 miliardi di dollari del 1995 ai 4,7 trilioni nel 2011, e si prevede che tale montagna di denaro raggiungerà quota 10 trilioni fra il 2015 e il 2016. Questo a fronte di un aumento dei Fondi che sono quasi triplicati, da 22 a 59, nello stesso periodo.
Ma aldilà delle questioni quantitative, quello che è interessante osservare è come si comportano questi Sovrani d’Oriente carichi d’oro, come nella migliore tradizione, durante la loro lunga e paziente marcia di avvicinamento all’Occidente, ancora ricco ma sempre più bisognoso.
Il paper di Banca d’Italia, perciò, ha monitorato 2.740 transazioni realizzate da 29 di questi fondi fra il 1990 e il 2010, che hanno movimentato “appena” 565 miliardi di dollari di acquisizioni e 191 miliardi di dollari di dismissioni. Volumi tutto sommato ancora contenuti, ma comunque significativi.
I fondi più attivi sono risultati quelli asiatici, Cina in testa, seguiti da quelli mediorientali. Il picco di attività si è raggiunto fra il 2007 e il 2008, per poi rallentarsi con l’acuirsi della crisi. Il che è comprensibile: quando le risorse scarseggiano i fondi investono in casa propria.
L’analisi di Bankitalia mostra alcune evidenze. I fondi sovrani, al momento, non sono interessati ad acquisire partecipazioni di controllo nelle aziende (ammesso che potessero), ma belle grosse sì. I principali destinatari degli investimenti finanziari sono ovviamente i paesi avanzati, con una particolare predilezione per Usa e Gran Bretagna. Entrambi totalizzano 482 operazioni per un controvalore di 154 miliardi di euro.
L’Italia, per il momento, ha attratto 5,1 miliardi, collocandosi al ventesimo posto della graduatoria. La Germania ha negoziato operazioni per 30 miliardi, la Spagna per 26, la Francia per 16 miliardi.
Nei primi vent’anni di attività, fra il ’90 e il 2010, gli investimenti sono stati prettamente indirizzati nel settore finanziario, ma negli ultimi dieci anni si è notato un crescente interesse verso il settore energetico. I flussi totali in questo settore sono passati dal 5% al 15% dal 2000 a oggi.
La fame energetica, è chiaro, non risparmia nessuno.
Senonché avere a che fare con questi fondi porta con sé alcuni problemi.
Il primo è la scarsa trasparenza. Solo uno su tre di questi fondi raggiunge il livello minimo di trasparenza considerato accettabile secondo gli standard internazionali.
Il secondo è che la quota crescente delle risorse di cui questi Sovrani dispongono e disporranno in futuro porta con sé un potenziale impatto sistemico sui mercati finanziari e sulle aziende prese di mira.
Poi c’è un terzo effetto. Gli afflussi di risorse dall’Oriente provocano un aumento del debito estero dei paesi destinatari, aggravando ulteriormente gli squilibri che hanno alimentato i surplus delle partite correnti.
Per farla semplice: più soldi entrano, più sono destinati a uscirne. In pratica sono i nostri soldi ad alimentare la voracità di questi Sovrani orientali.
Ultima considerazione. Il settore della finanza e dell’immobiliare hanno totalizzato da soli, nel periodo considerato, 580 operazioni per un totale di 315 miliardi di dollari. I settori dove la crisi è nata e da dove si è diffusa sono quelli considerati più attrattivi, per i Sovrani d’Oriente.
Magari però è solo una coincidenza.
Il Capitale? Ormai è in riserva
Per immaginarsi il mondo che sarà (o che potrà essere) abbiamo messo insieme le informazioni contenute in due pubblicazioni, una della Banca dei regolamenti internazionali, l’altra del Fondo Monetario. La prima, intitolata “The great leveraging”, racconta della sbornia di debito che ha coinvolto il mondo negli ultimi 30-40 anni, facendo il parallelo con quanto accaduto dal 1800 in poi. La seconda si intitola “International Reserves: IMF Concerns and Country Perspectives” e racconta dell’evoluzione delle riserve degli stati del mondo. Siccome tutto si tiene, la lettura incrociata di questi illuminanti papers svela alcune cose:
1) L’espansione del credito/debito, misurata con la quantità di asset detenuti dalle banche in rapporto al Pil, si è impennata a partire dagli anni ’80 (quando ha raggiunto, per poi superarlo, il livello della crisi pre 1929), e non si è mai fermata. Il rapporto Bank Asset/Pil, che si collocava intorno a 0,2 nel 1870, nel 2012 vi avviava a superare quota 2. In pratica si è moltiplicata per dieci;
2) anche la quantità di riserve globali si è moltiplicata per 10 fra il 1990 e il 2011. Da circa 1.000 miliardi di dollari, ormai si è superata quota 10.000. Il grosso di queste riserve si trova nei cosiddetto paesi emergenti, quindi grossomodo Cina e paesi esportatori di petrolio;
3) L’accumularsi di riserve trova la sua ragione nella prudenza di questi paesi, che a fronte delle grandi crisi economico-finanziarie che hanno sconvolto il mondo negli ultimi 30-40 anni (a fronte di nessuna crisi rilevata dal dopoguerra al 1970), hanno preferito mettere fieno in cascina per tutelarsi. Molti temono che questa enorme quantità di denaro, riflesso evidente della moltiplicazione del credito/debito, sia una fonte di squilibrio. Ma comunque il volume delle riserve accumulate rimane relativamente piccolo a fronte dello stock globale di asset finanziari in giro per il mondo. Per dare un’idea, a fronte dei quasi 10 trilioni di dollari di riserve, ci sono circa 70-80 trilioni di asset detenuti dalle banche commerciali che arrivano a quota 250 trilioni se si aggiungono i mercati dei bond e delle azioni;
4) Una quota significativa di queste riserve è stata utilizzata dagli stati per rimpinguare i loro fondi sovrani. A febbraio 2008 (ultimi dati disponibili contenuti nello studio del Fmi) c’erano 31 fondi sovrani detenuti da 29 paesi con asset stimati in circa 3 trilioni di dollari. Il Fondo monetario stima che tali fondi avranno un ruolo sempre più crescente sulle finanze pubbliche dei paesi alle prese con squilibri finanziari.
Possiamo trarre alcune conclusioni. La crescita senza precedenti degli asset finanziari nel mondo ha finito con aumentare l’incidenza delle crisi sui cicli economici. L’espansione del credito/debito iniziata con gli anni ’80 ha finito col spostare l’asse della ricchezza finanziaria dalle economie (ex) leader a quelle emergenti. I paesi “emersi” hanno mantenuto il proprio benessere semplicemente indebitandosi con i paesi “emergenti” che hanno visto i propri crediti espandersi allo stesso ritmo dei debiti altrui e hanno imparato a creare riserve per cautelarsi dalle crisi prossime venture, in attesa di capire come questa ipoteca economica diventerà, in un domani più o meno lontano, politica.
Il Capitale, insomma, ha creato altro Capitale ed è finito in riserva.
Che fine farà il capitalismo?
