Etichettato: Friedrich Von Hayek degli anni ’70 (“Denationalisation of money
La lotta al contante, ovvero l’eterno confronto fra élite e popolo
C’è una chiara divaricazione fra il dibattito di politici, economisti e banchieri sull’uso del contante, che oscilla fra pulsioni fiscali (tassazione) e di divieti (soglia uso), e la pratica quotidiana di decine di milioni di persone che si ostinano a girare con le banconote in tasca. Ancora una volta, élite e ceti popolari sembrano assai distanti. Specie nel nostro paese.
L’Italia, secondo una ricognizione proposta lo scorso febbraio dalla Banca d’Italia, è il paese dell’euro in cui è stato rilevato il maggior numero di transazioni giornaliere in contanti (1,7 su 2 transazioni in media). Il 45% delle persone intervistate detto di usare altri mezzi di pagamento, ma comunque la percentuale di quelli che preferisce il contante è un solido 39%, malgrado l’88,9% abbia una carta di credito o di debito.
Le distorsioni generate dal contante vengono ampiamente esaminate in un libro di Kenneth Rogoff (“La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante”, Il Saggiatore, 2017), dove si osservava che, fra le altre cose, «l’eccesso di contante contribuisce in modo decisivo a rendere il mondo più povero, più iniquo e meno sicuro, pone grandi limiti alle politiche monetarie, favorisce l’evasione fiscale e il lavoro nero e rappresenta di fatto un regalo alla criminalità organizzata e al terrorismo». Un atto d’accusa a tutto tondo, arrivato da uno studioso che è stato capo economista del Fmi, e quindi di sicuro molto ascoltato. Si potrebbe argomentare su ognuno dei punti sottolineati da Rogoff, ma vale la pena soffermarsi giusto su uno che sembra meno intuitivo: i limiti che il contante pone alla politica monetaria.
A inizio anno il Fmi ha pubblicato uno studio molto interessante che ipotizzava di dividere in unità – distinte ma facenti riferimento allo stesso conio – la valuta di un paese per arrivare gradatamente proprio all’eliminazione del contante, che limita la capacità della banca centrale, specie quando è eccessivo, di far scendere i tassi di interesse al livello che si potrebbe rendere necessario in caso di una nuova recessione. E siccome il contante può essere custodito senza troppi costi – costringendo un’economia nella keynesiana trappola della liquidità – ecco l’idea: una valuta digitale di banca centrale che denomini i prezzi e che sia vincolata con un rapporto di cambio con quella “analogica”. Mutando il rapporto di conversione in senso svantaggioso al contante, si riuscirebbe a stimolarne l’utilizzo e quindi la spesa. «Questo doppio sistema di valuta locale consentirebbe alla banca centrale di applicare un tasso di interesse negativo (se ne parla parecchio tra banchieri, ultimamente, ndr), necessario per contrastare una recessione, senza innescare sostituzioni su larga scala in contanti».
Suggestioni, senza dubbio, ma comunque indicative di un clima che sta maturando lentamente nei piani alti del sistema. E qui veniamo a un altro punto interessante da sottolineare: l’avvento delle valute digitali. La moneta digitale è chiaramente altro dalla moneta elettronica. Quest’ultima è una replica su supporto (carta di credito, debito, token elettronico, eccetera) del denaro di cui già si dispone dentro un conto corrente. La prima è un’altra moneta, emessa da un privato e non dal potere pubblico. La seconda ha una storia ormai molto lunga, intrinsecamente legata a quella del sistema monetario, che si compone di sistema dei pagamenti e moneta, dove operano la banca centrale e le banche commerciali. Per farla semplice, potremmo disegnare un lunga retta che inizia con l’invenzione del Bitcoin di Satoshi Nakamoto, che risale al 2008, e finisce con l’annuncio della Libra di Facebook di quest’estate. In mezzo c’è tutto un fiorire di strumenti digitali che hanno in comune una sistema di pagamento, in larga parte articolato lungo una blockchain, che funziona all’esterno del sistema bancario, proponendosi – di fatto – di sostituirlo.
Suggestione anche questa, ovviamente. Però da osservare, come ad esempio ha fatto un paper diffuso di recente dal Nber (“The digitalization of money”) che si collega alle intuizioni di Friedrich Von Hayek degli anni ’70 (“Denationalisation of money”). Internet ha reso concreta l’ipotesi di una moneta emessa dai privati quale valida alternativa alla moneta pubblica. «L’importanza della connessione digitale porterà alla creazione di “Aree valutarie digitali” (DCA) che collegano la valuta alla gestione di una determinata rete digitale piuttosto che a un paese specifico». Queste monete “denazionalizzate”, per dirla alla Von Hayek, sono capaci di rivoluzione il sistema monetario internazionale. Questa non è più una suggestione, è una preoccupazione concreta.
Ne è prova il recente paper diffuso dal gruppo di lavoro del G7 dedicato alle stablecoin globali, ossia valute digitali agganciate a un asset – il paniere di valute della Libra di Facebook ad esempio – capaci di travalicare non solo i confini geografici, ma di surclassare le valute tradizionali. Le global stablecoin, scrivono, «hanno implicazioni per il sistema monetario internazionale, compresa la sostituzione della valuta, e potrebbero quindi rappresentare una sfida per la sovranità monetaria». Soprattutto se sono espressione di quei giganti di internet che per clientela e potenza di fuoco finanziaria sono davvero capaci di fare “concorrenza” alle monete pubbliche.
Da qui la preoccupata attenzione con la quale banchieri, centrali e non, regolatori, economisti e politici, stanno monitorando l’avventura non solo di Libra, ma di tutto l’ecosistema delle valute digitali, provando a prendere gli aspetti utili e inglobandoli all’interno del sistema tradizionale. In questa chiave si può interpretare l’avvento delle valute digitali di banca centrale, della quali si parla molto in Svezia – dove c’è un uso molto basso del contante – e in Cina, dove potrebbe essere emesso uno yuan digitale costruendo una innovazione potenzialmente dirompente per il sistema dei pagamenti cinesi e la diffusione internazionale della valuta cinese.
E arriviamo così alla conclusione. Da una parte abbiamo una pletora di utilizzatori di denaro contante che, per abitudine, insicurezza, disinteresse, finalità illecite e altre ragioni, continua a esprimere una notevole richiesta di cartamoneta. Dall’altra una minoranza, che però vive ai piani alti del sistema, che sta decidendo che nell’era digitale un “barbarous relic”, come ebbe a dire Keynes dell’oro, come il contante “analogico” debba finire fuori corso per ragioni che sono di ordine economico (fiscale) e di sicurezza (criminalità/terrorismo).
I protagonisti di questa decisione sono i governi – non a caso della tematica si è occupato il G7 – le banche (centrali e non), le autorità di regolazione, e buona parte dell’accademia, da un parte. Dall’altra i giganti di internet. In alcuni casi sono in perfetta sintonia con il governo – si pensi agli unicorni cinesi – mentre in altri casi stanno cercando un equilibrio. Questi figli di internet vogliono sostanzialmente una fetta della torta degli enormi profitti che generano la gestione del sistema dei pagamenti e della moneta. Che sarebbe una richiesta comprensibile se non fosse che un sistema monetario, perché di questo stiamo parlando, è il frutto di un ordine politico, che non si contratta certo a tavolino.
Probabilmente tutte queste entità troveranno il modo di convivere, in un modo o nell’altro. Far sparire il contante potrebbe essere di sicuro un buon modo per cominciare a intendersi. La gente si adeguerà. Nella storia i cambiamenti avvengono quasi sempre così.
Questo articolo è stato pubblicato sul Sole 24 ore lo scorso 20 ottobre e propone un’interpretazione sociologica della crescente avversione verso il contante da parte delle classi dirigenti. Con il pezzo pubblicato sul Foglio e la lunga serie sul blog completa la ricognizione che abbiamo svolto sulle monete digitali.
La scomparsa del contante nel sistema monetario che sarà
La rigogliosa fioritura di valute digitali dell’ultimo decennio ha innescato una profonda trasformazione nella teoria e nella pratica monetaria, che possiamo analizzare scorrendo un paper recente diffuso dal Nber (“The digitalization of money”). Lo studio ricorda un libro di Friedrich Von Hayek degli anni ’70 (“Denationalisation of money”) e traccia un parallelo molto interessante fra le intuizioni dell’economista e l’evoluzione determinata da internet che ha consentito a soggetti privati di emettere moneta. Si pensi alla saga di Bitcoin.
Diventa perciò attuale l’ipotesi di Von Hayek, secondo la quale una moneta emessa in concorrenza dai privati può essere una valida alternativa alla moneta pubblica fondata su una banca centrale che emette una moneta, avendo alle spalle un governo forte del suo potere impositivo, rendendola credibile abbastanza da essere riserva di valore, unità di conto e mezzo di scambio.
Il paper del Nber arriva ad alcune conclusioni. La prima: “Le valute digitali presentano innovazioni che separeranno le tre funzioni dal denaro, rendendo la concorrenza tra valute molto più accesa”. La seconda: “L’importanza della connessione digitale porterà alla creazione di “Aree valutarie digitali” (DCA) che collegano la valuta alla gestione di una determinata rete digitale piuttosto che a un paese specifico”. Potrebbero nascere monete “denazionalizzate”, proprio come aveva immaginato Von Hayek, anche se su basi completamente diverse.
Le valute digitali possono essere criptovalute indipendenti, come Bitcoin; stablecoin, ossia agganciate ad altre valute, come la Libra di Facebook o USD Coin, o versioni digitali di monete già esistenti, come quella a cui sta lavorando la banca centrale cinese. Possono essere emesse da entità private o da una banca centrale. Uno scenario dove prevalgano le prime implica una perdita di importanza del sistema bancario. In un modello de-centralizzato e disintermediato le banche vengono semplicemente scavalcate. In uno scenario dove prevalgano le seconde, il sistema rimarrà basato sulla fiat currency governativa, ma in versione 2.0. “E’ difficile concordare con gli apocalittici che pronosticano la fine delle banche”, scrivono Riccardo De Bonis e Maria Iride Vangelisti in un libro mandato di recente in libreria dal Mulino (“Moneta, dai buoi di Omero ai Bitcoin”), “Le fintech aumenteranno la concorrenza tra gli intermediari, porteranno a nuove innovazioni dell’offerta bancaria e a riduzioni possibili del numero delle banche, ma non alla loro scomparsa”. Si immagina quindi una sorta complementarietà fra i due scenari che abbiamo tratteggiato che però hanno una cosa in comune: possono fare a meno del contante. Quindi tutto sembra portare in questa direzione. E molti ne sarebbero felici. Vale la pena ricordare un libro di Kenneth S. Rogoff, (“La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante”). La tecnologia, dicono, trasformerà il dannoso denaro analogico in un utilissimo denaro digitale. Lo sterco del demonio diventerà cioccolata.
E qui arriviamo alle cronache. Del lancio di Libra si ricordano le successive intemerate di Donald Trump contro il progetto e del governatore della Fed Jerome Powell, per una volta d’accordo su qualcosa. La levata di scudi delle principali banche centrali è stata pressoché unanime. Fra gli altri vale la pena ricordare un intervento di Benoit Couré, componente del board della Bce, dove si osservava come “le iniziative di stablecoin globali, come la Libra, si riveleranno dirompenti in un modo o nell’altro”. Il banchiere, convinto “che solo il denaro pubblico possa garantire una riserva sicura di valore, un’unità credibile di conto e un mezzo di pagamento stabile”, auspicava la creazione di “un ambiente in cui i sistemi di pagamento pubblici e basati sul mercato si completano a vicenda”. Una visione che le cronache rendono già attuale e non solo nelle economie avanzate. Al contrario. Nell’iconografia corrente il contadino del paese emergente ormai si raffigura con uno smartphone in mano, non con la carta di credito. E non è un caso. In Cina, al progetto di moneta digitale sponsorizzata dalla banca centrale potrebbero partecipare anche i giganti locali di internet che muovono numeri più che rispettabili. Quest’anno Alipay ha raggiunto gli 870 milioni di user e il volume trimestrale degli scambi mediati dalla piattaforma quota sette trilioni di dollari. Queste entità, formalmente private, sono la perfetta rappresentazione di quel peculiare connubio fra pubblico e privato che caratterizza l’economia cinese. Il dispotismo asiatico, per usare una vecchia definizione, troverà sicuramente di che esercitarsi con le valute digitali.
Se dalla Cina ci spostiamo in India lo scenario cambia poco. Nel luglio scorso un comitato interministeriale aveva suggerito di mettere fuorilegge tutte le monete virtuali, salvo poi suggerire lo sviluppo di una moneta digitale emessa dalla banca centrale, che sembra l’ideale completamento della riforma monetaria indiana culminata nella demonetizzazione delle banconote di grosso taglio decisa a fine 2016. Ma al momento le monete virtuali possono ancora circolare e secondo alcune indiscrezioni rilanciate dal giornale on line The Verge, Il Ceo di Facebook Mark Zuckenberg avrebbe parlato di test sulla circolazione di Libra proprio in India, oltre che in Messico. Ossia lo stesso paese dove, alla fine del settembre scorso, il governatore della banca centrale ha presentato una nuova piattaforma per i pagamenti digitali che ha il fine dichiarato di ridurre l’uso del contante tramite lo sviluppo di pagamenti via app telefoniche collegate al circuito bancario.
Se dall’Asia e l’America latina ci spostiamo in Africa, troviamo quello che alcuni osservatori chiamano il paradiso delle criptovalute. Botswana, Ghana, Kenya, Nigeria, Sud Africa e Zimbawe sono massicci utilizzatori di Bitcoin. Alcuni lo usano per difendersi dall’inflazione, ma riescono a farlo soprattutto perché c’è stato uno sviluppo notevole delle infrastrutture informatiche che alimenta la diffusione degli smartphone. Si stima che entro il 2020 si saranno oltre 720 milioni di sottoscrittori di contratti telefoni. L’industria della Mobile money, ossia dei pagamenti svolte tramite app, è in crescita costante con transazioni cresciute dieci volte dal 2011 in poi. Fra i servizi più noti alle cronache c’è M-Pesa, servizio di pagamenti mobili sviluppato sulla rete mobile Safaricom che secondo la banca centrale del Kenya ha fatto circolare oltre 38 miliardi di dollari fra i suoi 40 milioni di aderenti. L’Africa d’altronde è la terra dove l’anno scorso metà degli investimenti delle startup sono andati al fintech.
Ma il futuro delle monete digitali e quindi del sistema monetario non verrà certo deciso in Africa. Nei paesi avanzati le cronache si rincorrono freneticamente sotto gli occhi ansiosi di regolatori, economisti e banchieri. Ognuno di loro guarda cose diverse, ma fondamentalmente arriva alla stessa conclusione: nel sistema monetario che verrà, col vecchio monopolio pubblico insidiato dai privati, non c’è più bisogno delle vecchie banconote. Nel meraviglioso (e oppressivo) mondo digitale che stiamo costruendo un simile strumento analogico è un “barbarous relic”, come ebbe a dire Keynes dell’oro. Roba fuoricorso. Su questo governi, banche centrali e giganti hi tech troveranno di che intendersi.
Questo articolo è stato pubblicato sull’inserto economico del Foglio il 16 ottobre scorso. E’ un buon epilogo per la miniserie sulle monete digitali che abbiamo sviluppato nei giorni scorsi.
